Krisgioielli
Un argomento pressochè intoccabile della storiografia patria è stato, per almeno 50 anni, quello della Resistenza: perfino agli storiografi dichiaratamente di sinistra è stato imposto per molto tempo di trattare la vulgata resistenziale come si trattasse dei Rotoli della Legge: proibito discuterne, proibito esaminarne i documenti e, naturalmente, proibito azzardarne bilanci che non ottenessero il placet dei probiviri della democrazia. D’altra parte, da un Pci che impose agli operai comunisti che erano andati a lavorare volontari nella sorella Yugoslavia e, al cambiare della politica di Tito, erano stati imprigionati per cinque anni, di fingere di avere serenamente lavorato perfino ai propri figli (e quelli obbedirono), non deve stupirci di nulla. A tutela di questa religione laica vennero chiamati gli Istituti per lo studio della Resistenza, che oggi si chiamano Isrec; al loro interno, lavorano molti storici capaci e tante brave persone, ma, purtroppo, anche moltissimi ottusi arnesi di partito, senza titoli né meriti, se non quello della correttezza politica. Gli Isrec, anche se, di fatto, contano tra le proprie file solo elementi di "provata fede democratica", sono ospitati e finanziati dagli enti locali, di qualunque colore politico essi siano, cioè da noi, tanto per capirci. Negli archivi di questi istituti sono stati raccolti chilometri di nastri magnetici, con interviste a partigiani e testimoni della guerra civile; per chi, però, non fa parte della confraternita, va da sé, è piuttosto complicato accedere a questo materiale, ed è, quindi, altrettanto complicato fare della ricerca documentata. Così il cerchio si chiude, e così funziona la disinformacija: io creo un istituto di ricerca, gli faccio raccogliere in regime di monopolio le fonti, così, quando qualche rompiscatole cerca di ficcare il naso in affari che non lo riguardano resterà a bocca asciutta, mentre, se a me servono pezze d’appoggio, ecco, come per magia, comparire vagonate di documenti; pas difficile, tout sommé! In realtà, lasciando da parte discussioni che poco hanno di scientifico, agli occhi dello storico la guerra civile italiana non dovrebbe apparire granché diversa da quella spagnola o da quella americana: una guerra civile ha caratteristiche sue proprie, precise e facilmente identificabili. Innanzi tutto, uno dei due contendenti, in una guerra civile, si investe di propria iniziativa del ruolo del poliziotto (nella guerra civile americana lo fece l’Unione, in quella spagnola i Franchisti), mentre l’altro fa il bandito. Poi, in una guerra civile, si mescolano agli elementi ideologici o militari anche fattori diversi, come il campanilismo, le dispute personali o la religione. Inoltre, nelle guerre civili, vi è sempre una resa dei conti, alla fine delle ostilità, che, spesso, è più drammatica della guerra stessa. Insomma, per farla breve: davanti alla storia le guerre civili si assomigliano un po’ tutte; dico questo facendo tesoro dei dettami degli stessi storici antigeneralisti, che predicano l’analisi non di singoli avvenimenti, ma di modelli duraturi: più duraturi di così! La vera, grande particolarità che distingue la guerra civile italiana dalle altre, consiste nella anomala durata dei suoi effetti sulla vita civile del Paese. Dopo cinquantacinque anni dal 25 aprile, uno storico dovrebbe poter dichiarare definitivamente conclusa la guerra, e dedicarsi a qualcosa di più intelligente della diatriba. Proviamo a scrivere in questa sede delle cose ovvie e banali, ma che, non si capisce per quale ragione, vengono, per solito, passate sotto silenzio. Prima di tutto, diciamo, ad uso delle future generazioni, che il termine "guerra civile", reintrodotto nel lessico storiografico da un bel saggio dell’inizio degli anni Novanta dello storico Claudio Pavone, era, in realtà, d’uso corrente negli anni della guerra. Fu il dopoguerra a cancellarlo dal vocabolario, presumibilmente allo scopo di favorire la diffusione di definizioni più evocative, quali "guerra di liberazione" o "guerra resistenziale": di fatto, il termine è una vox media, che non contiene valutazioni di merito, e, forse proprio per questo, cadde in