Le Recensioni di GamesRadar - Pag 4
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Discussione: Le Recensioni di GamesRadar

Cambio titolo
  1. #46
    Kelvan
    Ospite
    Pink Floyd – The Piper At The Gates Of Dawn
    Rock Psichedelico
    1967






    1. Astronomy Domine
    2. Lucifer Sam
    3. Mathilda Mother
    4. Flaming
    5. Pow. R. Toc H.
    6. Take Up That Stethoscope And Walk
    7. Interstellar Overdrive
    8. The Gnome
    9. Chapter 24
    10. Scarecrow
    11. Bike

    Syd Barret: Chitarra e Voce
    Roger Waters:
    Basso
    Rich Wright:
    Tastiera
    Nich Mason:
    Batteria



    Album d’esordio dei Pink Floyd, primo e ultimo album del genio Syd Barret. L’album ebbe subito molto successo, tanto che all’epoca si diceva che il 1967 fosse soprattutto l’anno di Astronomy Domine. I produttori dei Pink Floyd, i Floyd stessi erano a conoscenza dell’estro di Syd, e lasciargli campo libero era ovvio e doveroso. Beatles, che in quel di Abbey Road stavano firmando il loro capolavoro, si dice che fossero soliti piazzare cimici nello studio accanto per vedere cosa stesse nascendo dalla mente di Syd.
    La nascita di Astronomy Domine è caratterizzata da un aneddoto alquanto caratteristico di questo stravagante quanto geniale artista: durante l’uso di LSD, accompagnato da alcuni libri di astronomia, astrofisica e quant’altro, e servendosi di arance e mele, dimostrò la disposizione dei pianeti secondo la sua personalissima interpretazione, dando vita inoltre alla canzone stessa, che con i suoi suoni fuori dalla norma, chitarre pulsanti, dilatate e distorte da echo ed overdrive, organi fumosi e una voce, quella di Barrett, che se ne infischia di intonazione, bel canto e formalità varie: è solo spirito, necessità di espressione che punta dritta alla follia .
    Ma Syd è anche maestro nel raccontare fiabe sempre, ovviamente, a modo suo. Fresco della lettura di libri quali Tolkien, scrive The Gnome, Lucifer Sam, Mathilda Mother, Bike, Chapter 24 e Scarecrow. Sono filastrocche psichedeliche, dominate da chitarra, organo e voce su un solido e pulsante tappeto ritmico, tra i più efficaci emersi all’epoca, con l’ottima musica di Richard Wright. Sentendole con leggerezza queste ci strapperanno un semplice sorriso, compiaciuti dall’ascolto e catturati dalla musica. Insistendo ad ascoltare, ci accorgiamo però di come Barret sia anche un nostalgico verso gli anni passati e che non torneranno, la sua infanzia, la sua situazione.
    Ultimo saluto di Barret al cosmo è Interstellar Overdrive, musica senza testo, un viaggio psichedelico “stellare” in cui viaggiamo attraverso i pianeti e ci sentiamo dentro alle molteplici nebulose che l’universo ospita, il tutto condito dagli ormai consueti effeti di distorsione e di eco.
    L’unico brano firmato da Waters, che come sappiamo sarà il leader dei Pink Floyd dopo Syd, è Take Up That Stethoscope And Walk. È un brano ottimo, con grandi spunti psichedelici e bellissimi effetti. Tuttavia al confronto con i brani di Syd non regge il passo.
    Dopo l’uscita di The Piper At The Gates Of Dawn, Syd cadde sotto l’effetto delle droghe durante un concerto, rimanendo immobile e costringendo il gruppo a interrompere la propria esibizione. Dopo questo episodio il gruppo decise di allontanare Syd, e al suo posto entrò a far parte del gruppo David Gilmour. Per pochissimo furono un quintetto, ma l’ultimo contributo di Syd fu in A Saucerfull of Secrets, poi tornarono al quartetto, con David al posto di Syd.

  2. #47
    Kelvan
    Ospite
    Ivan Graziani - I Lupi
    Rock
    1977






    1 I Lupi
    2 Motocross
    3 Zorro
    4 Ninna Nanna Dell'Uomo
    5 Lugano Addio Graziani
    6 Eva
    7 Il Topo Nel Formaggio
    8 Il Soldo

    Walter Calloni: Batteria
    Derek Wilson: Batteria (Ninna nanna dell'uomo; Il topo nel formaggio)
    Hugh Bullen: Basso
    Claudio Majoli: Piano elettrico
    Gino D'Eliso: Celeste, Mini piano (Ninna nanna dell'uomo; Il soldo)
    Antonello Venditti: Gran piano, Organo, Eminent (Ninna nanna dell'uomo)
    Gaio Chiocchio: Moog, Mini Moog, Soft Guitar (Ninna nanna dell'uomo)
    Ivan Graziani: Chitarra acustica, Chitarra elettrica, Voce, Cori, Dobro, Mandolini
    Piero Montanari: Basso (Ninna nanna dell'uomo; Il topo nel formaggio)
    Paolo e Miliziade: Coro doppio (Ninna nanna dell'uomo)

    Testi, musiche, arrangiamenti e produzione: Ivan Graziani.



    Il terzo LP di Ivan Graziani si apre con una splendida ballata. Con questa canzone, "I Lupi", il cantautore ci mostra gli orrori della guerra ed il loro rifiuto da parte di un uomo. Un soldato che spezza il suo fucile e getta via la sua divisa. Ad accompagnare i versi del testo con le sue metafore, la chitarra di Ivan Graziani, come al solito suonata ottimamente.
    La successiva canzone racconta la storia disperata e tragica di un ragazzo. Il bel giro di basso di Hugh Bullen rende bene la cupezza del brano, "Motocross".
    A seguire "Zorro", splendida canzone con un eccellente testo ricco di metafore sarcastiche e con un buon lavoro di chitarre.
    "Ninna nanna di un uomo" è una ninna nanna in dialetto abruzzese, terra d'origine del cantautore teramano Ivan Graziani.
    Il quinto brano è "Lugano addio", forse il brano migliore di Ivan ed il più conosciuto. Una melodia meravigliosa che fa da sfondo ad una storia nostalgica per un ricordo di tanti anni prima, legato ad una donna alla quale Ivan dedica dei versi che sono entrati nella storia della canzone italiana. Il cantato sospeso di Ivan rende l'idea della nostalgia in maniera efficace. Lo struggimento per il ricordo di Marta è enfatizzato dal piano di Majoli con la batteria di Calloni e le splendide chitarre del solito Ivan Graziani.
    Un'altro brano dedicato ad una donna, "Eva", con chitarre e batteria in evidenza.
    "Il topo nel formaggio" è un altro stupendo brano ricco di metafore e doppi sensi con immagini di degrado e squallore, violenza e crudeltà. Bello il cambiamento melodico nel finale con una melodia distorta incalzata dalla chitarra di Ivan che trasmette un senso di angoscia.
    Infine "Il Soldo" chiude la raccolta con un brano che, probabilmente autobiografico, mostra immagini strane ed evocative ed una serie di versi fascinosamente ambigui.
    Probabilmente Ivan Graziani non è molto conosciuto ai più, forse per il suo particolare atteggiamento durante la sua carriera. Egli infatti non cercava la via del successo, piegandosi alla regole di mercato, bensì scriveva, suonava e cantava solamente quello che lui desiderava.
    Un album adatto a tutti, con canzoni belle sia da ascoltare sia da cantare o suonare. Per chi vuole conoscere il vero Rock italiano...


  3. #48
    Kelvan
    Ospite
    Brian Eno - Ambient Music 1: Music For Airports
    Ambient
    1978






    Brian Eno. Genio, videoartista, studioso, si autodefiniva un 'non musicista', uno scienziato, un inventore, privo di talento ma con la testa colma di idee, con la passione per i synth e ciò che ne concerne, con la voglia di manipolare, sviscerare,
    ridurre. Ed è proprio questa la premessa di questo cd: minimalismo. Musica che crea immagini, non suoni. Musica come arredamento, come designatrice di un luogo immaginario, che non necessita di un ascolto approfondito ma che nello stesso tempo riempie i vuoti di suoni, infiniti, sempre uguali e sempre diversi.
    Musica svuotata della musica, un insieme infinito toni, riciclati, perpetrati, musica come parte di un ambiente.
    Minimalista sin nei nomi delle tracce (1/1, 2/1, 1/2, 2/2), perchè questa è l'essenza di questo cd.
    Un cd di sinfonie non classiche, sinfonie che placano i sensi delle persone che stazionano in quel crocevia che è l'aereoporto, sinfonie prive di un senso ma che ad ogni nuovo ascolto ne acquistano uno, diverso e meraviglioso.
    La prima traccia dura 16 minuti. Robert Wyatt crea una palpabile atmosfera, rielaborando all'infinito eteree frasi di piano, seducendo l'ascoltatore e lasciandolo in attesa di un colpo di scena, che non arriva mai ma che è sempre presente.
    Il secondo brano è basato su echi e sovrapposizioni di un coro femminile, che disorienta l'ascoltatore lasciandolo in un vertiginoso vuoto.
    Il terzo combina coro e pianoforte, allontanandosi dai precedenti brani ma riprendendone l'essenza, minimalista come sempre.
    Il quarto è basato su un solo synth, freddo e cupo, che lascia lo spettatore come in trance, avvolgendolo con una chiusura incompleta. Eh sì, incompleta perchè non ha fine. Non può averla.

