Finalmente ho completato questo breve racconto di 20000 parole che da tempo avevo in mente e che per un motivo o per un altro non ero mai riuscito a mettere nero su bianco. La maggior parte dei contenuti sono presi in prestito da altre opere ben più importanti: qualcuno vi troverà riferimenti ad Alien, Guerre Stellari, vari scrittori di fantascienza, la classica avventura da racconto pulp e una spruzzata di azione manga-style nei combattimenti. Beh, gli ingredienti sono più o meno questi ma in fondo è lo chef che li cucina e che li serve a fare la differenza (dite di si che mi fate contento ). Spero che la storia vi piaccia quanto è piaciuta a me scriverla: il finale è aperto ad ulteriori seguiti (è gradita la collaborazione di secondi, terzi e quarti, tanto la materia è vasta e c’è spazio per tutti) che probabilmente scriverò se ne avrò voglia e tempo.
Ps: Il racconto è lungo una quarantina di capitoli: in via del tutto eccezionale e solo per stavolta posterò i primi tre, giusto per darvi un’idea dell’argomento trattato. In seguito posterò un capitolo al giorno.
Pps: accetto critiche costruttive, distruttive, minacce, offese e avanches
Buona lettura!
1.
L’allarme risuonò in tutta la nave quando la flotta dei Mordrak venne avvistata. Zeblin, il comandante, diede l’ordine di prepararsi alla inevitabile battaglia, ma sapeva bene che erano condannati. Non sarebbero mai riusciti a sfuggire alle più veloci navi degli invasori che mezzo secolo prima avevano devastato il loro pianeta natale.
Il padre di Zeblin, il vecchio comandante, era riuscito a lasciare il pianeta ormai perduto con quella sola astronave e un migliaio di coloni nella speranza di sfuggire ai Mordrak e iniziare una nuova vita su di un mondo disabitato. Purtroppo per loro, i Mordrak erano macchine troppo efficienti e li avevano inseguiti per tutti quegli anni. Un centinaio di coloni, per lo più tecnici, indossarono le corazze da guerra e si prepararono a respingere l’attacco degli invasori.
I Mordrak avrebbero cercato di catturare la nave per assimilare i loro corpi e i loro poteri, ma Zeblin e gli altri coloni non erano intenzionati a permettere una cosa del genere. Sapevano di essere condannati, ma volevano dare un’ultima speranza ai loro figli, così prepararono le capsule di salvataggio e le programmarono perché raggiungessero da sole il pianeta abitabile più vicino. Prima che le navi Mordrak fossero troppo vicine per intercettarli, lanciarono le capsule e le videro sparire nel buio della notte stellata.
Come previsto, i Mordrak si disinteressarono delle capsule e attaccarono la nave principale, senza distruggerla. Subito i loro nanovirus aggredirono i sistemi elettronici dell’astronave, isolando tutti i sistemi. Zeblin e gli altri erano prigionieri nella loro stessa nave, in balia dei Mordrak che molto presto sarebbero saliti a bordo per assimilare i loro corpi.
I Mordrak salirono a bordo ed eliminarono ogni resistenza e si diressero verso il luogo dove si era concentrata la maggior parte dei coloni. Molti di loro, appena usciti dal bozzolo, pregustavano la possibilità di assorbire gli incredibili poteri di cui erano dotati i corpi e le menti di quella razza aliena così debole e stolta da aver preferito la resistenza piuttosto che l’assimilazione.
Si accorsero troppo tardi che non tutte le capsule precedentemente lanciate si erano allontanate dalla nave e che alcune stavano tornando indietro, puntando verso di loro.
Si accorsero troppo tardi che quelle capsule erano state programmate per comportarsi esattamente in quel modo e che non si trattava di un errore o di un difetto dei computer di bordo.
Ma solo all’ultimo momento, quando fu davvero TROPPO tardi, proprio nell’istante in cui i Mordrak, guidati dal loro comandante, facevano irruzione nella grande sala dove Zeblin e i suoi si erano riuniti in attesa della fine, che guardando i loro occhi e l’espressione trionfante sui volti di quella razza inferiore, finalmente compresero che erano persi.
Le capsule, armate con testate distruttive in grado di disintegrare la crosta di un piccolo satellite, arrivarono proprio in quel momento. Nessuno le vide e le sentì esplodere e tutto quello che esisteva in una sfera di mille chilometri di diametro… smise semplicemente di esistere.
Un piccolo sole brillò in una remota regione dello spazio e la sua luce guidò a destinazione un piccolo gruppo di capsule col loro carico di vita e di speranza.
2.
“Lyon!”
Parole biascicate.
“Svegliati Lyon”.
“Hmmm. Lasciami in pace”.
“Svegliati!”
Il lamento delle sirene d’allarme aggredì i suoi timpani. Lyon Alexander impiegò tre secondi per passare dal sonno alla veglia e altrettanti per passare da quest’ultima allo stato di piena coscienza.
Stava suonando l’allarme.
Un allarme rosso!
E lui era ancora mezzo addormentato.
