Ebbene “L’uomo, sicché esiste, è tormentato”.
Ma qual causa e qual scopo di codesto tormento, che quantunque a fondo memoria si spinga, è presente per una certa parte?
Ben prima di poter tentare una risposta a questo quesito, logica vuole che si definiscano delle basi dalle quali partire, per i concetti cardine della speculazione che verrà.
Innanzi tutto è necessario convenire che l’uomo sia - in altre parole che esista. Di dimostrazione certa e definitiva non se ne può avanzare alcuna, se non una considerazione: che è più razionale credere questo, in quanto come sarebbe possibile prenderlo in esame se fosse altrimenti, ossia se l’uomo non fosse?
Se si pensa ad una cosa questa è, perché nel momento stesso in cui la si pensa essa in qualche modo esiste, indipendentemente dal fatto che prima sia esistita o meno; e dopo essere stata pensata esisterà appunto perché in un dato momento è esistita. Quindi essendo necessario che “tutto ciò che sia stato” sia ancora, allora in definitiva “La realtà è tutto ciò che è”.
Relativamente a questa trattazione, di questo essere non vi è però l’intenzione d’indagarne l’origine - che fosse esistito anche prima di un dato evento, che di solito fa capo alla nascita, o meno - per la motivazione che non è strettamente necessario: è bene attenersi al principio di parsimonia.
Detto quindi che l’uomo qualcosa è, sorge il problema di cosa sia questo qualcosa, di cosa di egli esista.
E’ abitudine di alcuni identificarne il principio - inteso non in senso di “inizio” ma come “elemento fondamentale” - in un ente indipendente dalla realtà, ovvero somma delle dimensioni che costituiscono il cosiddetto mondo sensibile e sondabile: ma siccome per questa tesi l’uomo può esistere a prescindere dalla realtà, allora la realtà non fa parte dell’essere dell’uomo, e potendo ella non-essere allora non esiste. La cui sintesi potrebbe essere esposta nella forma “L’uomo è, in quanto esiste come essere indipendentemente dalla realtà”.
A detta di altri, invece, codesto principio è un ente inscindibile dalla dimensione in cui è calato: perché se l’intera realtà è, risulta illogico pensare che qualche sua parte - l’uomo - possa continuare ad essere quello che è nello stesso tempo in cui l’altra sua parte - il mondo - non è. Sinteticamente “L’uomo è, in quanto esiste come essere dipendentemente dalla realtà”.
Questa seconda ipotesi parrebbe maggiormente valida in luce della considerazione addotta a prova dell’iniziale premessa: ovvero che la realtà è, ed addirittura non sarebbe possibile ragionare sulla realtà se questa non fosse.
Quindi l’uomo più che “esistente”, si dovrebbe pensare come “ivi esistente”, ed in luce di tale osservazione è bene precisare l’affermazione sotto indagine in: “L’uomo, sicché ivi esiste, è tormentato”.
Nella fase successiva è da definire cosa si intende per “tormentato”, cosa sia dunque questo predicato che andrà poi ad attribuirsi al soggetto.
Si può in primo luogo notare che il verbo “tormentare” sia transitivo, cioè che esprima un’azione che da un soggetto passa ad un oggetto del verbo stesso.
In secondo luogo la sua forma pare né attiva né riflessiva ma bensì passiva: quindi se così fosse l’azione passerebbe dall’oggetto al soggetto del verbo. Ma in quanto il tormentare sia, in terzo luogo, più un “dare tormento” che altro, ed avendo questa afflizione egualmente origine e termine all’interno del soggetto stesso, meglio sarebbe affermare che il significato di “è tormentato” sia in questo caso “dà a sé stesso tormento”.
Si potrebbe quindi riformulare l’enunciato iniziale in “L’uomo, sicché ivi esiste, dà a sé stesso tormento”.
Un ulteriore appunto da fare è sul modo e sul tempo del verbo “dà”: il primo è l’Indicativo, modo della realtà e della certezza e dell’obbiettività, mentre il secondo è il Presente Semplice, qui inteso ad esprimere atemporalità e quindi qualità del vero che non dipende dal tempo.
Terzo ed ultimo passo prima di sondare la ragione di questo suo darsi tormento, è il definire cosa appunto questo tormento sia.
Ed ecco quindi che lo si identifica con l’afflizione, col patimento di ogni forma di dolore, con la pena e l’affanno.
