Quando Hobbes dovette riassumere la natura del potere politico ricorse alla figura del Leviatano, un personaggio biblico per metà dio e per metà nostro.
Con questo voleva evidenziarne l'ambivalenza: unico strumento di cui l'uomo disponesse per fondare una società sicura, trovava tuttavia la sua efficacia nel possesso della spada, e permetteva sì di vincere la paura del bellum omnium contra omnes, ma solo a costo della sottomissione.
Quattro secoli non hanno eliminato l'ambivalenza.
Cercando una definizione di “potere politico” ancora oggi si trova qualcosa del tipo: “capacità di far agire A in modo diverso da come vorrebbe, garantito, in quanto specificamente politico, dalla possibilità di ricorrere in ultima istanza alla forza fisica legittima”.
Forse è un po' più divino, poiché la legittimità lo limita, ne mitiga la durezza; ma il mostro c'è ancora e continua a divorare pezzi di libertà, richiede obbedienza e trafigge chi si ribella.
Nascono a questo molte domande del tipo che segue:
- il potere è finalizzabile, nel senso che è possibile impiegarlo per raggiungere un fine: la sua natura però non è del tutto pura, e farne uso significa scendere a compromessi. Fino a che punto allora si può usare per perseguire nobili ideali come uguaglianza, libertà etc?
- come si impedisce che chi detiene il potere accetti troppi compromessi con la sua coscienza, sia per suo interesse sia in nome della ragion di stato?
- il potere è legittimo in quanto deriva dalla sovranità, che nel nostro paese appartiene al popolo: fino a quale punto chi detiene il potere può andare contro la volontà che il popolo manifesta senza diventare illegittimo?
- o forse de facto il potere politico non deriva dalla sovranità, ma da altri poteri -- quello l'economico ad esempio? Come si impedisce questa degenerazione, sempre che si ritenga necessario impedirla e non piuttosto modificare la teoria per adeguarla ai fatti?
A voi la parola.