Essere e Tormento
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Discussione: Essere e Tormento

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  1. #1
    Utente L'avatar di NamelessOne
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    Essere e Tormento

    Ebbene “L’uomo, sicché esiste, è tormentato”.
    Ma qual causa e qual scopo di codesto tormento, che quantunque a fondo memoria si spinga, è presente per una certa parte?

    Ben prima di poter tentare una risposta a questo quesito, logica vuole che si definiscano delle basi dalle quali partire, per i concetti cardine della speculazione che verrà.
    Innanzi tutto è necessario convenire che l’uomo sia - in altre parole che esista. Di dimostrazione certa e definitiva non se ne può avanzare alcuna, se non una considerazione: che è più razionale credere questo, in quanto come sarebbe possibile prenderlo in esame se fosse altrimenti, ossia se l’uomo non fosse?
    Se si pensa ad una cosa questa è, perché nel momento stesso in cui la si pensa essa in qualche modo esiste, indipendentemente dal fatto che prima sia esistita o meno; e dopo essere stata pensata esisterà appunto perché in un dato momento è esistita. Quindi essendo necessario che “tutto ciò che sia stato” sia ancora, allora in definitiva “La realtà è tutto ciò che è”.
    Relativamente a questa trattazione, di questo essere non vi è però l’intenzione d’indagarne l’origine - che fosse esistito anche prima di un dato evento, che di solito fa capo alla nascita, o meno - per la motivazione che non è strettamente necessario: è bene attenersi al principio di parsimonia.
    Detto quindi che l’uomo qualcosa è, sorge il problema di cosa sia questo qualcosa, di cosa di egli esista.
    E’ abitudine di alcuni identificarne il principio - inteso non in senso di “inizio” ma come “elemento fondamentale” - in un ente indipendente dalla realtà, ovvero somma delle dimensioni che costituiscono il cosiddetto mondo sensibile e sondabile: ma siccome per questa tesi l’uomo può esistere a prescindere dalla realtà, allora la realtà non fa parte dell’essere dell’uomo, e potendo ella non-essere allora non esiste. La cui sintesi potrebbe essere esposta nella forma “L’uomo è, in quanto esiste come essere indipendentemente dalla realtà”.
    A detta di altri, invece, codesto principio è un ente inscindibile dalla dimensione in cui è calato: perché se l’intera realtà è, risulta illogico pensare che qualche sua parte - l’uomo - possa continuare ad essere quello che è nello stesso tempo in cui l’altra sua parte - il mondo - non è. Sinteticamente “L’uomo è, in quanto esiste come essere dipendentemente dalla realtà”.
    Questa seconda ipotesi parrebbe maggiormente valida in luce della considerazione addotta a prova dell’iniziale premessa: ovvero che la realtà è, ed addirittura non sarebbe possibile ragionare sulla realtà se questa non fosse.
    Quindi l’uomo più che “esistente”, si dovrebbe pensare come “ivi esistente”, ed in luce di tale osservazione è bene precisare l’affermazione sotto indagine in: “L’uomo, sicché ivi esiste, è tormentato”.
    Nella fase successiva è da definire cosa si intende per “tormentato”, cosa sia dunque questo predicato che andrà poi ad attribuirsi al soggetto.
    Si può in primo luogo notare che il verbo “tormentare” sia transitivo, cioè che esprima un’azione che da un soggetto passa ad un oggetto del verbo stesso.
    In secondo luogo la sua forma pare né attiva né riflessiva ma bensì passiva: quindi se così fosse l’azione passerebbe dall’oggetto al soggetto del verbo. Ma in quanto il tormentare sia, in terzo luogo, più un “dare tormento” che altro, ed avendo questa afflizione egualmente origine e termine all’interno del soggetto stesso, meglio sarebbe affermare che il significato di “è tormentato” sia in questo caso “dà a sé stesso tormento”.
    Si potrebbe quindi riformulare l’enunciato iniziale in “L’uomo, sicché ivi esiste, dà a sé stesso tormento”.
    Un ulteriore appunto da fare è sul modo e sul tempo del verbo “dà”: il primo è l’Indicativo, modo della realtà e della certezza e dell’obbiettività, mentre il secondo è il Presente Semplice, qui inteso ad esprimere atemporalità e quindi qualità del vero che non dipende dal tempo.
    Terzo ed ultimo passo prima di sondare la ragione di questo suo darsi tormento, è il definire cosa appunto questo tormento sia.
    Ed ecco quindi che lo si identifica con l’afflizione, col patimento di ogni forma di dolore, con la pena e l’affanno.