    Giudizio finale: Un disco basato su fluttuazioni, forme differenti di calma, giochi di toni e suoni, che designano ambienti e immagini.
    Potrebbe perpetrarsi all'infinito, questa magia: ogni volta assumerebbe forme differenti.
    Eh, questo è Brian Eno. Un non musicista. Un artista nel senso più assoluto. Colui che snatura la musica, la rende scatola e la riempie di suoni.

    Più che un cd, un'esperienza di vita.


  4. #49
    Kelvan
    Ospite
    Dream Theater - Scenes From A Memory
    Prog Metal
    2002




    1. Regression
    2. Overture 1928
    3. Strange Deja Vu
    4. Through My Words
    5. Fatal Tragedy
    6. Beyond This Life
    7. Through Her Eyes
    8. Home
    9. The Dance of Eternity
    10. One Last Time
    11. The Spirit Carries On
    12. Finally Free
    James Labrie: Voce
    John Petrucci: Chitarra
    John Myung: Basso
    Jordan Rudess: Tastiere
    Mike Portnoy: Batteria


    La prima volta che ho sentito questo cd avevo capito che qualcosa nel sound dei Dream Theater, almeno per questo disco, era cambiato.
    Il disco non seguiva un unico filone intervallato da canzoni molto pacate, ma spaziava letteralmente tra moltissimi generi musicali.
    È così che rilassandosi e chiudendo gli occhi si sente la melodica "Regression", due minuti di chitarra dolce e passionale. Neanche il tempo però di rilassarsi che parte "Overture 1928" e subito dopo "Strange Deja Vu". Canzoni con lo stesso sound e tema ricorrente, aggressive, ma con un filo tanto logico quanto espressivo. E così si arriva a "Throught My Words", dolce preludio alla bella "Fatal Tragedy", con una sontuosissima parte strumentale.
    Il cd è magnifico e quella che per ora mi è rimasta più impressa è la terza traccia. "Beyond This Life" è una canzone alla "Images And Words", a dir poco graffiante e affascinante, con una parte strumentale che però non affonda, non convince. Arriva poi "Through Her Eyes", primo singolo dell'album, splendida, ma molto più bella dal vivo come dimostra il DVD "Scenes From New York". "Home" è una canzone di 13 minuti inizialmente orientaleggiante, che riprende Metropolis Pt.1 (e non chiamatela mancanza di idee) dove, assieme a "The Dance Of Eternety", i quattro musicisti mostrano le proprie doti tecniche. Arriva poi "One Last Time", canzone bella, ben strutturate e lunga quanto basta. Si arriva così a "The Spirit Carries On", la vera perla del cd di cui mi sono subito innamorato. È splendida non solo la canzone, dal grande impatto emotivo, ma anche le parole, profonde e di grande significato. "Finally Free" è il brano che conclude l'album, dove viene ripreso il motivetto di "One Last Time" nella parte centrale; non avrebbe guastato farla leggermente più veloce.
    Questo album, (anche se parlare di album è riduttivo poiché si tratta di una vera e propria opera divisa in atti) coinvolge dall'inizio alla fine, scorre via leggero, senza intoppi.
    È un album emozionante, una perla nel panorama musicale mondiale.
    Il vero, grande rilancio dopo il deludente Falling Into Infinity e lo pseudo-cd A Change Of Seasons.


  5. #50
    Kelvan
    Ospite
    270 Bis - Incantesimi D'Amore
    Musica Alternativa (Rock Alternativo)
    2000




    1. Barricate
    2. Non Nobis Domine
    3. Incantesimi d'amore
    4. L'angelo custode
    5. The Guns of Verona Beach
    6. Oltre il Confine
    7. Politicamente Scorretto
    8. Petite Chanson
    9. The Storm
    10. Roma LXXVIII E.F.

    Cantante: Marcello de Angelis
    Sassofono: Massimiliano Cocciolo
    Chitarra: Maurizio Taloni
    Chitarra: Marco Zanni
    Basso: Maurizio D'Emilio
    Batteria: Fabio Silvestri


    Prima di iniziare con la recensione vera e propria è meglio fare chiarezza con il termine "musica alternativa". Diversamente da come si può pensare questo non è proprio un genere ma bensì una definizione nata nella seconda metà degli anni '70 per definire la musica "di destra". Alternativa perchè non aveva spazio presso la grande distribuzione e rimaneva quindi relegata nel "ghetto" in cui si trovavano i militanti e i ragazzi di destra.
    Non appena inserito il cd nel lettore verremo catapultati in un mondo dove le emozioni la fanno da padrone, complici la voce del poliedrico De Angelis, gli arrangiamenti che oserei definire geniali e il sapiente uso del sassofono che da un tocco di classe alle tracce presenti nel disco.
    Canzoni che ti catapultano all'epoca dei templari come nel caso di "Non nobis Domine" (dedicata all'ultimo maestro templare Jaques de Molay) o "Incantesimi d'amore", canzone che parla di due innomarati costretti a vivere lontani e che utilizzano la magia per colmare la distanza, che evoca alla mente sciamani pellerossa e druidi (non a caso la canzone inizia con un canto d'amore degli indiani d'America), sono delle piccole opere d'arte che meritano sicuramente di essere ascoltate.
    Non mancano poi chicche come "The guns of Verona Beach" che è una citazione del pezzo dei Clash "the guns of Brixton", rivisatato nello stile, nella ritmica e nel testo.

    In definitiva l'album merita di essere ascoltato. Consigliato sopratutto a chi idee di "estrema destra" ma anche a chi con quelle idee non centra niente ma che è alla ricerca di un rock alternativo che tecnicamente rasenta la perfezione.
    Ultima modifica di Kelvan; 15-09-2006 alle 16:32:15

  6. #51
    Kelvan
    Ospite
    Thom Yorke - The Eraser
    Rock
    2006






    1. The Eraser
    2. Analyse
    3. The Clock
    4. Black Swan
    5. Skip Divided
    6. Atoms for Peace
    7. ...and It Rained All Night
    8. Harrowdown Hill
    9. Cymbal Rush


