Ancestors The Humankind Odyssey Recensione

Ancestors The Humankind Odyssey

Ancestors The Humankind Odyssey RecensioneSe la prima volta che si avvia Ancestors: The Humankind Odyssey si rimane spiazzati, figuratevi come ci si sente al momento di doverlo inquadrare, dandogli una forma e un genere ben definiti. Valutare il videogioco di Patrice Désilets e di Panache Digital Games servendosi di canoni tradizionali è un’impresa titanica, e forse è meglio non farlo: d’altronde è la scoperta il motore immobile alla base di un’esperienza come questa, e rivelarvi in anticipo tutto quel che, meccanicamente, potete fare sarebbe assimilabile a un vero e proprio spoiler. Anche perché è proprio lì che si annida l’essenza del videogioco del papà di Assassin’s Creed, il quale, nella sua atipicità e nel continuo desiderio di uscire dalla propria comfort zone, incarna perfettamente un archetipo di game designer non più così comune al giorno d’oggi. Non in un mercato spesso volto alla massima resa commerciale con il minimo sforzo creativo, perlomeno. Ancestors: The Humankind Odyssey nasce proprio da quell’irrefrenabile impulso di rimettersi in gioco, dando vita a qualcosa che verrà ricordato non tanto per le proprie, intrinseche qualità, quanto per il modo in cui vengono espresse.

Ancestors The Humankind Odyssey

Il continuo senso di scoperta è il motore che muove ogni singola azione nel gioco.

Ancestors The Humankind Odyssey: l’evoluzionismo secondo Panache Digital Games

Nella sua definizione più tradizionale e universalmente accettata, Ancestors si può circoscrivere entro i canoni del survival game in un mondo sandbox. Una simile descrizione, però, rischierebbe di squalificare, anzi, addirittura di invalidare la bontà di certe idee, che vanno ben oltre la tradizionale concezione di genere videoludico, senza però nemmeno puntare – non dichiaratamente, almeno – a ridefinirne i canoni, collocandosi in una zona grigia che non entra in diretta competizione con nessuno. Anche perché di survival puro, come vedremo, il videogioco di Désilets ha solamente l’incipit e le prime due dozzine di minuti, trascorse ad imparare come soddisfare i bisogni primari della propria tribù. Ancestors segue infatti le vicende dei primi ominidi apparsi sulla terra, da un punto di vista romanzato ma contornato di connotati squisitamente veritieri, tratteggiati servendosi della consulenza di scienziati ed esperti di evoluzionismo. Sin da subito il gioco si “concede” quasi completamente al nostro controllo, senza spiegare praticamente nulla – se si escludono due striminzite schermate di tutorial per i comandi base – e invogliando all’esplorazione, alla sperimentazione, alla scoperta. Le prime ore trascorrono nel totale spaesamento, nell’incertezza e nella paura di fare qualcosa di sbagliato, ma soprattutto nel constatare con sgomento – che pian piano diventa interesse – che il gioco non reagisce in maniera veemente, punendo o ricompensando il giocatore, ai suoi primi, timidi tentativi di mettere la testa fuori dal guscio; al contrario, lo lascia totalmente libero, sperduto nella giungla di dieci milioni di anni fa. Ci si rende presto conto che Ancestors non è tanto un videogioco in cui l’obiettivo ultimo è quello di sopravvivere, quanto quello di imparare: l’intera avventura è una continua rivelazione, in cui, per immedesimarsi al 100%, è innanzitutto fondamentale saper trovare le “proprie” impostazioni legate all’interfaccia. L’opzione completa, che vi mostra chiaramente su schermo ogni oggetto scoperto o non scoperto, è senza alcun dubbio la meno indicata e può arrivare addirittura ad essere un malus, “anticipando” ogni novità prima che essa si palesi davanti ai nostri occhi. Meglio, dunque, propendere per quella più immersiva, lasciando il compito di individuare gli oggetti circostanti – che si tratti di un predatore, un nuovo insediamento, una zona di pesca, un cespuglio con delle bacche o una drupa curativa su un albero – ai sensi del cugino primate ai nostri comandi.

Ancestors The Humankind Odyssey

L’analisi di nuove fonti di cibo, nuovi oggetti e in generale la continua sperimentazione è un punto chiave della progressione di Ancestors: The Humankind Odyssey.

