God of War – Recensione

God of War 2 Santa Monica Studio

Se dovessimo indicare una saga che più di altre è riuscita a caratterizzare e rendere riconoscibili il brand PlayStation e il videogioco made in Sony a partire dagli anni 2000 ad oggi, la scelta ricadrebbe molto probabilmente su God of War. La furiosissima epopea dell’eroe spartano Kratos, cominciata nel 2005, è immediatamente diventata un’icona del suo tempo e ha contribuito non poco a consegnare alla storia la cara vecchia PlayStation 2 come console più apprezzata al mondo. Il gioco di SCE Santa Monica riuscì nell’impresa di unire un comparto tecnico quasi miracoloso ad un gameplay che, figlio dei tempi che cambiavano, stravolgeva parecchie convenzioni ed eliminava alcuni paletti tipici degli action vecchio stampo, senza per questo ambire alla raffinatezza della scuola nipponica, ben rappresentata da titoli come Devil May Cry. Tutto ciò, unito ad un’estetica incredibile, un racconto potente ed un universo relativamente inesplorato nei videogiochi, diede vita ad una micidiale combinazione all’insegna dell’ultraviolenza più sfrenata, il cui culmine venne raggiunto due anni dopo da God of War II; da allora, però, pur mantenendo un buon seguito, la serie entrò in una parabola discendente, alimentando diverse voci sulla probabile chiusura dei Santa Monica, spesso ingloriosamente impegnati a supportare progetti di altri studi. In realtà il team californiano stava semplicemente aspettando il momento propizio per riportare in vita la sua serie di punta, come l’araba fenice. Ed ora, finalmente, God of War è tornato trascinandosi dietro lo stesso, identico nome del primo capitolo: questo non è un caso, perché il vento di cambiamento che il “nuovo” Kratos porta con sé è esattamente il medesimo di tredici anni fa.

Ormai lo sanno anche i sassi, ma è bene ribadirlo di netto e con fermezza: God of War non è progredito soltanto dal punto di vista cronologico, limitandosi a mettere un altro tassello sulla sua linea temporale, ma, al contrario, sotto molti aspetti è diventato un videogioco completamente nuovo, il che non significa che i punti di contatto con i precedenti non ci siano e non siano avvertibili. Di certo, però, se è un semplice more of the same che cercate e siete fra quelli che da quasi due anni continuano a mormorare che “eh si, ma non è God of War”, potete anche smettere subito di leggere, tornare su Ascension e continuare in eterno a rattristarvi perché non è come gli altri tre (ma anche come i primi due, suvvia, puntiamo davvero in alto).

Su e giù per l’Albero del Mondo

Del resto, Cory Barlog e i suoi sono stati chiarissimi dalle prime interviste e scambi d’opinioni: a sentir loro, il “vecchio” God of War aveva già dato tutto quel che poteva (come dargli torto, in effetti?) e si sentiva la necessità di un rinnovamento, espresso innanzitutto a livello di contesto narrativo. E quindi diciamo addio (per sempre?) alla mitologia greca, sostituita da un setting diametralmente opposto, quello dei miti e delle favole norrene, fatte di altri luoghi, divinità e credenze; un passo che sulla carta potrebbe sembrare coraggioso e perfino rischioso. In realtà il nuovo pantheon che fa da sfondo all’avventura non offre grossi spazi per chissà quali sperimentazioni o ibridazioni, anzi, pesca a piene mani dal folklore già esistente, menzionando Odino, Thor e altri déi, avvenimenti fra cui il Ragnarok (la fine del mondo), oltre a creature mitologiche come il Serpente del Mondo e sopratutto i Nove Regni. L’iconografia classica della serie ne esce completamente capovolta, con ciclopi, minotauri e gorgoni sostituiti da elfi scuri alati nel regno di Alfheim, enormi troll di ghiaccio a Niflheim e mostruosità varie un po’ dappertutto. Dal canto nostro, già durante le prime ore siamo rimasti letteralmente ammaliati da un simile fiume di novità, bramosi di saperne di più, ma anche disorientati dalla quasi totale assenza di elementi familiari. Ciò visto e considerato è dunque perfettamente normale, all’inizio dell’avventura, aggrapparsi a qualunque cosa abbia una parvenza di già visto… Kratos compreso.