    Visto che si tratta di un mio disco, tenterò di essere il più obiettivo possibile, ma non contateci:
    dunque dunque, The Eraser è la prima opera solista di Thom Yorke, prodotta dal fido Nigel Godrich (che però non sarà il produttore del prossimo disco dei RH, ed è la prima volta dai tempi di The Bends),e penso che possa rappresentare tranquillamente il miglior compromesso tra i suoni più sperimentali dei RH(in questo senso si potrebbe collocare come naturale seguito di certi samples e timbri provati nelle pagine più criptiche di Amnesiac e Hail to the Thief) e dalle voglie di ritmo e oserei dire “post-house” di Thom Yorke(sì, perchè questa volta si può anche ballare su 3-4 brani di Yorke, chi l'avrebbe mai detto...)
    Ma rispetto agli ultimi dischi della band di Oxford, una cosa salta subito all'orecchio già dalla prima traccia, che dà il titolo al disco: la voce a briglia sciolta di Thom, cristallina come non mai, a suo agio in gorgheggi e vocalizzi che a volte ricordano le peripezie vocali di Pablo Honey. Sembra quasi che, nel disco solista, Thom si sia liberato della quasi obbligata “oscurità” che deve caratterizzare la sua voce (spesso distorta) nelle ultime opere dei RH.
    E già alla seconda canzone ci troviamo di fronte al primo capolavoro del disco, “Analyse”, una sorta di “Like spinning plates” bagnata dalla luce del sole, accompagnata dal tipico pianoforte martellante di Thom, un gioiellino che rifulge di splendore oscuro, 4.05 minuti di pura “scuola yorkesca”.
    Tocca a "The Clock", che potrebbe essere una "Idioteque" meno scontrosa e gelida, il mantra di Thom è ossessivo come appunto lo scandire dei secondi di un orologio, e con la mente si va lontano, lontano.
    Traccia 4, arriva il pugno nello stomaco, con “Black Swan”, altra vetta dell'album, guidata da un basso suadente e da una chitarra fortemente Greenwoodiana(non escluderei la partecipazione di Jonny, ma non sono sicuro), con la voce di Thom che è tagliente come un rasoio. Potrebbe essere tranquillamente la figlia di “I might be wrong”(da Amnesiac).
    L'essenziale “Skip Divided” ricorda molto il “rosario” finale della “Morning Bell” di Kid A per linea vocale, canzone difficilmente amabile al primo ascolto, ma che si apprezza col tempo, la vedo come ponte ideale tra le due parti dell'album (non per niente è collocata proprio a metà dell'album).
    La successiva “Atoms for Peace” è una “Packt like Sardines in a Crushed Tinbox” in maggiore, gli acuti di Thom sono aghi che passano il corpo da parte a parte, l'orecchiabilità del cantato stride volutamente col testo, quasi a voler disorientare l'ascoltatore, per prepararlo al mood del brano successivo.
    Come lascia presagire il titolo, “...and It Rained All Night” è il momento più oscuro dell'album: l'atmosfera è quella claustrofobica di “The Gloaming”(HTTT), con un ritmo sintetico ossessivo e loop “cibernetici”che si rincorrono per tutto il brano, allo stesso modo degli splendidi falsetti di Thom.
    Quindi parte potente “Harrowdown Hill”, a metà tra una canzone dei Cure e “Where I End and You Begin”(HTTT) ma complessivamente migliore di quest'ultima, con un'atmosfera più distesa, caratterizzata dalla voce scatenata di Thom, forse nell'interpretazione più “solare”della sua carriera.
    E nella finale “Cymbal Rush” ritorna il piano dell'apertura del disco, che sinuoso si fa largo tra suoni stile console a 8 bit e percussioni digitali, unitamente alla strabiliante voce di Thom, che ricorda a tratti la chiusa di “Let Down”(Ok Computer). L'atmosfera è invernale, serrata, molto più tagliente del resto dell'album, quasi come a rivendicare che, nonostante un'impostazione generale più distesa e viscerale, alla fine Thom Yorke rimane sempre Thom Yorke, e chi vuole intendere intenda.

    Non voglio dare voti, anche perchè la grandezza di un disco la stabilisce il tempo. Posso solo dire che questo esordio solista di Yorke è proprio come me l'aspettavo, col piacevole punto a favore di un'interpretazione vocale eccezionale, tornata ai livelli di OK Computer.
    La mia opinione è che non deluderà nessuno, anzi, magari riconquisterà quei fan rimasti un po' perplessi dalla natura “nè carne né pesce” di HTTT, delizierà i nostalgici di Kid A e Amnesiac(grazie ad alcuni brani che sembrano figli di quelle storiche sessions) e ricatturerà anche qualcuno di coloro che amavano i primissimi Radiohead, per merito della voce di Thom ritornata prepotentemente al centro della scena, splendida così com'è, senza distorsioni.

    Per tutti gli altri rimane comunque un disco da ascoltare obbligatoriamente, posto che si sia amanti di musica fatta per amore della musica.


  7. #52
    Kelvan
    Ospite
    1208 - Turn Of The Screw
    Pop-Punk
    2004






    1.My Loss
    2.Fall Apart
    3.Tell Me Again
    4.Next Big Thing
    5.Time To Remember
    6.Smash The Badge
    7.Lost And Found
    8.Everyday
    9.From Below
    10.Hurts To Know
    11.All I Can Do
    12.Not You
    13.The Saint
    14.Turn Of The Screw

    Alex Flynn: voce,chitarra
    Neshawn Hubbard: chitarra
    Bryan Parks: basso
    Manny McNamara: batteria



    Dopo l'uscita nel 2002 di "Feedback is Payback" i 1208 tornano all'opera consegnandoci un bellissimo CD pop-punk misto ad hardcore-melodico direttamente fra le nostre mani.Iniziamo subito con il parlare di questo gruppo nato nel 1995,il cui nome deriva dall'appartamento che si dividevano;tutti originari della California,patria natale di questo genere che portò alla ribalta gruppi più blasonati e forse "commerciali" come Blink-182 e Sum41 si sono guadagnati un nome in tutto il Nord-America anche grazie al chitarrista dei Pennywise,John Lindberg,che ha co-prodotto il primo album.Tornando a parlare dell'album,esso è composto da 14 tracce tutte ben orecchiabili,a partire da My Loss che appare come il perfetto connubio di hardcore-melodico e punk-rock che come già detto ricorda molto da vicino i Sum41,in particolar modo,per arrivare a Turn Of The Screw che invece da nome all'album.
    Il tutto è un lavoro nel complesso già visto,se consideriamo la ripetitività a cui a volte giunge questo genere,ma i veri e propri fanatici (come me) non ne potranno praticamente fare a meno.Se devo essere sincero le tracce più degne di nota sono due (oltre a quelle precedentemente citate):Fall Apart e Tell Me Again,che forse appaiono come le più "potenti" a livello di sound(ma neanche troppo a dire il vero),anche se in questo è maestra The Next Big Thing,e si contraddistinguono per i soliti cori,che oramai sono un marchio a denominazione di origine controllata in questo sempre più sovraffollato genere.Il resto dell'album è anch'esso molto orecchiabile e piacevole...insomma,a parer mio un acquisto obbligato per tutti gli amanti del pop-punk (da alcuni chiamato anche power-pop),stufi del "commerciale" che stà pervadendo grazie a gruppi quali Simple Plan o Good Charlotte.Siate anticonformisti!


  8. #53
    Kelvan
    Ospite
    Elend – Winds Devouring Men
    Neoclassica moderna/Avanguardia
    2003





    1. The Poisonous Eye
    2. Worn Out with Dreams
    3. Charis
    4. Under War-Broken Trees
    5. Away from Barren Stars
    6. Winds Devouring Men
    7. Vision is all that Matters
    8. The Newborn Sailor
    9. The Plain Masks of Daylight
    10. A Staggering Moon
    11. Silent Slumber: a God that breeds Pestilence (bonus track)

    Klaus Amann: Tromba, corno, trombone
    Nathalie Barbary: Voce soprano
    Shinji Chihara: Violino, viola
    David Kempf: Violino solista
    Esteri Rémond: Voce soprano
    Iskandar Hasnawi: Voce, sound-design, programming
    Sébastien Roland: Sound-design, programming
    Renaud Tschirner: Voce, sound-design, programming, registrazione industrial landscapes
    Simon Eberl: Registrazone industrial landscapes e rumori



