π-retro #13 – Uccidi i tuoi idoli

Riflessioni tra il dark e il noir sulla misteriosa unicità dei videogame anni Ottanta, e sul rapporto tra opera, autore, pezzi unici e ricette infinitamente riproponibli.

Mi misi il cappotto e uscii. L’intervista con Michitaka Tsuruta mi aveva spossato. Non nella tempra fisica, viste e considerate le falcate con cui mi allontanavo lungo il marciapiede. No. Ciò che sentivo destabilizzarsi ogni minuto di più era quel senso di certezza che scaturisce dalle cose buone, dalle cose che ci piacciono. Sapere che la Nutella è buona ci fa stare bene anche solo a pensarci, mica dobbiamo ingozzarci.

Ecco. Per me, i videogame degli anni Ottanta rappresentano quella effimera età dell’Oro verso cui si rivolge la propria anima nei momenti difficili. Ma non perché sono degli anni Ottanta: perché sono proprio quelli, con quella struttura e quella dinamica di gioco. Fin da bambino, quando ero triste, mi bastava pensare a Ghosts’n Goblins o Bubble Bobble per ritrovare il buonumore. Il compiacimento verso l’eccellenza porta all’elevazione, un’ascesi antitetica alle basse involuzioni di chi si crogiola nei ricordi.


Nah, non sono io. Non ho le tette. Nemmeno lei, in effetti. Ha qualcosa di quasi meglio.

Non bisognerebbe mai incontrare i propri miti, in effetti, ma limitarsi ad adorarne le creazioni, e ora sapevo perché. Intervistando Tsuruta avevo gettato un ponte di realtà tra lui, me e Bomb Jack. E la realtà demitizza così come la conoscenza è foriera di sofferenza. Ora sapevo che l’autore di alcuni dei miei giochi preferiti di sempre era oramai ridotto a fare “giochini per cellulari”, esperimenti in Flash senza rilevanza cosmica. Nemmeno cinquant’anni, e Tsuruta era messo al margine dell’industria videoludica. Un po’ per la sua coraggiosa scelta di diventare un free lance nella rigida società aziendalistica nipponica degli anni Ottanta/Novanta. Ma anche un po’ perché aveva esaurito le idee davvero forti. Come biasimarlo, d’altro canto? Fukio Mitsuji (il game director di Bubble Bobble) diceva che uno nella vita può avere al massimo una, due buone idee. Secondo me, poi, nell’industria della comunicazione di massa si possono avere idee riproducibili, che chiamo “ricette”: delle tecniche, delle formule con cui riproporre la medesima idea in modo apparentemente sempre nuovo – ma di fatto, è sempre la stessa ricetta riproposta. Pensiamo alle serie più famose e graziate da un successo che perdura, come i Pokémon: l’idea è effettivamente una, poi declinata e fatta evolvere nei modi più disparati.

Il papà di Bomb Jack e Solomon’s Key ha avuto due idee, ma idee “one shot”, non idee-ricette. Già, perché in alcuni casi è proprio difficile aggiungere qualcosa a un videogame già perfetto. È la ragione per cui Fukio Mitsuji, dopo Bubble Bobble e Rainbow Islands si è levato di torno, consapevolmente propenso a lasciare spazio ai giovani. Per poi morire giovane, nel dicembre del 2008. Giovane ma sereno, vogliamo pensare.

Cominiciava a fare freddo, il crepuscolo era terso e luminoso come in certe puntate di Maison Ikkoku. Continuavo a pensare a Tsuruta che si arrabatta chiedendo lavoro ai suoi amici di sempre, un po’ infastidito che a esserne turbato ero io, non lui. Lui era sereno, addirittura umile, come spesso sanno essere i giapponesi. Ho fatto questo, ho fatto quello, ora mi arrabatto, so what? È nella natura delle cose. È più abominevole, dal punto di vista di un Tsuruta o un Mitsuji, incaponirsi e trasformare in serie anche i giochi meno serializzabili solo per cercare facili consensi ad ogni costo. E infatti hanno lasciato ad altri l’onore e l’onere di fare infiniti seguiti, spesso drammaticamente derivativi, utilizzazioni forzate, a volte piacevoli, a volte meno, dell’idea originaria tramutata in ricetta.

Ma qualche riproposizione di Bubble Bobble ha davvero saputo dire qualcosa in più del capostipite? No. Bomb Jack? Nemmeno. Più facile è fare seguiti dei giochi odierni, che spesso partono con dei primi episodi che sono quasi una versione 0.5, quasi a lasciare apposta margini di miglioramento.


Bomb Jack Twin (1993): non fatevi fregare! Datelo alle capre.

 Mentre pensavo a tutte queste cose, il crepuscolo si era definitamente spento, apparentemente proprio dentro il tazzone di ramen che stavo ora trangugiando al bancone di un ristorante giapponese. Ma mi sentivo rincuorato. Ripensavo a quella maglietta indossata da Axl Rose al concerto tributo per Freddie Mercury del 1992. C’era sopra Gesù con la corona di spine e la scritta “Kill Your Idols”. Uccidi i tuoi idoli. Vivi e godi della loro opera, sottinteso. Non cercarne un’inutile nobilitazione anelando a entrare in contatto con i suoi autori.


Con tutta l’inutilità che attrbuisco al 90% della sua produzione.

Misterioso e unico è il capolavoro dei videogame degli anni Ottanta, non perché sono vecchi, non perché sono classici, ma perché sono spesso esperimenti compiuti, nati come “prove di concetto” ma spesso più completi e finiti di quanto si possa pensare di fare oggi, con giochi troppo pieni, troppo complessi, troppo perfettibili. Fa piacere vedere come PlayStation Network, Live Arcade e WiiWare stiano offrendo molte perle legate a quel modo antieconomico di fare giochi: escogito un grande concept e me lo brucio tutto in un gioco breve, intenso, denso come la melassa ma leggero e veloce come il pensiero. Braid 2? E perché mai? Lo giocheremmo, se uscisse. Certo. Ma non sarebbe bello vederlo rifulgere della mistica luce del pezzo unico? “Blade Runner”.