My Son, My Son, What Have Ye Done

L’incontro fra due forti personalità, fra due artisti eccentrici come Werner Herzog e David Lynch poteva lasciare dubbiosi, troppo diversi gli stili di narrazione e il genere di storie messe in…

Regia: Werner Herzog
Cast: Michael Shannon, Willem Dafoe, Chloë Sevigny
Distribuzione: One Movie
Voto: 55

L’incontro fra due forti personalità, fra due artisti eccentrici come Werner Herzog e David Lynch poteva lasciare dubbiosi, troppo diversi gli stili di narrazione e il genere di storie messe in scena finora. Ma in My Son, My Son Herzog è il regista e Lynch il produttore esecutivo e così, sulla carta, l’incontro era stimolante. Purtroppo il risultato è un ibrido nel quale prevale l’impronta di Lynch al punto che, quando il film è stato presentato a Venezia lo scorso anno, in contemporanea ad un altro film di Herzog, Il cattivo Tenente, si era pensato che la firma di Herzog coprisse un ben più corposo intervento di Lynch, in una specie di gioco col pubblico di appassionati. La storia è ispirata a fatti realmente accaduti nel 1979. Siamo a San Diego, in uno dei soliti ghetti borghesi nelle periferie delle grandi metropoli, in una villetta rosa confetto, con ordinato giardino di ostili cactus, solo un’inquietante mania per i fenicotteri, come animali da cortile oltre che elemento ornamentale o di arredamento. Brad (il Michael Shannon di Revolutionary Road) è un giovane uomo, ex promessa del basket, afflitto da madre ossessiva e ricattatoria, con fidanzata un po’ catatonica (ma forse è colpa dell’interprete, Chloë Sevigny), un intransigente insegnante di recitazione (Udo Kier) e nessun altro contatto sociale, dopo aver perduto tutti gli amici in una spedizione in Perù, durante un’escursione in kayak.

Vive ormai rattrappito in un’esistenza sempre più angusta e le sue bizzarrie vengono ignorate o sottovalutate, nessuno fa caso ai primi sintomi allarmanti, nessuno cerca di prendere provvedimenti, lasciando che il disagio esistenziale dilaghi e si incancrenisca. Tutta la storia l’apprenderemo in flashback, attraverso il racconto che di lui fanno fidanzata e insegnante al poliziotto Havenhurst (Dafoe), mentre Brad è asserragliato in casa con (forse) due ostaggi dopo aver ammazzato la madre con una spada usata sul palcoscenico, durante le prove di uno spettacolo da cui è stato poi estromesso, l’Elettra di Sofocle, in cui Oreste uccide proprio la sua genitrice. Mentre l’uomo da solo con la sua follia sbraita inutili proclami, all’esterno della luminosa casetta, nella luce abbagliante del sole si coagula la macchia buia della SWAT, con i cecchini in postazione.

Solo dopo che la sua pazzia, a lungo annunciata, è esplosa, il mondo finalmente converge su di lui, concedendogli l’attenzione sempre negata, in questo solo ricordando altri eroi disperati le cui storie altrettanto vere avevano attirato l’interesse di Herzog. Questa volta però la storia di follia non riesce a irretire come è stato per altri folli personaggi narrati dal geniale regista, perché l’insanità di Brad non ha niente di epico, di grandioso, di condivisibile. La sua tentata fuga nella natura, da cui però si è ritratto, non è paragonabile a quella di altri protagonisti, non è uno di quegli “eroi” di cui Herzog ha detto: “….sono eroi nella misura in cui superano le loro condizioni, escono dal proprio schema e vanno ben oltre le loro possibilità, prima di fallire di fronte a questa enorme sfida. È un comportamento che ci permette di salvaguardare la nostra dignità”. L’equilibrio fra due poetiche così diverse come quelle di Lynch e Herzog non è riuscito, la contaminazione ha solo nuociuto alla storia, che talvolta vira inutilmente sul grottesco. Del resto il caso clinico da solo non poteva offrire abbastanza materiale narrativo, perché in fondo solo di questo si tratta, di un trascurato caso clinico, di una storia di infelicità acuta incompresa, sfociata in tragedia.

A tratti inutilmente criptico (ogni tanto i personaggi si bloccano a lungo, come in un fermo immagine), carico di simbolismi cui si possono attribuire o non attribuire significati, il film sembra una brutta copia di un lavoro di Lynch stesso, così come lo era stato Slipstream, l’esordio alla regia di Anthony Hopkins, con l’ossessione per i fenicotteri, l’apparizione di un nano, la location alla Blu Velvet, l’incongruo personaggio dello zio allevatore di struzzi. La sensazione è accentuata dalla presenza di due suoi attori abituali, Grace Zabriskie (Cuore selvaggio, Twin Peaks, Inland Empire), che è la madre, e Udo Kier. Eppure, a smentire questa forte impressione, Herzog ha affermato: «Ci siamo detti che avremmo dovuto fare insieme dei film per raccontare grandi storie, ma con budget ridotti e senza le star da venti milioni di dollari. Lynch mi ha confidato che per lui questo progetto significava un po’ tornare ai tempi dei suoi primi film, e quando gli ho detto che avevo un progetto già pronto, mi ha chiesto di iniziare a lavorare subito. Lui sarebbe comparso come produttore esecutivo, ma per tutta la lavorazione del film si è tenuto a distanza. Bizzarramente, anche se non ha avuto parte attiva, il suo cinema e il mio film hanno trovato un punto di contatto in alcuni momenti. La gente pensa che abbiamo collaborato, che abbiamo scritto insieme la sceneggiatura, ma la verità è che Lynch non ha avuto alcun ruolo, né per la sceneggiatura, né per la regia, né in fase di montaggio e neppure nella scelta delle musiche». Il film così potrà spartirsi gli estimatori dei due registi, scontentando, secondo il nostro parere, entrambi.