    Quinto lavoro per il duo franco-austriaco Hasnawi-Tschirner, che risponde al nome di Elend (“rovina”, in alto tedesco medio), sempre con la collaborazione del soprano Nathalie Barbary e del sound designer Sébastien Roland. Dopo 5 anni di silenzio dalla conclusione del ciclo di tre lavori “Officium Tenebrarum”, il gruppo torna inaugurando un altro ciclo di opere, denominato “The Winds Cycle”, che si protrarrà per un totale di cinque dischi.
    Prima di parlare di questo lavoro, bisogna però specificare la proposta musicale degli Elend, che non è per niente “convenzionale”. Un punto importante da precisare è che questo collettivo non ha nulla a che fare, musicalmente, con il mondo del metal, anche se viene spesso erroneamente inserito e/o recensito in tali ambiti. Gli Elend propongono una visione musicale basata sulla musica classica, trasportata in chiave postmoderna, dunque arricchita di vari elementi, come voce in scream (nei primi lavori) o inserti ambient ed industrial (negli ultimi lavori).
    Detto ciò, si può iniziare a parlare di questo Winds Devouring Men.
    Il lavoro si dipana come un unico continuum, sottolineato graficamente dal booklet che sviluppa un poema composto dal duo Hasnawi-Tschirner, fatto di richiami, citazioni e di strofe talvolta non presenti nei brani, che servono da raccordo fra le varie canzoni. Questa scelta concettuale è dettata dal tema che il lavoro intende sviluppare: WDM è l’allegoria di un viaggio. Gli autori traggono ispirazione dai viaggi d’Ulisse per parlare di un’esplorazione dei propri intimi sentimenti, uno scavo interiore che non ha timore di arrivare fino al fondo dell’animo umano, fino a toccare il nero più nero. Sì, perché la musica degli Elend è una musica “nera”, oscura, opprimente. Il disco inizia con partiture d’archi molto aperte, placide, testimoni di un inizio in medias res, di uno stato mentale di rassegnazione già raggiunto. In seguito, comincia ad introdursi la turbolenza generata dal violino del solista David Kempf, dai toni acuti e tesissimi: la nave prende il largo, si avventura verso territori sconosciuti, verso gli abissi dell’animo umano. Il percorso continua, spazia fra mare e costa, in un arco non-temporale scandito dalla propria interiorità, come lo spietato pianoforte scandisce Under War-Broken Trees, prima di venir portati via lontano dalla voce fluente di Tschirner e dallo strascicante incedere delle macchine a percussione elettronica, sempre più al largo e sempre più in pericolo. Il sentimento che vogliono esprimere i compositori mentre ci si accinge alla parte centrale del disco è simile all’orrore che pervadeva il marinaio quando si allontanava verso il mare aperto, sconosciuto, come gli anfratti del proprio Io.
    Il ricordo di una promessa fatta ad una persona cara, prima di salpare, introduce tristemente Away from Barren Stars, salvo poi degenerare in un vortice umoristico in cui gli archi acutissimi si infrangono contro muri di rumori e urla lontane in sottofondo. La nave è in preda ad una tempesta di violini tesi ed acuminati come strali, in mezzo a questa composizione vorticosa la voce malinconica di Tschirner viene trascinata via, alla deriva, fino ad imbattersi in un mar morto, quello della strumentale title album, una chiara risonanza del mare di melma in cui si imbatte il vecchio marinaio di Coleridge. E’ qui che si trova la parte più oscura dell’animo umano, invischiata in mezzo a nebbie costituite da rarefazioni ambient, fragori di percussioni ed intrecci tra violini e loop noise come fossero sinistri venti. E’ questo il fondo, da qui si può solo risalire, ancora con un’altra tempesta: uno Scilla e Cariddi di archi terrorizzanti spiega il verso portante di tutto il poema, “Vision is all that matters”, la visione è ciò che serve per uscire dal dedalo della vita (“And reason enslaves us no longer”).
    Nella parte finale del disco i toni assumono quelli d’una lucida rassegnazione, malinconici fiati parlano di colui che sa di essere dannato e lascia la gioia del mondo ad un “neonato marinaio” (The Newborn Sailor), ma destinato anch’esso ad errare per terra e mare.
    Gli ultimi brani sviluppano immagini visionarie, quelle di un sole della ragione che sta tramontando in luogo di una stupefacente luna, che sorge lenendo le ferite in un crescendo di archi e voce, per poi rallentare e fermarsi del tutto nella rarefatta bonus track, in cui la voce dei soprani ci culla fino a dissolversi pian piano del tutto.

    Come avrete certamente intuito, il disco in questione è una vera e propria opera concettuale; da lì parte il duo Hasnawi-Tschirner, che ricama sopra composizioni affascinanti, particolari e adatte a creare un’opera ai limiti della letteratura, trasposta in termini musicali. Un lavoro multisfaccettato, aperto alle disparate interpretazioni, accessibile a più livelli di comprensione. Un lavoro che si colloca sicuramente tra i più interessanti degli ultimi anni.

    Kratos

    Traduzione testi Winds Devouring Men
    Ultima modifica di Kelvan; 15-09-2006 alle 16:31:58

  9. #54
    Kelvan
    Ospite
    Blind Guardian - A Twist In The Myth
    Power Metal
    2006






    1. This Will Never End
    2. Otherland
    3. Turn the Page
    4. Fly
    5. Carry the Blessed Home
    6. Another Stranger Me
    7. Straight Through the Mirror
    8. Lionheart
    9. Skalds and Shadows
    10. The Edge
    11. The New Order

    Hansi Kursch: All Vocals
    Andrè Olbrich: Lead Guitar
    Marcus Siepen: Rythm Guitar
    Frederik Ehmke: Drums



    "Life is a map
    and it is quite confusing
    The lights are up
    now let the play begin
    She flies, she flies
    Into the light she flies
    No words like "just" in mind

    She's finding Neverland
    there on the day she dies
    Don't stop it now
    she still enjoys the scene"


    Ci siamo. Anche questa volta sono dovuti passare quattro lunghi anni prima di avere tra le mani un nuovo studio album dei Blind Guardian. Quattro anni nei quali sono successe diverse cose alla band di Krefeld, come per esempio il mastodontico tour mondiale del 2002/2003vche ha avuto il proprio apice nella doppia serata da Headliner al Blind Guardian Open Air di Coburgo, organizzato apposta per loro; la pubblicazione di due piccole perle: un doppio live album ( Live, 2003 ) con le migliori canzoni del gruppo prese qua e là da alcune delle serate del tour; e del primo DVD della band ( Imaginations Through the Looking Glass, 2004 ), contenente un mix di 20 canzoni prese dalle due giornate del Blind Guardian Open Air. Uscite importanti, certamente, ma la vera svolta per il gruppo c'è stata nel 2005: prima, ad Aprile, l'abbandono del batterista Thomen Stauch per presunti "motivi artistici", interrompendo quindi la line-up originale dopo 20 anni di carriera; ed un mese dopo, la firma per la Nuclear Blast abbandonando così la label di sempre, la Virgin. Sono stati proprio questi due ultimi avvenimenti a far aumentare notevolmente l'attesa per il disco in questione.
    A Twist in the Myth arriva dopo il tanto amato/odiato A Night at the Opera. Già, amato/odiato, perchè sicuramente si tratta dell'album più ambizioso dei Guardian, forse anche troppo in alcuni punti, ricco com'è di elementi sinfonici e di cori e contro-cori quasi ad ogni strofa... e come immaginabile, il pubblico metal si è spaccato letteralmente in due parti nel giudizio dell'album, se pur con una certa maggioranza per i favorevoli. Giunti a questo punto nessuno sapeva più cosa aspettarsi da questo album, giravano prima voci di un album sulla falsa riga del precedente, poi voci di un ritorno allo stile più massiccio dei primi '90; ed i Blind Guardian sono passati esattamente in mezzo alle due opzioni che avevano di fronte, creando un album che presenta sì alcuni dei suoni che avevano caratterizzato il contorverso predecessore, ma si presenta anche ricco di elementi completamente nuovi e di alcuni altri ancora più vecchi, con canzoni spesso contenenti nuovamente delle linee vocali più assimilabili che però nascondono una costruzione strumentale in realtà più studiata di ciò che sembra alla prima apparenza. Album comunque molto vario al suo interno, che scorre la prima volta con una certa difficoltà ( anche se più facilmente rispetto ad A Night at the Opera ), tant'è che gli ascoltatori del power più banale alla fine del disco saranno molto probabilmente stremati oppure alla fine nemmeno ci arriveranno, quelli invece più abituati lo digeriranno con molta più facilità anche al primo assaggio. Ma parliamone, di questo assaggio... la prima e propria spiazzatura arriva proprio con l'opener, This Will Never End, aperta da un riff subito incisivo come mai si era sentito dai bardi, ma proprio quando stai per fare headbanging e scalmanarti ecco che arrivano i primi cambi di tempo e la voce distorta di Hansi che ci introduce al bellissimo chorus, il quale diventerà con molte probabilità un cavallo di battaglia in sede live. Un respiro per cercare di capire a cosa si è davanti ed ecco che i nostri ci portano in territori a cui ci avevano già abituato con le bellissime Otherland e Turn the Page; entrambe ci mostrano la cruda e mera verità: che i Blind Guardian fanno con una disinvoltura disarmante quello che tutte le altre band power con venature epic cercano di fare, ovvero produrre una canzone tipicamente power inserendoci saggiamente piccole parti sinfoniche e cori maestosi senza MAI scadere nel banale, aggettivo che invece meglio si adatta a tutti gli imitatori dei tedeschi. Come dicevo già prima non mancano esperimenti totalmente nuovi per la band quali Fly e Another Stranger Me, che non sono certo dei pezzi tipicamente Blind Guardian ma sono comunque da annoverare tra i 4-5 pezzi migliori dell'album e ci mostrano dei bardi influenzati dal Rock di altri tempi, specialmente nel secondo episodio. Carry the Blessed Home e Skalds and Shadows rappresentano invece un altro lato ancora dei Blind, sono infatti entrambe ballad anche se molto diverse fra loro: la prima è una semi-ballad sulla scia di The Maiden and the Minstrel Knight mentre la seconda è una ballata medievaleggiante come solo i nostri sanno fare, e chiudendo gli occhi è impossibile non farsi trasportare in un altro mondo dalle sue melodie sognanti. Rinconducibili più allo stile dell'album precedente sono Lionheart e The Edge, sulle quali si sentono melodie di richiami orientali accompagnate da farciture sinfoniche. Non male anche Straight Through the Mirror, rinconducibile al filone di Otherland e Turn the Page, mantendone le caratteristiche e risultando altrettanto vincente, specialmente per il ritornello di buona fattura e di facile assimilazione presente in essa. A chiudere l'album ci pensa The New Order, giocata su strofe calme e profonde che sfociano in un ritornello maestoso tipico della casa; non manca ovviamente qualche parte più power, specialmente nelle vicinanze dell'assolo di Andrè.