Saltò giù dalla sua branda e con movimenti automatici indossò l’uniforme che era appoggiata allo schienale di una sedia. Il suo alloggio sembrò roteare su se stesso mentre infilava il pezzo unico di tessuto che formava la sua uniforme abituale. Non indossò il berretto: sarebbe stato inutile con i capelli quasi rasati a zero e si precipitò fuori dal suo alloggio.
La porta si aprì automaticamente scivolando di lato e lui fu nel corridoio che collegava gli alloggi dei sottufficiali. Davanti a se aveva gli ascensori automatici perennemente in funzione. Bastava entrarci e ordinare al computer di portarlo al livello desiderato.
Nel corridoio, alcuni cadetti sembravano incerti sul da fare. Deve essere la loro prima esercitazione, pensò Lyon distrattamente. Presto si sarebbero abituati, o se ne sarebbero tornati a casa. Non c’era una via di mezzo. Non con Decker, il loro Sergente Istruttore.
Proprio mentre stava pensando a lui, un ologramma si formò in una piccola nicchia della paratia. Il viso duro di Decker si formò velocemente e dagli altoparlanti nascosti da qualche parte proruppe la sua voce simile ad una cascata.
“Alexander, vieni subito nell’hangar 9. Di corsa!”
Lyon si trattenne a stento dall’imprecare e con un balzo entrò nell’ascensore. Un senso di vertigine gli afferrò lo stomaco come spesso accadeva entrandovi, ma ormai vi era abituato e non durò più di un attimo.
“Hangar 9” disse con voce ancora mezza impastata dal sonno, e iniziò a scendere.
L’ascensore funzionava con campi magnetici unidirezionali: era in pratica un tubo vuoto che scendeva (o saliva, a seconda dei punti di vista di chi l’usava) perpendicolarmente o con qualsiasi inclinazione avessero deciso i progettisti e trasportava chi vi si trovava tramite dei potenti campi magnetici. Era molto veloce e abbastanza comodo, una volta fattaci l’abitudine. La prima volta che ci era salito, Lyon aveva vomitato la cena e aveva continuato a vomitare per una settimana, prima di farci l’abitudine. Ora era quasi come salire o scendere le scale.
Fermo.
Era a destinazione.
Con un piccolo balzo uscì dall’ascensore che continuò a funzionare ronzando sommessamente. Per fortuna, in quella zona le sirene d’allarme giungevano molto soffuse e i suoi pensieri non erano invasi dal loro martellante lamento.
Avanzò lungo un corridoio fino all’hangar 9, a cui si accedeva tramite un portello più grande della media e adatto a far passare grossi carichi. Prima ancora che fosse completamente entrato, incrociò Griffin.
“Decker è incazzato di brutto” disse con un’espressione infelice dipinta sul volto abbronzato. “Tanto per cambiare” aggiunse aggiustandosi l’uniforme grigio-azzurra.
Lyon sospirò. La giornata era cominciata in modo pessimo.
3.
Decker, ritto su una piattaforma di metallo, stata strigliando i cadetti che si radunavano in tre file davanti a lui. Lyon e Griffin scivolarono in mezzo alla confusione sperando che il sergente non li notasse e invece sentirono una voce tuonante dire:
“Alexander! Kowalsky!”
Scattarono sull’attenti nel punto esatto dove si trovavano. Si erano aspettati una ramanzina per il ritardo con cui erano arrivati nell’hangar, ma sorprendentemente non arrivò.
“Per voi due niente simulatore, per oggi. Vi aspetto nel mio ufficio alle nove-zero-zero precise, ovverosia tra mezz’ora circa, Tempo Standard”.
Lyon e Griffin si scambiarono un’occhiata perplessa ed uscirono dalla fila, incerti su cosa fare. Decker non badava più a loro, impegnato com’era a tartassare un povero cadetto che aveva l’uniforme in disordine.
“Ci è andata bene” disse Griffin mentre succhiava da un sacchetto di plastica la sua colazione, un omogeneizzato di vitamine, proteine e grassi appositamente studiato per il suo organismo. Lyon stava succhiando la sua da un sacchetto identico, anche se lo faceva controvoglia. Avrebbe voluto assaggiare del cibo vero, piuttosto che quella poltiglia.
“Tu credi?”
Griffin gli lanciò un’occhiata piena di stupore. “Ero sicuro che Decker ci avrebbe spellati vivi a causa del nostro ritardo”.
Lyon annuì distrattamente. Finì di succhiare la sua colazione e la gettò in un inceneritore. Lo stesso fece Griffin quando ebbe finito la sua.
Gli allarmi non suonavano più, l’esercitazione era finita. Griffin consultò il suo PDA e si lasciò sfuggire una risatina. “Debby Saunders si è beccata due settimane di rigore. Pare che abbia vomitato sugli stivali del suo sergente dopo essere uscita dal simulatore”.
“Anche TU hai vomitato, la prima volta!”
“Si, ma Debby è alla settima esercitazione. Secondo me dovrebbe convincersi che non fa per lei”.
Continuarono a camminare e chiacchierare per far passare il tempo, ma si presentarono fuori dall’ufficio di Decker cinque minuti prima delle nove. Non era saggio sfidare troppo la fortuna.
Alle nove precise, la porta dell’ufficio di Decker si aprì e lo sentirono dire: “entrate”.
(continua...)