L’attuale meccanica di gioco del beat ‘em up è fondata su un compromesso con il realismo apparentemente irrinunciabile. Sembra che ormai i programmatori abbiano abbandonato la maggior parte delle pretese simulative avendone stabilito l’inefficacia e inadeguatezza alle esigenze di un gameplay appagante e soddisfacente.
In altre parole, è come se si fosse universalmente accertato che la mancanza di salti a due metri dal suolo, di intere combo scatenate su un corpo sospeso a mezz’aria o di montanti/calci ascendenti capaci di proiettare ad altezze improbabili l’avversario, porti irrimediabilmente un impoverimento della giocabilità tale da compromettere il divertimento del videogiocatore.
In teoria tali elementi inverosimili, la cui presenza è uno standard ormai comune di tutte le produzioni del genere, dovrebbero avere la funzione di amplificare la spettacolarità dei match e contribuire alla varietà delle situazioni di gioco; Soul Calibur 2 fornisce un valido esempio del caso.
La mancanza pressocchè assoluta di vincoli simulativi consente al gioco di proporre un incontro perfettamente alla pari tra Talim, ragazzina sedicenne in abiti succinti armata di tonfa, e Nightmare, colossale cavaliere in armatura pesante munito di uno spadone monumentale. Affinché l’equilibrio sia mantenuto, Talim è capace di scagliare a metri di distanza il quintale di acciaio e muscoli che le si contrappone anche con dei colpi piuttosto semplici; senza naturalmente considerare che subire un colpo ben assestato di arma da taglio non costituirà per lei ragione di morte immediata ne le causerà alcun tipo di menomazione o sanguinamento.
La palese, ricercata violazione delle leggi di natura è il mezzo attraverso il quale si ottiene una situazione di gioco unica, intrigante e coreografica.
Ma siamo certi che questo sia l’unico approccio possibile alla disciplina del combattimento digitale?
Paul Phoenix, al pari di altri partecipanti all’Iron Fist Tournament, può contare tra le sue movenze un pugno in grado di lanciare all’indietro il suo malcapitato avversario, facendogli percorrere in linea retta una decina di metri di capriola in capriola. Siamo sicuri che se invece di partire per la tangente il contendente percosso cadesse al suolo sul posto, avremmo come risultato un impoverimento della giocabilità? Siamo certi che l’applicazione di una accurata fisica degli impatti che contempli in modo verosimile le reazioni del corpo umano danneggi l’esperienza di gioco?
Paul sfoggia questa sua straordinaria tecnica pugilistica di lancio fin almeno dal secondo episodio di Tekken datato 1995, inalterata nella meccanica e nella resa visiva di seguito in seguito fino ad oggi; partendo da questo fatto, risultano emblematiche le dichiarazioni dei programmatori di Namco nell’intervista pubblicata su Videogiochi 09. A parer loro, poiché Tekken 4 peccava di eccessivo realismo, per rinvigorire una formula che comincia a diventare stantia è necessario puntare nel quinto capitolo della saga su personaggi più stilizzati, dare maggior risalto a colpi e combo aeree, semplificare la tecnica di base.
Tenendo presente che Namco è ormai l’unica softwarehouse superstite a puntare sul genere beat ‘em up nel panorama videoludico odierno, possiamo dare per assodato che il futuro del picchiaduro non si dirige di certo verso l’esperienza simulativa, in contrasto con l’attuale, diffusa tendenza a ricercare il fotorealismo in tutti i campi.
E’ un male, o è il caso di tirare un sospiro di sollievo?