    Eccoci, come valutare questo A Twist in the Myth? Si tratta sicuramente del miglior disco Power da almeno 4-5 anni a questa parte ( solo i due dei Vision Divine possono competere ), che ci mostra una band tornata al massimo della forma e con un'arma in più, arma che nessuno certamente si sarebbe mai aspettato alla vigilia: Frederick Ehmke, il nuovo batterista, sicuramente meritevole di aver portato un drumming più variegato e meno power-stanrdard di quello sel suo predecessore, che comunque era quanto di meglio il power potesse offrire dietro le pelli.

    Nota di merito anche alla curatissima copertina e alla produzione a dir poco eccellente del disco, sempre pulita e mai scadente, talmente perfetta e curata che mi sento di sconsigliare l'ascolto di questo disco su PC tramite mp3 a basso bitrate perchè non è davvero la stessa cosa.
    Signori e signore, da Krefeld con furore, la più grande Power Metal band ( ormai non so se può essere continuata ad essere definita così però ) della scena è tornata.


  10. #55
    Kelvan
    Ospite
    Canaan – A Calling to Weakness
    Dark wave/dark ambient
    2002






    1. To those who cried
    2. Prayer for nothing
    3. Warm dust
    4. Everything you say
    5. Scars
    6. Un ultimo patetico addio
    7. The forever passion
    8. Falling again
    9. Grey
    10. The fires in me
    11. Essere nulla
    12. Submission
    13. Mercury
    14. Chrome red overdose
    15. The ghosts of my betrayal
    16. Frequency Omega
    17. A last lullaby

    Mauro Berchi: voce, chitarra, synth
    Nico Faglia: basso, synth
    Luca Risi: tastiere, synth
    Andrea Freschi: batteria
    Matteo Risi: chitarra


    Quarta uscita per i milanesi Canaan, una delle più interessanti formazioni nostrane, promossa recentemente dallo stato di "semisconosciuta" a quello di "nota nella realtà underground", in terra italica e non. Inspiegabilmente, considerando la bravura di Mauro Berchi e soci, ma verrebbe da dire anche ovviamente.
    Con cadenza puntuale, il collettivo lombardo continua a pubblicare i propri lavori, nei quali non si può fare a meno di notare un progressivo miglioramento, suggerendo un’interessante maturazione artistica. I temi, le atmosfere, la filosofia è sempre quella del debut Blue Fire (datato ormai 1996), ma il livello compositivo e l’intelligenza artistica sono migliorati a vista d’occhio.
    Questo A Calling to Weakness racchiude in diciassette brani molteplici sfumature, accomunate in un’unica sostanza che imperversa senza sosta lungo i 71 minuti d’ascolto: il dolore. A partire dall’epitaffio scritto dallo stesso Mauro all’interno del digipak, per poi proseguire attraverso l' ormai classica struttura dicotomica “canzone - non canzone”, ovverosia l’alternanza tra un brano che segue le regole della forma canzone ed un altro che invece le ignora (questa sequenza è diventata una cifra stilistica del gruppo).
    L’ascoltatore è accolto in questa “chiamata alla debolezza” da un intro onirica, in cui lo scroscio di samples di pioggia battente su di un desolato paesaggio metropolitano va a fondersi con il caldo ma vacuo suono di un particolare strumento aerofono d'origine africana, mentre la placida voce del guest Khalid cantilena un intraducibile senso di rassegnazione. Questo sentimento di costernata accettazione degli eventi mondani (nel senso di questo mondo) è uno dei tratti fondamentali del disco e della musica dei Canaan in generale. Ma non è un'autocommiserazione né un piangersi addosso, bensì lucida consapevolezza. La lucidità è la seconda nota importante da ricordare: essa si manifesta lungo tutto l’album, si esprime in una ricerca peculiare di suoni e di arrangiamenti, in cui nulla è lasciato al caso.
    Ne sono manifesto la struttura dei brani “classici”, ovvero quelli che si lasciano inquadrare ( lascio intendere una passività in tutto ciò perché conoscendo gli artisti, per nulla si interessano di seguire gli stilemi di un determinato genere) in una sorta di dark wave del 2000: ritmiche scheletriche, batteria regolare e cadenzata, chitarre sia distorte sia pulite, trattate con feedback e riverberi. Ma vi sono altri due tratti caratteristici: la massiccia presenza di synth plumbei, che gravano sulle orecchie dell’ascoltatore (come in Essere nulla) e che difficilmente riescono nel tentativo di innalzarsi oltre al pesante coperchio della quotidianità (ne sono la prova l’apatia di brani come Grey e The Forever passion, di pari passo con il controllato fatalismo di Prayer for nothing e Mercury). Il secondo elemento caratteristico, ugualmente importante, è la voce di Mauro, la cui tonalità bassa ricama adattissime linee vocali, dal rassegnato monocorde allo scandito declamare, passando per il distorto e il filtrato. Alla calda voce del guest Gianni Pedretti (vocalist e mastermind del progetto tutto italiano Colloquio) è invece affidato il compito di esplicare il tema del dolore per separazione, da persone care e da affetti: la sua interpretazione delle amare parole scritte da Mauro per Un ultimo patetico addio è magistrale, così come quella dei versi composti di suo pugno in Essere Nulla.
    Infine, esaurendo la parte dei brani che seguono le strutture della forma canzone, bisogna rilevare l’essenziale parte che recita il basso di Nico Faglia in brani come Red Chrome overdose e Everything you say, in cui il pulsare caldo e sentimentale mette a nudo la solitudine e il ricordo di una mano confortante nel momento del bisogno.
    Ai brani dark ambient, che non seguono la struttura classica della canzone, è affidato il compito di esplorare i territori più oscuri e reconditi della psicologia umana; la misteriosità e l’inaccessibilità di essi viene resa attraverso fitte trame di plumbei synth arricchiti da samples rumoristi o da lontani echi di voci vaghe ed indistinte ( è il caso di Scars), da inquietanti cori ecclesiastici in Submission, oppure da surreali e spettrali campane in The Ghosts of my betrayal, fino a lambire i territori della drone music nella nebbiosa Falling Again.
    Il percorso attraverso i meandri del dolore volge al termine con due spiragli: il che non costituisce certo un “happy ending”, bensì una conferma della “chiamata alla debolezza”. Frequency Omega, affidata al vocalist dei The Frozen Autumn Diego Merletto, è la deposizione delle ultime volontà del gruppo per quanto riguarda questo lavoro, una sospensione fra il senso di vuoto che ci circonda, incerti se considerarlo una forma di sopravvivenza nell’alienazione moderna
    (Silence all around me / is like a key to neutralize / the deadly frequencies inside). L’outro, essenziale filastrocca di chitarra, voce e synth, chiude le trasmissioni, malinconicamente come erano state aperte, ma priva di quel cielo perennemente cinereo che gravava all’inizio: chissà che nel tragitto gli autori, ma anche noi ascoltatori, non ci siamo spogliati di quei fardelli che conserviamo nel guscio della quotidianità.

    In estrema sintesi, uno dei lavori più interessanti emersi dall’ambiente dark italiano nell’ultimo lustro. Un addolorato capolavoro evocativo, concettualmente elaborato ed artisticamente impeccabile. Ascoltate cos'hanno da dire questi cinque trentenni, che non hanno la pretesa di cambiare il mondo, ma solo di rivolgersi in modo netto e senza autoinganni a chi avrà la pazienza di soffermarsi.

    Perché siamo echi in una stanza vuota,
    schiavi dei nostri stessi desideri,
    ed i nostri fantasmi continuano a camminarci a fianco,
    con mani affilate come coltelli.