disgrazia. Aggiungiamo, sempre a beneficio dei giovani, che l’Italia, alla fine della Seconda guerra mondiale, ha firmato i trattati di Parigi (10 febbraio 1947) nello spazio riservato alle nazioni sconfitte; la favola bella del 25 aprile in cui si festeggia la vittoria della democrazia sulla tirannide è bella proprio perché è una favola: ancora oggi gli storici angloamericani si domandano cosa ci troviamo da festeggiare! Qui si deve aggiungere che il contributo italiano alla "liberazione" è stato militarmente piuttosto ininfluente e che, ben più che dai partigiani, i tedeschi sono stati scacciati dagli Sherman neozelandesi e polacchi e dai Thunderbolt americani; tant’è che il peso politico della Resistenza, al di fuori dello scenario interno italiano, è stato prossimo allo zero. Se dobbiamo trovare una figura che ha salvato il salvabile al tavolo delle trattative, non possiamo che riferirci ad un ex parlamentare austroungarico, rigorosamente anticomunista e fortemente cattolico: Alcide De Gasperi. Altra è la vulgata, che distribuì patenti di resistente a milioni di persone, per avvalorare la teoria dell’esercito di popolo e della Repubblica nata dai valori della Resistenza: la Resistenza vera l’ha fatta, forse, la radice quadrata di quei milioni e, quanto ai suoi valori, la stragrande maggioranza degli italiani, allora come oggi, più che ai valori badava a riempirsi la pancia. I combattenti nelle file della Resistenza, siano stati comunisti, badogliani, repubblicani, azionisti o cattolici, meritano, come chiunque rischi la vita per qualcosa in cui crede, il nostro rispetto; non così la solita valanga di manutengoli che accorre, a giochi fatti, ad aiutare il vincitore. Dunque, facciamo un po’ di ordine, anche se, purtroppo, con una sintesi disperata. Dopo l’8 settembre, l’esercito italiano si sfasciò: alcuni raggiunsero il Sud, dove si stava costituendo il Corpo Italiano di Liberazione (bravi soldati, ma, numericamente parlando, poca cosa); molti, in Albania, in Yugoslavia o in Grecia, si unirono ai partigiani; moltissimi si arresero ai tedeschi e vennero, perloppiù, internati in Germania; alcuni resistettero eroicamente, e la pagarono cara, come la divisione Acqui a Corfù e Cefalonia; la maggioranza era semplicemente sbandata, e cercava di raggiungere la propria casa, con abiti civili. Le due scelte chiare, in questo primo convulso periodo, furono quella dei soldati che, stretti ai propri ufficiali, scelsero la macchia, per non tradire il proprio giuramento al Re, e quella di coloro i quali, ritenendo così di riscattare il disonore dell’Italia per quello che era da loro visto come un tradimento, entrarono nell’esercito repubblicano di Salò. Tutto il resto rappresenta quella che Calvino chiamò la "zona grigia": una stragrande maggioranza che non scelse un bel niente, riservandosi di farlo quando gli eventi si fossero, in qualche modo, evoluti in maniera inequivocabile. I primi resistenti, perciò, non furono né cattolici né comunisti, ma, semplicemente, soldati italiani, cui si aggiunse qualche raro civile, che non era sempre visto di buon occhio. Ovviamente, questi soldati avevano le proprie idee politiche; tuttavia, essi non erano, per così dire, schierati in maniera decisa e raggruppati per consorteria. In un secondo tempo, la Resistenza assunse un carattere più organizzato, e nacquero le diverse bandiere: fiamme verdi (cattolici), garibaldini (comunisti), azzurri (badogliani) eccetera. Un’opinione diffusa quanto sbagliata è quella che tende ad associare la Resistenza ad un fenomeno "di sinistra": la resistenza fu trasversale all’intero scenario politico antifascista e, al suo interno, cattolici ed azionisti ebbero un peso rilevantissimo; lo stesso equivoco sarebbe stato alimentato ad arte all’inizio delle rivolte giovanili del ’68. Di nuovo, lo storico dovrebbe esaminare i rapporti tra le varie componenti della Resistenza con occhio sereno; invece, a parte qualche coraggiosa eccezione, parlare di scontri tra partigiani di opposte fazioni o di delitti commessi da resistenti sembra una bestemmia. In realtà, tra i vari schieramenti che componevano l’esercito partigiano, esisteva lo stesso buon sangue che correva