Il filo conduttore, neanche a dirlo, è rappresentato dal protagonista stesso: dopo tanti anni, il fu eroe spartano è ancora lì, fiero, possente e impavido, eppure profondamente diverso e segnato dalle mille battaglie combattute. Anche lui è stato costretto ad adattarsi, a ricominciare daccapo, a reinventare sé stesso per mimetizzarsi nel contesto generale e non sembrare un pesce fuor d’acqua. Svestiti i panni del guerriero che si limita a fare terra bruciata attorno a sé e a prendere lo scalpo di ogni Dio gli si pari di fronte, ora Kratos deve pensare anche e soprattutto a fare il padre, prendendosi cura di suo figlio Atreus.

Un rapporto complesso

L’avventura è incentrata sul tema del viaggio: padre e figlio abbandonano la propria casa nei boschi per andare a spargere le ceneri della madre del ragazzo su di un’alta montagna, affrontando insieme un lungo cammino che li spingerà ai confini del mondo. Il loro rapporto è da subito un elemento centrale e denota la maggior profondità della produzione a livello narrativo, con personaggi la cui psicologia viene stavolta esplorata in lungo e in largo, pur senza giungere a chissà quali profondità o sfaccettature. Kratos e Atreus vivono di silenzi e di frasi lasciate a metà, l’uno timoroso che il figlio possa scoprire segreti innominabili sul passato e sulla natura di entrambi, l’altro combattuto fra l’abbandonarsi alla rabbia e al dolore o l’accettare gli insegnamenti che il burbero padre tenta di dargli, nella volontà di proteggerlo anche da sé stesso. Il viaggio che entrambi compiono è anche e soprattutto un percorso di riflessione nel quale imparano pian piano ad appianare ogni divergenza e a rafforzare un legame che, pur complicato, è forte e profondo. Non tutti i tasselli sono esattamente al posto giusto, però: malgrado l’estrema cura riposta nella narrazione e nell’interazione fra i personaggi, talvolta si ha la netta impressione che una mano invisibile cerchi di tirare i dialoghi un po’ troppo per le lunghe, al solo fine di allungare il più possibile il racconto e a tutto svantaggio del ritmo generale, che non è sempre cadenzato alla perfezione. A difesa delle scelte operate dal team va detto che gestire le redini della narrativa in maniera ottimale per oltre 20 ore (il gioco è parecchio longevo, e si arriva a sfiorare le 50 se ci si dedica alle attività secondarie, al post-game e alla raccolta dei collezionabili) non era affatto semplice, ma Barlog e compagni ci sono riusciti ottimamente nel 90% dei casi. Quando poi si torna ad esplorare e a combattere, ecco che l’essenza originaria di God of War, sopita sotto uno strato di neve e ghiaccio, riaffiora e si fa sentire con la sua solita prepotenza, e riesce sempre a splendere pur trovandosi inserita in un sistema molto, molto diverso dal passato, accontentando chi dal brand ideato da David Jaffe ha sempre (giustamente) preteso violenza e tamarraggine.