  11. #56
    Kelvan
    Ospite
    Current 93 - Black Ships Ate The Sky
    Apocalyptic Folk
    2006






    1. Idumæa (feat. Marc Almond)
    2. Sunset (the Death of Thumbelina)
    3. Black Ships in the Sky
    4. Then kill Cæsar
    5. Idumæa (feat. Bonnie “Prince” Billy)
    6. This Autistic Imperium is Nihil Reich
    7. The Dissolution of “The Boat Millions of Years
    8. Idumæa (feat. Baby Dee)
    9. Bind your Tortoise Mouth
    10. Idumæa (feat. Antony)
    11. Black Ships Last Seen South of Heaven
    12. Abba Amma (Babylon Destroyer)
    13. Idumæa (feat. Clodagh Simonds)
    14. Black Ships Were Sinking into Idumæa (feat. Cosey Fanni Tutti)
    15. The Beautiful Dancing Dust
    16. Idumæa (feat. Pantaleimon)
    17. Vay Vau Vau (Black Ships in their Harbours)
    18. Idumæa
    19. Black Ships Ate the Sky
    20. Why Cæsar is Burning part II
    21. Idumæa (feat. Shirley Collins)

    David Tibet: Voce, mixing
    Michael Cashmore: chitarre, basso elettrico, slide guitar
    Ben Chasny: chitarre
    John Contreras: violoncello
    Steven Stapleton: sound-design, mixing



    Torna con una nuova uscita del suo main project David Tibet, schizzato personaggio che sta dietro ai Current 93 dall’inizio degli anni ’80, e che vanta una carriera di tutto rispetto all’interno di un ambiente musicale talvolta misterioso ed esoterico, tale folk apocalittico. Era dall’anno 2000 che l’ex componente degli Psychic TV non faceva uscire un album di inediti; questo Black Ships Ate the Sky ha avuto un periodo di gestazione di quattro anni, nei quali Tibet si è fatto aiutare da una schiera non indifferente di amici e conoscenti (tra cui spiccano gli ormai fedelissimi Michael Cashmore e Steven Stapleton).
    Il disco in questione, sottotitolato “A Hallucinatory Patripassianist Dream”, si configura come una trasposizione dei recenti incubi ed allucinazioni del picchiato David: come spiega nel booklet, ebbe un sogno ricorrente, quello di misteriose nere navi che solcavano il cielo, presagio, secondo lui, della seconda venuta di Cristo. Il tema mistico-esoterico è sempre stato parte integrante del progetto C93, e questa uscita non manca di aggiungere altri interessanti elementi, non limitandosi a riproporre gli stilemi introdotti già a metà degli anni ’80 con “Dogs Blood Rising” e “Nature Unveiled”.
    Il primo elemento caratteristico che viene introdotto, lo si può notare graficamente, è l’utilizzo sporadico dell’alfabeto copto (la lingua copta era la lingua ufficiale in Egitto nel periodo della conversione al cristianesimo). La seconda nota caratteristica si chiama Idumæa, brano che si ripete per ben nove volte nel corso del disco. Il testo non è stato scritto da Tibet, a differenza di tutti gli altri, ma da tal Charles Wesley, scrittore di inni e co-fondatore della dottrina metodista. Il protagonista dell’estratto si fa domande sul senso della vita, sul destino dell’uomo e su che cosa ci sarà dopo la morte; queste domande diventano una sorta di paradigma all’interno del disco, ricorrendo puntualmente l’animo dell’uomo David Tibet; sì sempre Tibet, perché questo è un album molto intimistico ed allo stesso tempo profondamente allegorico, rendendo perciò la sua interpretazione doppiamente difficoltosa. Le nove versioni di Idumæa sono state interpretate ed eseguite da vari ospiti, tra cui Bonnie “Prince” Billy, Baby Dee, Antony (del gruppo “Antony And The Johnsons”), Cosey Fanni Tutti (storica vocalist dei Throbbing Gristle), di modo che differiscano molto l’una dall’altra, aggirando così il problema di una ripetizione stagnante e noiosa dello stesso brano. Le varie versioni di Idumæa sono state inserite, inoltre, in maniera peculiare nell’economia dell’album, in modo da adattarsi ai continui cambi di movimento che possiamo riscontrare nei 75 minuti d’ascolto. Partendo dai calmi e piani arpeggi della chitarra di Cashmore sin dalla prima Idumæa, salendo verso i toni più preoccupati ed incalzanti di Black Ships in the Sky, per poi ricadere in Then Kill Cæsar mescolandosi con il violoncello di John Contreras (fautore di un’eccellente operato in tutto il disco). In generale, l’andamento del disco è sinusoidale, come quello di una metaforica barca che frange i flutti davanti a sé: perciò proseguendo troviamo altri episodi caratterizzati dalla stessa atmosfera di alcuni che li precedono, senza però perdere di intensità o dimostrarsi portatori di poche idee. Anzi, le idee sono molte. Lo dimostrano brani come The Dissolution of “The Boat Millions of Years”, pregni di inquietudine, in cui la voce filtrata e distorta di Tibet declama misteriosi scenari mentre il violoncello tesse atmosfere oniriche d’eccezione. Questo brano è inoltre uno degli esempi più lampanti della grande qualità dei testi dell’album: la ricerca stilistica del mastermind David è maniacale, varia da sinistre allitterazioni (Cat’s revenge on the static staggered beetle divinities/ with their solar discs and pyramidal racket ships/ shifting Satan through the cosmos) ad improbabili similitudini (My legs were like frogs / bubble green blisters), da strampalati giochi di parole (It’s time for sea! ) ad immagini spiazzanti (I called God on the phone).
    Il movimento ondulatorio musicale giunge al termine con due spiragli, costituiti dalle due ultime tracce, che arrivano dopo la tempesta sonora rappresentata da Black Ships Ate the Sky (sintomatica dei peggiori incubi del Tibet, nella quale il pulsare regolare della chitarra elettrica fa da impalcatura ritmica alla sua voce rantolante e ad un violoncello impazzito); alla duplice chiusura spetta il compito di dipingere un uomo che ha compreso quello che all’inizio non riusciva ad intuire, che vedeva sotto la forma oscura e misteriosa delle “nere navi”. Non è però una fine positiva perché, come cita il libretto, “Black shipshave eaten the sky”, e comunque il destino dell’uomo è incerto, come ci ricorda l’Idumæa finale, interpretata da Shirley Collins.

    Quello che David Tibet ci propone è un lavoro importante, ben pensato e realizzato; a dispetto dell’accessibilità sonora (non rimane più nulla degli esperimenti post-industriali che caratterizzavano il progetto Current 93 ai suoi inizi), il disco si presenta come un macigno concettuale di non immediata digeribilità. Ma, al momento in cui scrivo, può battersi per essere annoverato tra i migliori lavori dell’anno 2006, oltre che tra i migliori lavori in ambito apocalyptic folk recente. Un disco “pieno”, in tutti i sensi, da ascoltare e possedere.


  12. #57
    Kelvan
    Ospite
    Agalloch – Ashes Against The Grain
    Black/doom metal, neo folk, post-rock, ambient
    2006






    1. Limbs
    2. Falling snow
    3. This white mountain on which you will die
    4. Fire above, Ice below
    5. Not Unlike the Waves
    6. Our fortress is burning… I
    7. Our fortress is burning… II - Bloodbirds
    8. Our fortress is burning… III – The Grain

    John Haughm: voce, chitarre, percussioni
    Jason William Walton:
    basso elettrico
    Don Anderson:
    chitarre
    Chris Greene:
    batteria