Poste le necessarie premesse, è possibile avanzare le domande inizialmente accennate: Qual è la causa di questo tormento? Ed il suo scopo?
Prima di capire donde potrebbe portare - o, sempre che si potesse scegliere, a cosa sarebbe preferibile che esso porti - sembrerebbe meglio capire donde potesse venire: ma non tanto per una scelta arbitraria, quanto per una considerazione di carattere logico.
Infatti se è certo che qualcosa sia stato e quindi in un certo qual modo è ancora e che, di questo, qualcosa risulti preferibile ad altro, allora più proficuamente si potrebbe operare escludendo quello a cui non si vorrebbe il tormento porti - sempre che sia concesso di scegliere. Ma ad ogni modo se quest’ultima cosa non fosse possibile, far partire l’indagine dallo scopo piuttosto che dalla causa non farebbe alcuna differenza, quindi in altre parole anche nell’ipotesi peggiore si rischierebbe di perdere nulla.
Comunque: non esiste sia la mela che l’idea che della mela ci si fa? E non sono tra di loro, in quanto altra cosa l’una dall’altra, diverse? E non si crede, sempre, che le due entità siano invece eguali?
In breve: l’uomo non vede la mela ma vede l’immagine della mela, e così non sente il tuono ma sente il rumore del tuono, e non tocca una tazza ma tocca la sensazione tattile della tazza, e non saggia il miele ma saggia il sapore del miele - così non pensa al bicchiere ma pensa all’idea che del bicchiere si è fatto, e addirittura non arriva a parlare delle cose e nemmeno dei pensieri: ma parla di rumori che dovrebbero figurare dei pensieri, che a loro volta dovrebbero figurare delle cose.
Da queste considerazioni è impossibile non notare come il processo conoscitivo sia quindi in tutto fallibile: e proprio da questo hanno origine i desideri umani.
Che poi la conseguenza di quanto appena esposto sia un’insanabile discrepanza tra realtà e razionalità appare evidente: e quale più ovvia conseguenza - per l’impossibilità di far corrispondere, attraverso l’azione, la realtà all’idea alla quale si vorrebbe aderisse - se non la continua delusione o dolore o tormento che dir si voglia?
Il vestire questo processo con i nomi più originali, quali ingiustizia o altri non dissimili, è cosa comune, ma ciò non ne intacca la vera essenza bensì esclusivamente la maniera in cui si è soliti pensarlo.
Ed avanza quindi spontaneo il dubbio che questa maschera ce la si faccia per rendere meno aspro il gusto del vero: perché se si può abituarsi a dire che “Vivere è vivere ingiustizia”, più difficile è fare lo stesso con “Vivere è vivere dolore”.
Si potrebbe insinuare però, a discapito di questa interpretazione della realtà, che sia possibile sì esistere in un orizzonte di ingiustizia, ma senza però provarne dolore: obiezione valida solo nel caso in cui si annullino tutti i desideri, non esista un sé pensante - in altri termini solo nel caso in cui si sia totalmente altro rispetto all’uomo.
Perché l’uomo, anche se esiste come il resto della realtà, possiede delle caratteristiche tali da non poter essere confondibile con pietre e alberi e fiumi - con gli altri partecipanti al reale.
Tale dolore potrebbe quindi essere comune ad ogni partecipante al reale? O è cosa prettamente umana o, ancora, appartenente solo a una determinata categoria di enti?
Codesta domanda, pur sorgendo spontanea, non porta però ad una risposta che sia indispensabile per il proseguire del discorso, quindi può a ragione essere elusa.
Per finire, si arriva allo scopo di questo tormento: quesito ultimo soprattutto in luce della sua eccezionale complessità di indagine e precarietà di risposta.
Per dare forse una ragione per intervenire sulla realtà al fine di cambiarla, e quindi spronare a darle il contributo che, se la suddetta discrepanza non producesse alcun effetto, probabilmente non si darebbe - vista la dispendiosità dello stesso? Come un modo della realtà di salvaguardare sé stessa dalla stasi - dall’assoluta immobilità madre forse di qualche insondabile catastrofe?
O forse per premiare l’uomo - perché abituandolo a una vita di patimento possa finire col gioire di quella che sembrerebbe essere l’unica vera certezza, tomba di tutti i dolori e quindi in un certo senso fonte di tutti i piaceri, dai più chiamata morte?
O che altro ancora?
Parrebbe questo basti.
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