Frecce, asciate, pugni e scudo

L’anima ludica del gioco, che non è né un sequel né un reboot ma piuttosto un interessante “ibrido” fra queste due definizioni (e ci fermiamo qui, perché non vogliamo rivelarvi nulla di più della storia), poggia su uno scheletro ruolistico che offre diverse armi e armature da potenziare e skill da sbloccare seguendo una progressione perlopiù lineare, nel caso sia di Kratos che di Atreus. Il primo ha a disposizione la fidata ascia Leviatano e lo scudo (oltre ai semplici pugni), mentre il secondo può fare affidamento sull’arco Artiglio. Detto così potrebbe sembrare tutto fin troppo semplice e banale, ma nella pratica non lo è affatto. Tanto per cominciare, per calarsi davvero nel gioco con cognizione di causa bisogna azzerare mentalmente qualsiasi meccanica imparata nei precedenti God of War, che erano hack&slash a orde e con una camera a volo d’uccello che permetteva di gestire la situazione in maniera differente, forse più esagerata e più tamarra, ma in un certo senso anche più approssimativa. Dite addio a quel sistema: qui si combatte alternando intelligentemente parate e contrattacchi in fase di difesa, e, in fase di attacco, integrando il tutto con le frecce di Atreus e la possibilità di lanciare Leviatano contro i nemici, immobilizzandoli per qualche istante mentre si corre via per recuperare salute o ci si concentra sull’anello debole del gruppo. L’ascia può poi tornare nelle mani del suo proprietario con la semplice pressione di un tasto, infliggendo danni anche in questa fase. Se invece si decide di combattere a mani nude, i pugni – pur colpendo con minor forza – possono permettere a Kratos di stordire i nemici con maggior rapidità rispetto all’ascia, privilegiando in questo modo uno stile più improntato sulle cinematografiche e sanguinolente esecuzioni, uno dei più noti marchi di fabbrica della serie. Se poi si riempie la barra della furia di Sparta è letteralmente possibile trasformarsi per qualche secondo in un mini-Hulk immortale, in grado di rivaleggiare senza alcun timore anche con il nemico più coriaceo. Tutto ciò permette di dar vita a tattiche sorprendenti e manovre spesso fuori parametro per violenza e spettacolarità, anche grazie alla notevole vicinanza della telecamera alle spalle di Kratos, dettaglio che rende ogni singolo combattimento una gemma a sé stante ed una vera e propria esaltazione di potenza fisica. In riferimento al campionario di nemici, la ciliegina sulla torta dovrebbe essere rappresentata dalle boss fight, che però sfortunatamente non sono poi così tante e, escluse un paio, neppure davvero memorabili, ma si lasciano giocare e tutto sommato offrono un buon grado di sfida, specie contro nemici umanoidi. Anche a difficoltà normale, la gran parte degli scontri non è affatto una passeggiata: si muore spesso e volentieri, e per guadagnare il checkpoint successivo bisogna vendere cara la pelle e utilizzare con intelligenza tutte le opzioni a propria disposizione. La profondità del sistema, che diventa già notevole man mano che si cominciano a sbloccare le manovre più avanzate, è ulteriormente ampliata dalla possibilità di potenziare le armi per renderle più forti o personalizzarle con diverse rune, ognuna con effetti sempre più potenti e diversificati man mano che ci si avvicina alla fine del gioco e si ottiene l’accesso agli oggetti più rari. Certo, God of War non può definirsi un RPG a tutti gli effetti e mai lo diventerà, ma le aggiunte in tal senso sono perfettamente comprensibili oltre che gradite: visti i tempi che corrono, sarebbe stato a dir poco folle non inserire in un titolo di simile caratura qualche ormai comunissimo elemento da gioco di ruolo. 