tra le nazioni belligeranti dalla stessa parte della barricata; con la differenza che queste non potevano venire alle mani, mentre i partigiani sì. A parte l’eccidio di Malga Porzûs, reso recentemente celebre da un film tragicomico, la storia della guerra partigiana è piena di piccoli e grandi drammi, legati all’intolleranza tra gruppi di diverso orientamento; in questi scontri, bisogna dire, la parte più spietata ed efferata l’hanno sempre impersonata i partigiani comunisti. Perfino nelle tranquille Prealpi Orobie, parecchi dei caduti partigiani non sono stati vittime del piombo nazifascista, bensì di quello di qualche sten amico. Questo, sia chiaro, non toglie nulla al valore di tanti resistenti, e di tanti caduti; ma è bene che si sappia, che le carogne non stanno mai da una parte sola, e che, in una guerra fratricida, alcuni sono fratricidi al quadrato. Vorrei aggiungere a questo discorso una postilla: ai partigiani comunisti italiani, aggregati al IX Corpus Yugoslavo, dell’Italia non importava né punto né poco; tant’è che volevano Trieste yugoslava. L’amore della sinistra per il tricolore (o, almeno, per quello bianco, rosso e verde, giacché anche la bandiera Yugoslava aveva tre colori) è scoperta recente. Rimane da dire dei massacri avvenuti a ridosso del 25 aprile. Che vi siano stati è indubbio: fonti non sospette parlano di mille, forse duemila morti, in ognuna delle grandi città del Nord, anche se viene, soprattutto dalle fonti militari alleate, sottolineata l’estrema confusione, che rendeva assai difficile un calcolo attendibile. Una stima accreditata indica in circa 15.000 il totale delle vittime delle "vendette": fascisti, delatori, aguzzini e poveracci che si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Siamo, come si vede, assai lontani dalle centinaia di migliaia di vittime indicate da fonti di destra. Siccome la verità non si saprà mai, tanto vale lasciare perdere questa macabra conta: nel cuore di chi ha perso i propri cari, un singolo lutto vale per mille. Il problema, parlando storicamente, è un altro: dove sono i resti, perché chi sa non ha mai parlato, quali sono state le cause delle esecuzioni e, soprattutto, chi è stato ucciso? Un’omertà sconcertante copre quasi tutti gli omicidi di mano partigiana: quelli del Triangolo rosso dell’Emilia come quelli liguri, piemontesi, lombardi, del Triveneto. Ancora oggi si ignora come morirono tanti ragazzi di Salò: scomparsi nel nulla. Affiorano, qua e là, fosse comuni; poveri resti che la terra, più pietosa degli uomini, rende, se non ai familiari, almeno ad una sepoltura cristiana: e nessuno sa niente, nessuno parla. Presto, per ragioni anagrafiche, i testimoni di questi delitti saranno del tutto scomparsi; e così non potremo più avvicinarci alla verità. Eppure, in quei nastri registrati dagli Isrec, probabilmente, si trovano parecchie risposte a queste domande; se così fosse, prima o poi è auspicabile che qualche verità verrà a galla, e che qualche ferita ancora aperta si potrà rimarginare. Verrebbe da porre questioni specifiche, di cui sposiamo un solo caso, perché a noi vicino: chi era il sedicente ufficiale inglese (in realtà, pare, italianissimo) che si faceva chiamare "Mohicano" e che volle il massacro, a guerra finita, di decine di giovanissimi militi della Rsi prigionieri in Alta Valle Seriana, noto come eccidio di Rovetta? Chi certamente sa come andarono le cose è ancora vivo, e non ha mai voluto parlare. Questo è solo uno dei tantissimi esempi; ma è paradigmatico di un modo di pensare: per coloro che tacciono, la guerra non è mai finita. Si chiude con questa amara considerazione il discorso sulla guerra civile, con la consapevolezza che l’argomento, vastissimo e complesso, è stato trattato in modo molto superficiale; noi speriamo che, al di là della magrezza delle argomentazioni, imposta dalla tirannia dello spazio limitato, rimanga, se non altro, l’impressione di uno sforzo per superare polemiche vetuste e per cercare di leggere la storia nazionale con una luce diversa; ma per questo, forse, bisognerebbe che storici di opposte convinzioni politiche, anziché battibeccare, imparassero a collaborare per il bene della scienza.