Uscire per le prime spedizioni, magari con un cucciolo in spalla, e iniziare a scoprire (in tutti i sensi) il mondo di gioco di Ancestors e le sue regole basilari, che definiscono i confini entro cui è possibile muoversi, è un’esperienza quasi unica. Ci si rende presto conto che l’idea di metterci nei panni di un gruppo di scimmie non è casuale, e che, traslando tutto in termini ludici, la “scimmia”, che nulla sa e tutto può e deve imparare, è il giocatore stesso: da questo punto di vista, il gioco non fa altro che nascondere in bella vista una moltitudine di possibilità, senza però dire una parola su come utilizzarle. Il bello sta esattamente lì, e non è tutto: ogni più piccola scoperta è la miccia fondamentale per innescare un sistema di progressione minuziosamente scandito. Su scala temporalmente ridotta avremo dunque a che fare con una tribù ben definita, con le generazioni che si susseguono una dopo l’altra e che, di tanto in tanto, possono innescare piccole mutazioni genetiche. Alla pressione di un tasto possiamo cambiare generazione: questa azione, piuttosto drastica, non va compiuta con troppa leggerezza, ma al contrario avendo cura di avere a disposizione il giusto numero di cuccioli per dare una discendenza alla nostra progenie. Farlo, peraltro, conferisce la possibilità di conservare anche alcuni (anzi, solo alcuni) tratti acquisiti in precedenza. In determinati casi possiamo poi scegliere di andare avanti veloce, addirittura di centinaia di migliaia di anni, in modo da osservare in che modo l’insieme delle nostre azioni determinerà un’evoluzione sostanziale nella specie. Scopo finale, in effetti, è proprio quello di “far evolvere” i nostri antenati Sahelantropus in modo da arrivare fin quasi alle origini del genere Homo: per poterlo fare, però, bisogna partire dalle piccole conquiste quotidiane, come imparare a pescare un pesce, a raccogliere del miele da un alveare, per arrivare ad accendere un fuoco o a uccidere una temibile tigre dai denti a sciabola. Ognuna di queste conquiste richiede decine di minuti, se non ore, di angosce e patimenti, in cui – garantito – spesso vi assalirà fortissima la tentazione di andare a cercare in rete le soluzioni ai problemi più disparati, prima ancora di scoprirle da voi: se volete cimentarvi in un’esperienza di gioco il più possibile pura e non contaminata, però, vi consigliamo fortemente di non farlo.

Meglio stare lontani da un simile scontro, eh?

Ancestors The Humankind Odyssey è un manifesto del game design di Patrice Désilets

Il modo in cui Ancestors vi si svela davanti agli occhi pian piano, del resto, ha ben pochi eguali per caratteristiche e modalità. Dell’avventura concepita da Désilets e compagni dicevamo poc’anzi che non si tratta di un survival duro e puro, ed effettivamente è vero, anche se, specie nel momento in cui ci si imbatte per le prime volte con i predatori più temibili, non manca qualche momento di tensione, che può essere sciolta soltanto dandosi alla fuga o – dopo molto altro tempo – scoprendo come avere la meglio con l’astuzia. Il cardine dell’esperienza non sta però qui, bensì nell’esplorazione, volutamente schematica e “scolastica”, proprio per assecondare le ridotte capacità sensoriali dei nostri antenati. Lo schema dei potenziamenti, poi, legato essenzialmente a quattro macro-aree (comunicazione, intelligenza, motricità, percezione), è del tutto sconnesso dalle generazioni e implica spesso la perdita di questo o quel tratto all’avanzamento di un quindicennio e all’avvicendarsi degli adulti e anziani con la loro prole: ciò significa che molto spesso, specie nelle prime ore, è necessario riacquisire più volte le stesse conoscenze prima che queste ultime vengano automatizzate dalle generazioni a venire, nell’ambito di una struttura che, se comprensibile da un certo punto di vista, in senso generale non tarda a diventare frustrante. Un altro lato negativo è legato ai controlli, spesso (anche volutamente) imprecisi, anche utilizzando un controller e malgrado quest’ultimo sia la periferica di input consigliata. Il problema non è immediatamente percettibile, anche perché nelle prime fasi le azioni contestuali non sono molte: ben presto, però, le operazioni tendono a farsi davvero problematiche, specie una volta sbloccata la possibilità di interagire in modi complessi con i membri del proprio clan.

Prendersi cura di pargoletti come questo è di vitale importanza se si vuole evitare di far morire in anticipo la propria progenie.

