dio li fa e l'intolleranza li unisce
http://www.liberazione.it/giornale/050327/IS12D6B3.asp
Gerusalemme 2005,
Orgoglio e pregiudizio
«Il primo bacio fu durante una festa haredi al centro di Gerusalemme. Io e lui ce ne stavamo in un angolo oscuro del vicolo, da una finestra arrivava la musica felice dei religiosi che celebravano un bar mitzva (quando un ragazzo giunge all'età adulta, 13 anni ndr). Noi, abbracciati, mostravamo la nostra "perversione" nella strada, facendo una cosa che gli abitanti di Gerusalemme dovrebbero trovare disgustosa. Quello che le tre religioni chiamano, unite, il peccato: baciare la persona che amo».
"Being Gay in Jerusalem", Or Goren
Il tam tam millenarista è iniziato appena si è sparsa la voce. Il World Pride, la manifestazione che una volta ogni cinque anni riunisce gay, lesbiche, bisessuali e transessuali in un appuntamento mondiale, quest'anno si farà a Gerusalemme. Dopo l'edizione di Roma 2000 - in 100mila spensero le polemiche dei cattolici integralisti che contestavano la parata gay nella città che ospita il Papa - il movimento per i diritti dei gay ha scelto di nuovo un luogo di grande valore religioso. Anzi, la città simbolo del monoteismo.
Gerusalemme, dove la storia ha incastrato e fatto convivere (si fa per dire) cristianesimo, ebraismo e islam. Dove il millenarismo non è una seduzione lontana, ma condotta di vita e realtà quotidiana. E, apriti cielo, la notizia ha sollevato un polverone. Così, mentre la data fatidica si avvicina (l'evento è previsto tra il 18 e il 28 agosto), i tamburi di guerra del partito che non vuole i gay nella «città di Dio» diventano assordanti. Ma c'è già un miracolo, e un paradosso. Per la prima volta nei quattro anni e mezzo dell'ultimo conflitto israelo-palestinese il partito anti-gay è riuscito a mettere uno accanto all'altro i rappresentanti delle tre religioni.
Al centro della Gerusalemme israeliana (Ovest), all'imbocco del quartiere degli ebrei ultra-ortodossi di Mea Shearim ("cento porte") e nei vicoli intorno a Zion square sono comparsi (e subito rimossi) alcuni poster firmati da estremisti kahanisti, il gruppo underground del conservatorismo più tradizionalista già protagonista in passato di provocazioni e di attentati anti-arabi. «Madre, ho sentito che la gente cattiva che violenta e sodomizza i bambini sta organizzando una parata - recitano i manifesti - Padre, madre, non lasciate che vadano fuori nelle strade, aiutatemi!». Al coro si sono uniti, con toni e tempi diversi, quasi tutti i grandi rabbinati ortodossi in Israele e Stati Uniti, vari patriarcati cattolici e ortodossi della città, potenti congregazioni evangeliche, associazioni islamiche e uno dei leader musulmani più anziani e rispettati. Voci pesanti, se si tratta di Gerusalemme, città dove gli ebrei ortodossi sono circa la metà della popolazione israeliana, mentre nella parte palestinese quelli che si definiscono credenti sono molti di più, anche se l'integralismo islamico non ha mai attecchito granché tra gli abitanti di Gerusalemme Est.
Eppure proprio a due passi da dove sono stati rinvenuti i minacciosi poster, lungo la zona pedonale di Ben Yehuda, un'arcobaleno che sventola discreto segna l'entrata della Open House, la casa dei gay di Gerusalemme. Nel portone entrano rapidamente soprattutto giovani israeliani "mainstream" secolarizzati, ma anche omosessuali palestinesi che fuggono dai pregiudizi della società araba, qualche religioso con lo yarmulke (la kippah), persino alcuni ultraortodossi direttamente dalle yeshivot (le scuole religiose) di Mea Shearim. Israele è stato storicamente all'avanguardia per i diritti dei gay: tra i primi Paesi ad abolire la legge sulla sodomia, le unioni di coppie gay sono riconosciute e a dicembre il procuratore generale ne ha (quasi) equiparati i diritti a quelli delle coppie eterosessuali (in materia di proprietà, eredità e tassazione). E Tel Aviv, con le sue saune, i locali e i punti di ritrovo gay, è considerata una Mecca omosex.
Ma Gerusalemme, moschee, chiese, conventi, rabbinati, sinagoghe e praticamente più religiosi che civili, è tutta altra cosa. Il lavoro della Open House è iniziato tanti anni fa e oggi è una realtà importantissima nel Medio Oriente dove il razzismo contro i gay fa leva sulla robusta corteccia dei pregiudizi religiosi. Hagai El-Ad, il direttore, precisa ad esempio che i gay palestinesi sono «solo uomini». «Se l'omosessualità maschile provoca l'eccitato disgusto della società araba, l'omosessualità femminile è impensabile persino come tabù nell'immaginario di purezza e missione familiare assegnato alle donne». Per i giovani omosessuali palestinesi che poi attraversano Haifa street (l'ex linea verde del cessate-il-fuoco 1967 e attuale confine Onu) alla ricerca della propria normalità, il pregiudizio è doppio. Spiega ancora El-Ad: «Parecchi vengono arrestati e umiliati dalla polizia finendo con il vivere un'esistenza da invisibili, nascosti dalle autorità israeliane e impossibilitati a tornare a casa».