Se il combattimento è stato stravolto in positivo, nella struttura del mondo di gioco la necessità di innovare si sentiva meno: anche qui, come nei predecessori, la mappa è suddivisa in enormi dungeon, contraddistinti da un ottimo level design e conditi con i soliti puzzle tipici della serie, piuttosto elementari ma abbastanza variegati, molti dei quali prevedono anche l’utilizzo combinato delle proprie armi per essere risolti. L’ascia di Kratos può congelare ingranaggi e simili, e permette di risolvere enigmi basati sul tempismo o sulla logica: le frecce di Atreus, invece, sono fondamentali per superare alcuni passaggi chiave che richiedono l’attivazione di specifici meccanismi, utili a sbloccare ogni strada e scorciatoia: tali opzioni, ottenibili piuttosto in là nel corso del gioco, permettono al ragazzo di trasformarsi anche durante gli scontri, diventando una vera e propria arma letale più che un elemento di disturbo. I “prestiti” moderni ad un world design già di per sé ottimo riguardano più che altro la possibilità di compiere viaggi rapidi da una zona all’altra e il fatto che quasi tutte siano collegate fra loro tramite un comodo hub centrale. Pur non essendo enorme, la mappa è incredibilmente variegata in termini di ambientazioni oltre che farcita di un buon numero di compiti secondari, molti dei quali accessibili nella seconda metà del gioco, completabili a piacimento quando lo si desidera e caratterizzati da una buona varietà e diversificazione; addirittura, qualche missione endgame finisce per rassomigliare vagamente ai calici di Bloodborne, e non vi spoileriamo oltre. Per il resto, si va dal semplice recupero di oggetti al ripulire intere zone secondarie e segrete, che altrimenti resterebbero inesplorate seguendo la sola storia principale e che permettono di trovare ed equipaggiare oggetti segreti molto potenti, utilissimi se ci si cimenta nell’ardua sfida delle difficoltà più alte. Durante le nostre peregrinazioni fra un luogo e l’altro non abbiamo notato un solo angolo che fosse meno curato di tutto il resto, a riprova dell’attenzione certosina e del lavoro titanico alla base della realizzazione di ogni singolo scenario. A livello tecnico, neanche a dirlo, siamo di fronte ad un capolavoro visivo, una delle produzioni più imponenti mai viste su PlayStation 4 e in generale nell’attuale generazione di console: rispetto ad Horizon Zero Dawn, ad esempio, God of War compie un deciso passo avanti nella modellazione di personaggi e ambienti, negli shader e nell’illuminazione, sebbene debba muovere una quantità di oggetti su schermo nel complesso molto inferiore e talvolta si notino un po’ di comprensibili artefatti visivi, leggermente più persistenti su PS4 standard, che comunque svaniscono di fronte ad un quadro d’insieme semplicemente maestoso. Il tutto è impreziosito anche da una chicca tecnica, fortemente voluta dallo stesso Barlog: l’uso di un unico piano sequenza, che non concede stacchi di camera né caricamenti dall’inizio alla fine del gioco e ben si sposa con il differente tono, più riflessivo, dell’opera. Infine, una nota di merito va anche all’eccezionale comparto sonoro, che può essere apprezzato appieno solamente dotandosi di buone cuffie o di un impianto 5.1 o 7.1, e all’ottimo doppiaggio in lingua italiana. In questo caso bisogna dare i giusti meriti ai doppiatori nostrani, i quali riescono spesso ad infondere notevole enfasi in ogni parola, dando il giusto pathos ad ogni scambio di battute e conferendo all’azione un accompagnamento magistrale, di stampo cinematografico; malgrado il cambio di timbrica che ha interessato diversi personaggi, il risultato finale non ha nulla da invidiare alle voci originali, anzi, in alcuni casi (come in quello di Kratos) le supera di slancio.

https://www.youtube.com/watch?v=P1ejSa_gonc

God of War è esattamente come ce lo aspettavamo: un videogioco che non ha paura di stravolgere alla base gli stilemi della serie di appartenenza, cambiando ed innovando dove necessario, nel rispetto sia della visione del team che della storicità del brand e del suo protagonista, la cui imponenza non è stata intaccata di una virgola. Kratos è ancora Kratos, anche e soprattutto grazie all’eccezionale struttura ludica che si trova a calcare. Già, perché i Santa Monica ce l’hanno fatta su tutti i fronti, confezionando un’avventura caratterizzata da una narrativa adulta e matura, un combat system divertente e profondo e un ottimo comparto visivo e sonoro, che verrà ricordata come una delle migliori che si siano mai viste per PlayStation 4. God of War, nel 2018, fa esattamente quel che il capostipite della serie aveva già fatto nel 2005: quasi alla fine di un ciclo, porta nelle case dei possessori della console Sony un concentrato di azione e adrenalina purissime, in grado ancora una volta di far impallidire (quasi) qualsiasi cosa si sia vista in precedenza. Pretendere di più, onestamente, era davvero difficile.

Nato nello scorso millennio con una console fra le mani e rimasto per molti anni confinato nel mondo distopico della Los Angeles del 2019, ha infine deciso di uscirne per divulgare al mondo intero le sue più grandi passioni: il videogioco in tutte le sue forme, il cinema (quello vero) e Dylan Dog.