Ai comandi non del tutto responsivi si può se non altro fare il callo, specie abituandosi fin dalle prime ore a sfruttare tutte le possibilità offerte, maneggiando e analizzando oggetti (con ampio uso sia dei dorsali che dei pulsanti frontali), imparando a saltellare e dondolare di albero in albero, oltre che stando attenti più ai sensi che agli indicatori visivi per trovare questo o quell’oggetto o un primate solitario da ammettere nella tribù. Non aspettatevi, anche sfruttando con attenzione tutti gli strumenti a vostra disposizione, di avere a che fare con un videogioco che vi vomita letteralmente informazioni addosso: quella proposta dal team canadese, al contrario, vule essere un’esperienza molto lenta e compassata, da affrontare con la dovuta pazienza e dedizione, dandole i suoi tempi e “capendo” i motivi di certe ripetizioni, che perlomeno sono giustificate a fini narrativi e legate al lento processo di apprendimento attraverso cui l’uomo è dovuto passare per arrivare dove si trova oggi. Ogni più piccolo passettino evoluzionistico, però, può spesso regalare enormi soddisfazioni e viene chiaramente indicato a schermo, indicazione poi confermata nel momento in cui si riposa su un giaciglio per spendere l’energia neuronale in uno dei quattro rami possibili, che poi costituiscono la base dell’evoluzione nell’arco di milioni di anni. Adattare un ramo a bastone, imparare a utilizzarlo per pescare o per uccidere un predatore, imparare pian piano a stare eretti su due zampe, fare attenzione a ogni suono e ai pochi indicatori fisici di salute, fra cui il livello di dopamina: c’è una sottile ma indelebile connessione fra ognuno di questi elementi, connessione che bisogna scoprire in un arco di tempo più o meno variabile, “costruendosi” da sé la propria esperienza. Scopo finale, stando alle parole di Patrice Désilets stesso, è quello di “battere” sul tempo l’evoluzione, arrivando a determinate conquiste ancor prima di quando effettivamente raggiunte dalla storia dell’uomo. Si tratta, in questo caso, di una provocazione più che di una sfida vera e propria: il bello del videogioco che lui stesso ha ideato sta proprio nel lasciarsi trascinare da ogni più piccola scoperta, facendo sì che la natura faccia il suo corso e lasciandoci, alla fine della storia, con tutta una serie di domande di cui, in cuor nostro, sappiamo di poter trovare risposta, lì da qualche parte.

È impossibile parlare di Ancestors: The Humankind Odyssey senza tener conto del pedigrée lavorativo e comunicativo del suo autore, oltre che della sua filosofia. Al gioco di Patrice Désilets e del suo team, costituitosi da pochi anni, non interessa inserirsi nella definizione ordinaria di quello che potrebbe essere definito un “bel gioco”. Si tratta, al contrario, di un’esperienza dai tratti unici e dai contorni in apparenza inerti, privi della ricchezza, della densità e della prontezza che caratterizza altre opere, ma contraddistinta da un cuore che, una volta scoperchiato, può dire la sua, soprattutto a chi, per una volta, cerca un’esperienza diversa dal solito. Il lavoro di Panache Digital Games non è un videogioco perfetto, né tantomeno un prodotto adatto ad essere consumato dal pubblico in tutte le salse, esattamente come Blade Runner 2049 non è stato un film per le masse, tanto da guadagnare meno di 300 milioni di dollari (meno di un decimo di Avengers: Endgame). Ma il punto sta proprio qui. Per apprezzare un’opera simile non vi devono necessariamente piacere o non piacere i videogiochi di sopravvivenza, esattamente come per Blade Runner non dovete essere appassionati semplicemente “di film d’azione”. Ma soprattutto (e tocchiamo infine il vero nocciolo delle idee di Désilets), per poterlo approcciare con la giusta mentalità dovreste imparare ad essere videogiocatori consapevoli. Il gioco il suo l’ha fatto, superando il concetto di genere e quello di software legato unicamente all’intrattenimento. Ora tocca a voi.

Nato nello scorso millennio con una console fra le mani e rimasto per molti anni confinato nel mondo distopico della Los Angeles del 2019, ha infine deciso di uscirne per divulgare al mondo intero le sue più grandi passioni: il videogioco in tutte le sue forme, il cinema (quello vero) e Dylan Dog.