Nel passato già tre volte la parata gay ha attraversato le strade di Gerusalemme, ma si trattava di eventi locali con qualche migliaio di persone. Anche allora però decine di giovani ultra-ortodossi accolsero gli omosessuali con insulti e piccoli atti di vandalismo. E stavolta è World Pride, ovvero la manifestazione mondiale. Per dieci giorni Gerusalemme ospiterà workshop, un film festival gay, feste serali a tema e, alla fine, la parata e la festa di strada.
Tra i più attivi oppositori della marcia un pastore californiano, Leo Giovinetti. Secondo il predicatore, celebre in tutti gli States per il seguitissimo programma radiofonico di vangelo e politica (trash), ospitare il World Pride potrebbe portare ad «una vendetta divina contro la città di Gerusalemme come già accaduto contro Sodoma e Gomorra». «Non odiamo gli omosessuali» ha precisato Giovinetti: «Ma se qualcuno venisse a casa vostra e sputasse su vostra madre non sareste pronti a combattere?». La stessa filastrocca risuona tra i membri del Jerusalem Prayer Team, un gruppo cristiano di destra filo-israeliano che definisce il World Pride «abominio morale» e sta raccogliendo «un milione di firme» per chiedere al sindaco di fermare l'evento. «Non odiamo i gay, sappiamo che sono vittime», puntualizza il fondatore Mike Evans, che (letterale) chiosa: «la gran parte di loro è affetta dall'Aids o usa droghe. Altri hanno subito abusi da piccoli».
«Ci siamo abituati» risponde ridendo Hagai El-Ad dalla Open House. «Ma uno dei messaggi fondamentali del Pride è che nessuno ha il monopolio per interpretare la parola di Dio. E poi neanche se il sindaco volesse potrebbe fermarci. Viviamo in una democrazia, non in una teocrazia». Eppure proprio il sindaco, Uri Lupoliansky, a sua volta ultra-ortodosso (askhenazi, del partito Torah Unita per il Giudaismo), fino ad ora ha liquidato le critiche e le pressioni rispondendo con una semplice constatazione: «Ognuno ha la sua parata. Per quanto riguarda il sottoscritto, beh. Io marcerei in un'altra parata».
La presa di posizione del sindaco, però, non è andata giù ai fanatici religiosi che lo hanno votato in massa. Su tutti il rabbino Yehuda Levin, direttore del gruppo Ebrei per la Moralità, che ha impugnato carta e penna e gli ha indirizzato una lettera pubblica. «Sindaco, so che sei stato eletto con una maggioranza scarsa che include molti membri secolarizzati del Likud e devi assecondarli. Ma c'è un limite, non puoi diventare parassita. Gerusalemme è il Palazzo di Hashem (Dio ndr). Questa parata è contro la Torah, è una orribile tumah (contaminazione ndr) per la città più santa del mondo».
Nella zona araba della città l'evento è avvertito quasi come estraneo, la parte Ovest è lontana e riguarda comunque "gli altri". Eppure non solo le autorità religiose islamiche hanno definito l'evento «osceno e provocatorio», ma contro il Pride si sono mobilitati anche gli irriducibili del boicottaggio contro Israele. E' nata addirittura una "Coalizione per il boicottaggio del World Pride" che in una lettera «alle lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, intersessuali e gruppi Queer» assicura di «sostenere l'Open House», ma chiede di annullare l'evento sostenendo che «andando in Israele legittima l'occupazione e l'apartheid contro i palestinesi».
Tuttavia neanche questo tentativo "politicista" ha fatto breccia tra gli organizzatori dell'evento. Anzi la risposta è stizzita: «il nostro è un messaggio di rispetto, amore, fratellanza. La richiesta di boicottare il Pride a causa delle guerra è strumentale. Al nostro interno convivono anime e sensibilità politiche diverse, ma non si capisce perché dovremmo subordinare la lotta per i nostri diritti ad altre istanze completamente separate. Gerusalemme non si esaurisce nel conflitto israelo-palestinese».
La Gerusalmme secolarizzata, invece, attende l'evento con «un misto di curiosità e orgoglio per un evento comunque di portata mondiale», come spiega Ori Goldstein, docente universitaria e intellettuale attivissima nell'organizzare eventi in città. «Io credo che la parata sarà una festa per tanti, sempre che alla fine si faccia. Del resto sai come si dice in Israele? Che quando Brad Pitt annuncia il suo arrivo nel Paese per il 28 marzo, tutti già sanno che il 25 cancellerà la visita».
Alla fine, con tutta probabilità, il Pride si farà. L'ultima volta un oratore lesse ad alta voce una lettera, scritta quattro anni fa da un omosessuale israeliano. Si chiamava Alan Beer, era ripudiato dalla famiglia ortodossa e dalla comunità religiosa, ma rivendicava «orgoglio» per le sue «tante identità».
«Sono un gerusalemita, un omosessuale, un ebreo ortodosso e un sionista. Si può essere liberi e anche sacri». Beer dovette aspettare la tomba per scoprire la sua "normalità" di ebreo-israeliano e di abitante del Medio Oriente. Vittima di un attacco suicida al bus 14, trovò la morte come la trovano tanti altri palestinesi e israeliani nella terra contesa. Il conflitto, quando divora, non fa distinzione di identità.
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beh, che bello: ebrei, cristiani e musulmani tutti uniti contro gli omosessuali.