    Dopo il gran clamore suscitato da “The Mantle” (2002) in ambienti poco noti e webzine poco seguite i tre (ora diventati quattro, dopo l’aggiunta permanente del drummer Greene) musicisti di Portland (Oregon, Stati Uniti) propongono un’altra uscita, inutile dire attesissima da chi aveva già apprezzato il predecessore e il debut “Pale Folklore”. Ma questa volta, a differenza di quattro anni fa, il chiasso intorno al gruppo è enorme: la The End Records ha scelto il collettivo come una delle sue punte di diamante, e non lesina anticipazioni, sponsorizzazioni sulla rete e preorder di edizioni limitatissime che spariscono all’istante (sigh). Concludo questa premessa con una considerazione: tutto il baracchino messo su dalla label ha creato interesse anche da parte di persone e ‘zine che non avevano mai sentito prima il monicker Agalloch, e che hanno profuso fior fior di elogi per questa uscita del gruppo, da alcuni definita la “consacrazione definitiva” e la “nuova via del metal da intraprendere”. Evidentemente costoro non hanno dato la giusta attenzione alle uscite precedenti a questo “Ashes against the Grain”.
    Veniamo al disco, che apre subito con un effetto di straniamento, lunghe e poco rassicuranti distorsioni che ci introducono a forza nell’atmosfera sospesa del disco, fatta di accelerazioni, di fermate, di silenzi, di alternanze fra elettrico ed acustico; un po’ il solito stile degli Agalloch insomma, quell’attitudine mutuata dal post-rock e mai negata dagli stessi musicisti. Solamente questa volta c’è qualcosa di diverso: le dosi, i tempi, le scelte stilistiche sono talvolta inspiegabili, spiazzanti sì, ma senza alcun feedback positivo.
    Strutturalmente possiamo assistere in questo album alla cessazione della dicotomia “traccia strumentale - traccia cantata” (cifra stilistica di tutto The Mantle), per approdare ad un più “metalleggiante” montaggio di brani cantati e tirati, insieme ad altri strumentali, o ad altri ancora di stampo ambient, che fungono da pause, intro oppure outro. L’opener “Limbs” richiama i soliti lunghi passaggi strumentali, stavolta impreziositi da una maggior presenza del basso di Walton, il solito drumming quadrato, questa volta affidato a Greene (nei precedenti album era Haughm che sovraincideva la batteria), un rifferama vicino al concetto di tempesta di neve, con nel mezzo le grida lacerate del sempre ottimo Haughm. I ritmi sono abbastanza tirati fino al momento in cui letteralmente precipita, ovverosia si interrompe per far spazio ad un inspiegabile arpeggio di chitarra acustica, per poi riprendere da lì a poco e terminare il brano similmente a come era iniziato. La successiva “Falling snow”, monolitico pezzo da quasi 10 minuti (come il precedente), non si discosta molto e ripete anche troppo a lungo le stesse strofe (tra un riffing essenzialissimo ma a presa rapida e un drumming anche troppo concentrato sugli stessi accenti). Dopo questi quasi venti minuti tirati si decide che c’è bisogno di una “pausa”: si intromette un glaciale brano dark ambient, di buona fattura, ma fuori posto come un iceberg in rotta verso le Maldive. Per fortuna la nave degli Agalloch rimane saldamente ancorata nel Pacifico, dove si possono ancora visitare i paesaggi montani ed innevati dell’Oregon. Ecco che arriva “Fire Above, Ice Below”, la traccia che ci si aspettava: gli arpeggi di matrice neofolk, le progressioni strumentali alla Godspeed You Black Emperor!, la voce sussurrata di Haughm e delle liriche d'eccezione ci accompagnano per dieci minuti e mezzo attraverso cime immacolate, foreste innevate, pianori incontaminati, fino ad arrivare al mare, che con la risacca delle onde ci ricollega a “Not Unlike the Waves”, brano di derivazione neofolk, ma pesante, oscuro, nero di pece, espressione di quella parte profondamente oscura dell'animo di Haughm, che lacera l'atmosfera con le sue grida, in un perfetto bilanciamento tra melodie opprimenti ed aperture acustiche. Il disco si chiude “in bellezza” con la suite “Our fortress is burning…”, composta da tre momenti: inizialmente calma, acustica, con folate elettriche e drones impercettibili in sottofondo che richiamano oscuri presagi; poi sempre più incalzante, fino a quando i riff spettrali incontrano la voce di Haughm, che canta la desolante condizione umana.
    Il disco si chiude con ben 7 minuti di degenerazione rumoristica e drones che faranno storgere il naso ai puristi del sound "hard 'n' heavy" che si sono avvicinati al gruppo con pretese “only metal”, ma che in questo caso (non come nella terza traccia) concludono egregiamente la suite e l'album con un disarmante sensazione del nulla che ci circonda.

    In conclusione, un buon album che lascia l'amaro in bocca e una sensazione che con un po' di più calma (non si erano mai visti gli Agalloch entrare in studio per registrare e finire in poco più di tre settimane, questo sarebbe un elemento da indagare) e delle scelte diverse sarebbe potuto essere un altro capolavoro. Rimane comunque un album più che degno d’ascolto, perlomeno per la grande capacità evocativa che questi quattro atipici americani sanno suscitare.

    The God of Man is a Failure
    And All of Our Shadows
    Are Ashes Against the Grain



  13. #58
    Kelvan
    Ospite
    Blink-182 - Buddha
    Pop-punk
    1994






    Mark Hoppus: basso,voce
    Tom de Longe: chitarra,voce
    Scott Raynor: batteria


    1. Carousel
    2. T.V.
    3. Strings
    4. Fentoozler
    5. Time
    6. Romeo & Rebecca
    7. 21 Days
    8. Sometimes
    9. Point of View
    10. My Pet Sally
    11. Reebok Commercial
    12. Toast & Bananas
    13. The Girl Next Door
    14. Don't


    E così eccomi qui a scrivere una recensione su un gruppo che ha fatto e fa tutt'ora tanto discutere.Le correnti di pensiero e i punti di vista su di questo,i Blink-182 (pronunciato "blink one eighty-two"),sono piuttosto contrastanti,ma si possono riassumere in due:c'è chi li ama e c'è chi li odia.Io,essendo un loro fan,non posso certo che parlarne bene e anzi,ritengo che essi abbiano scritto un importante pagina del pop-punk degli anni '90,al pari dei meno conosciuti MxPx.Ma perchè ho scelto proprio Buddha come prima recensione,vi starete giustamente chiedendo...bhè,vi sono varie motivazioni che mi hanno indotto a scegliere proprio questo album;in primis poichè fu il primo di una lunga serie ad essere gestito da un'etichetta di media importanza,la Cargo Records,poi perchè si tratta di uno dei loro primi lavori assolutamente degni di nota,e di sicuro il più rinomato degli inizi della loro carriera.Il fatto più strano è forse il fatto che non è stato propriamente un album sin da principio,bensì fu registrato nel garage del chitarrista,de Longe,e questo è evidenziato anche dalle voci molto insicure e dalla qualità dell'audio,che possono udire i pochi fortunati che si impossessarono dell'originale (di cui furono stampate solo 1000 copie).
    Così da semplice Promo Tape,grazie all'interessamento della Cargo,i blink riuscirono a mettere sul mercato il loro primo grande lavoro dedicato alle folle.La risposta del pubblico fu davvero eccellente in California,per la precisione a Poway,nei dintorni di San Diego,dove la band mise le prime radici,cantando nei pub e nei locali,cercando la fama che non si sarebbe fatta attendere più di tanto.
    Se siete dei fan accaniti,o comunque degli attenti osservatori,avrete sicuramente notato che molte tracce sono le stesse di Cheshire Cat,album che da alcuni è considerato il vero inizio del gruppo,svalutando a parer mio quello che invece ha da offrire questo Buddha.La canzone con cui si apre è la ormai celeberrima Carousel,cantata da Tom.Una traccia che ha ormai fatto la storia ed è ormai uno dei capi saldi del gruppo.Solo con essa si può ben sentire la freschezza di un inizio,quello dei blink,e anche e soprattutto la bellezza dei ridenti anni '90,un decennio in cui il pop-punk aveva il meglio da offrire (e questo senza tuttavia svalutare band odierne come The Academy is...,The All-American Rejects).
    Cosa che si sente,ma non più di molto in verità,è l'assenza di Travis Barker come batterista;egli infatti approdò nel gruppo solo nel 1998 con l'album Enema Of The State e con l'abbandono di Scott Raynor,sulla cui dipartita si sono fantasticate le più varie ipotesi,dall'alcolismo alla presa di coscienza della "commercialità" che stava prendendo piede nella band.Insomma,potremmo dire le solite malelingue,ma purtroppo è fatto risaputo che quando un gruppo ha successo bene o male cade quasi sempre nella banalità del commerciale,anche se i blink seppero farlo con stile a suo tempo.Ad ogni modo,in Buddha non udirete nulla di tutto ciò,in quanto mancheranno ben altri 4 anni alla consacrazione mondiale,se così possiamo definirla.Tornando in tema,non aspettate di trovarvi tracce potenti alla Feeling This o alla Violence,i quanto in Buddha non c'è la minima impronta di emo o contaminazioni extra-punk.Ad ogni modo non mancano le solite canzoni "energetiche" con cui i tre ci hanno viziato,e tra esse non possiamo non citare Fetoozler,Sometimes,Point of View.
    Per il resto abbiamo tracce molto melodiche,adatte ad uno di quegli album da ascoltare in momenti molto tristi della nostra vita e/o giornata e a tal proposito vale la pena elencare The Girl Next Door e 21 Days.Insomma,ammetto di essermi limitato alla parte,diciamo pure superficiale dell'album,alla descrizione della band e ad alcune notiziole che non fanno mai male,tuttavia è uno di quei lavori da sentire almeno una volta nella vita,e descrivere gli aspetti più curati lo considero uno sfregio ad un capolavoro,che come tale può destare diverse emozioni e diverse interpretazioni,e a tal proposito non mi voglio dilungare nel parlarvi della tecnica,che per inciso appare comunque ottima per essere uno dei primi lavori, e dello stile;vi basti sapere che se siete appassionati di punk e pop-punk questa perla è da non farsi scappare,per cui correte subito dal vostro negoziante di fiducia per accaparrarvi questo album,poichè non si sa mai...magari la possiede lui la millesima copia rimasta stranamente invenduta!


  14. #59
    Kelvan
    Ospite
    Trick Or Treat - Evil Needs Candy Too
    Power Metal
    2006






    Antonio Conti: Voce
    Luca Gabri: Chitarra
    Guido Benedetti: Chitarra
    Leone Villani Conti: Basso
    Matteo Busi e Simone Bergamini: Batteria (entrambi session man in seguito ad uno split all'ultimo secondo il proprio batterista)


    1) It's Snack Time
    2) Evil Needs Candy Too
    3) Time For Us All
    4) Like Donald Duck
    5) Girls Just Want to Have Fun
    6) Joyfull in Sadness
    7) Sunday Morning in London
    8) Who Will safe the Hero
    9) Back as a Pet
    10)Perfect Life
    11)Back to Life


    "I think my life is a joy
    when you are with me
    my problems are closed outdoow
    but when I am alone
    I make only disaster
    It's true I'm like Donald Duck!"


    Ci siamo, il momento di vedere finalmente alla luce il debutto ufficiale dei Trick or Treat è arrivato. Ok, ma chi sono i Trick or Treat? Si tratta di una power band italiana nata inizialmente come cover band dei capostipiti del genere Helloween ( e ancora oggi fanno diversi show di tributo alle zucche ), successivamente hanno cominciato a scrivere pezzi propri per pubblicare la prima demo ( Like Donald Duck ) che li ha portati a firmare un contratto con la Valery Records per pubblicare il 31 Ottobre 2006 questo "Evil Needs Candy Too". La proposta musicale della band, mi sembra quasi inuntile dirlo, trova le proprie radici negli Helloween delle migliori annate, quelli Helloween capaci di dare vita al Power Metal con i due Keeper of the Seven Keys ( '88-'89 ). E' bene puntualizzare subito che i nostri connazionali non sono una di quelle band qualsiasi che cercano di clonare gli Helloween con il semplice scopo di essere fighi, di vendere qualche disco o di chessò altro; tutt'altro: i Trick or Treat prendono sì le loro basi dagli Helloween, ma la loro proposta è molto personale, specialmente se si considera che si tratta pur sempre di un debutto per tutti i membri dl gruppo.
    Tanto per dare un'idea generale di come suonerà l'album e soprattutto dello spirito con cui è stato scritto il disco e che questo vuole trasmetterci ( ovviamente allegria e divertimento ), arriva l'accoppiata iniziale dell'intro It's Snack Time e della title-track Evil Needs Candy Too, classica canzone power tirata con ritornello memorizzabile ( ma non banale ) perfetta per iniziare in studio, ma soprattutto per futuri concerti. Scia tipicamente power che viene stilisticamente seguita dalla ottima Joyful in Sadness, grande lavoro delle chitarre sia in fase ritmica che solistica e melodie decisamente vincenti; dalla freschissima Who Will Safe the Hero, allegra e dirompente nel suo andare, a confermare se mai ce ne fosse bisogno l'indiscutibile bravura dei veneti nel personalizzare il verbo helloweeniano; dalla lunga conclusiva Back to Life, probabilmente però la canzone meno riuscita del disco che pur mantenendo livelli sempre buoni sembra non stare al passo delle altre; e dalla piccola gemma che porta il nome di Like Donald Duck, scansonata e veloce, con un testo crazy, pur essenso una canzone relativamente semplice non può lasciare indifferente nessuno. Non mancano poi i mid-tempo, rappresentati qui a dovere dalla buonissima Time For Us All e dall'eccellente Back as a Pet, che ci mostra melodie meno allegre ma di grande impatto accompagnate a dovere da un ottimo lavoro dei due chitarristi. Uno dei brani migliori del disco nasce proprio dalla fusione dei due tipi principali di canzoni, si tratta di Perfect Life, nella quale vengono alternate parte lenti ed accelerazioni: ancora una volta a far da padrona la canzone sono i duetti chitarristici, che per quanto semplici possano essere non possono non convincere, e la prova al microfono del singer Antonio Conti. I nostri trovano oviamente il tempo anche per la buona ballad Sunday Morning in London che neanche a dirlo non si può certo collocare nella sezione "ballad depressive", ed una cover di una canzone pop anni '80, ovvero Girls Just Want to Have Fun, riproposta qui in modo abbastanza con fedele, ma con l'aggiunta del proprio modo di fare musica e della propria voglia di farla, e questo ovviamente non può che giovare alla canzone. Il risultato è un disco power che riprende sicuramente temi gia sentiti ma li rende personali e li interpreta a proprio modo, portandoci a sentire quindi 49 minuti di buonissima musica in tutta scioltezza: si può avere solo qualche problema con la finale Back to Life, che nella sua durata abbastanza lunga potrà annoiare qualcuno ma nel complesso si tratta sempre di una buonissima traccia.
    Vorrei spendere le ultime parole sulla produizine del disco, pulita ma senza quel senso fastidioso di eccessiva prefezione che invade la maggior parte delle uscite odierne; e sulla band, qui impeccabile e in perfetta forma. Si vede che è la stessa formazione che ha fatto anni di gavetta nei palchi dei pub a suonare cover: tutti affiatati, duetti perfetti e voce mai fuori posto. Ottima infatti la prova dei chitarristi Luca Gabri e Guido Benedetti, sempre precisi nel loro dovere; e del cantante Antonio Conti, che per fortuna non è solamente il solito fastidiosissimo imitatore di Michael Kiske ma, anzi, con la propriavoce abbastanza nuova nel power da quel pizzico di freschezza in più al gruppo.
    Complimenti ai Trick or Treat, continuate così: vi aspettiamo per un nuovo disco!


  15. #60
    Kelvan
    Ospite
    Symphony X – The Divine Wings Of Tragedy
    Progressive Metal
    1997






    1. Of Sins And Shadows
    2. Sea Of Lies
    3. Out Of The Ashes
    4. The Accolade
    5. Pharaoh
    6. The Eyes Of Medusa
    7. The Witching Hour
    8. The Divine Wings Of Tragedy
    9. Candlelight Fantasia


    La bellezza di un album non è determinata dalla complessità, dal virtuosismo, ma dalla carica dei riff, dalla voce graffiante e dalle melodie e questo, i Symphony X, lo hanno capito. “The Divine Wings Of Tragedy” non è semplicemente definibile come un album appartenente al progressive metal poichè in esso sono presenti una molteplicità di influenze, causate soprattutto dall’amore di Romeo per Malmsteen, Holdsworth e Van Halen. Le influenze power e neoclassiche pervadono tutto l’album, ma soprattutto questo secondo aspetto sale in cattedra in canzoni come “The Witching Hour”. Graffiante al punto giusto, melodico nelle situazioni più adatte e delicato nelle situazioni più complesse: probabilmente si tratta del disco più riuscito dei Symphony X.
    Sweep, tapping, legato, drumming e chi più ne ha più ne metta sono nella situazione giusta…quasi sempre. Sì perché il rischio, nel creare un disco comunque ampio e barocco, è sempre dietro l’angolo ed anche la sinfonia x c’è cascata, raramente, ma c’è cascata: nulla che possa modificare il giudizio finale, ma che può farci rendere conto come la tecnica, se eccessiva, può essere dannosa. E’ inutile analizzare song by song in quanto si rischierebbe di scadere in una semplice lista della spesa, soggettiva oltretutto. Ultimi appunti: eccellente la voce graffiante di Allen nella prima traccia, splendida la melodia di “The Accolade”, ottima anche se prolissa “The Divine Wings Of Tragedy” e coinvolgente l’assolo di Candlelight Fantasia il migliore di Romeo, che guarda caso è anche quello meno virtuoso e più melodico.

    Il mio giudizio non può essere completamente positivo a causa di alcuni momenti prolissi e poco significativi, quasi privi di anima, ma sicuramente si tratta di un CD che può essere amato e odiato, senza mezzi termini. Troppo tecnico e prolisso o incredibile mix di Progressive Metal, Neoclassico e stile? All’ascoltatore l’ardua sentenza, ma una cosa è sicura: una risposta non la troveremo mai.

    Ultima modifica di Kelvan; 4-06-2007 alle 14:58:16

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