    Poste le necessarie premesse, è possibile avanzare le domande inizialmente accennate: Qual è la causa di questo tormento? Ed il suo scopo?
    Prima di capire donde potrebbe portare - o, sempre che si potesse scegliere, a cosa sarebbe preferibile che esso porti - sembrerebbe meglio capire donde potesse venire: ma non tanto per una scelta arbitraria, quanto per una considerazione di carattere logico.
    Infatti se è certo che qualcosa sia stato e quindi in un certo qual modo è ancora e che, di questo, qualcosa risulti preferibile ad altro, allora più proficuamente si potrebbe operare escludendo quello a cui non si vorrebbe il tormento porti - sempre che sia concesso di scegliere. Ma ad ogni modo se quest’ultima cosa non fosse possibile, far partire l’indagine dallo scopo piuttosto che dalla causa non farebbe alcuna differenza, quindi in altre parole anche nell’ipotesi peggiore si rischierebbe di perdere nulla.
    Comunque: non esiste sia la mela che l’idea che della mela ci si fa? E non sono tra di loro, in quanto altra cosa l’una dall’altra, diverse? E non si crede, sempre, che le due entità siano invece eguali?
    In breve: l’uomo non vede la mela ma vede l’immagine della mela, e così non sente il tuono ma sente il rumore del tuono, e non tocca una tazza ma tocca la sensazione tattile della tazza, e non saggia il miele ma saggia il sapore del miele - così non pensa al bicchiere ma pensa all’idea che del bicchiere si è fatto, e addirittura non arriva a parlare delle cose e nemmeno dei pensieri: ma parla di rumori che dovrebbero figurare dei pensieri, che a loro volta dovrebbero figurare delle cose.
    Da queste considerazioni è impossibile non notare come il processo conoscitivo sia quindi in tutto fallibile: e proprio da questo hanno origine i desideri umani.
    Che poi la conseguenza di quanto appena esposto sia un’insanabile discrepanza tra realtà e razionalità appare evidente: e quale più ovvia conseguenza - per l’impossibilità di far corrispondere, attraverso l’azione, la realtà all’idea alla quale si vorrebbe aderisse - se non la continua delusione o dolore o tormento che dir si voglia?
    Il vestire questo processo con i nomi più originali, quali ingiustizia o altri non dissimili, è cosa comune, ma ciò non ne intacca la vera essenza bensì esclusivamente la maniera in cui si è soliti pensarlo.
    Ed avanza quindi spontaneo il dubbio che questa maschera ce la si faccia per rendere meno aspro il gusto del vero: perché se si può abituarsi a dire che “Vivere è vivere ingiustizia”, più difficile è fare lo stesso con “Vivere è vivere dolore”.
    Si potrebbe insinuare però, a discapito di questa interpretazione della realtà, che sia possibile sì esistere in un orizzonte di ingiustizia, ma senza però provarne dolore: obiezione valida solo nel caso in cui si annullino tutti i desideri, non esista un sé pensante - in altri termini solo nel caso in cui si sia totalmente altro rispetto all’uomo.
    Perché l’uomo, anche se esiste come il resto della realtà, possiede delle caratteristiche tali da non poter essere confondibile con pietre e alberi e fiumi - con gli altri partecipanti al reale.
    Tale dolore potrebbe quindi essere comune ad ogni partecipante al reale? O è cosa prettamente umana o, ancora, appartenente solo a una determinata categoria di enti?
    Codesta domanda, pur sorgendo spontanea, non porta però ad una risposta che sia indispensabile per il proseguire del discorso, quindi può a ragione essere elusa.
    Per finire, si arriva allo scopo di questo tormento: quesito ultimo soprattutto in luce della sua eccezionale complessità di indagine e precarietà di risposta.
    Per dare forse una ragione per intervenire sulla realtà al fine di cambiarla, e quindi spronare a darle il contributo che, se la suddetta discrepanza non producesse alcun effetto, probabilmente non si darebbe - vista la dispendiosità dello stesso? Come un modo della realtà di salvaguardare sé stessa dalla stasi - dall’assoluta immobilità madre forse di qualche insondabile catastrofe?
    O forse per premiare l’uomo - perché abituandolo a una vita di patimento possa finire col gioire di quella che sembrerebbe essere l’unica vera certezza, tomba di tutti i dolori e quindi in un certo senso fonte di tutti i piaceri, dai più chiamata morte?
    O che altro ancora?
    Parrebbe questo basti.

    - - - - - - - - - - - - - -

    Qualsiasi cosa vi venga in mente a riguardo, dai commenti alle critiche sul rigore logico o quant'altro vogliate esprimere, è bene accetta...

  2. #2
    Bannato L'avatar di Gaothaire
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    L'uomo, da quando non è più un animale primitivo, è talmente complesso da tormentarsi, sempre.

  3. #3
    Utente L'avatar di Guo Jia
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    Ehilà Nameless
    Il thread è interessante, seppure molto complicato. Talmente complicato che avrai sicuramente fatto scappare chiunque abbia anche solo tentato di leggere il tuo post... credimi, è una tortura cercare di leggerti. E te lo dice uno che ha la cattiva abitudine di scrivere difficile.
    La prossima volta, sempre che tu voglia avere delle risposte, prova a scrivere in modo più conciso e più leggibile, evitando magari le dissertazioni filosofiche

    Robe come questa sono essenzialmente inutili, appesantiscono solo la discussione fino a renderla letteralmente "faticosa":

    Citazione NamelessOne
    Ben prima di poter tentare una risposta a questo quesito, logica vuole che si definiscano delle basi dalle quali partire, per i concetti cardine della speculazione che verrà.
    Innanzi tutto è necessario convenire che l’uomo sia - in altre parole che esista. Di dimostrazione certa e definitiva non se ne può avanzare alcuna, se non una considerazione: che è più razionale credere questo, in quanto come sarebbe possibile prenderlo in esame se fosse altrimenti, ossia se l’uomo non fosse?
    Se si pensa ad una cosa questa è, perché nel momento stesso in cui la si pensa essa in qualche modo esiste, indipendentemente dal fatto che prima sia esistita o meno; e dopo essere stata pensata esisterà appunto perché in un dato momento è esistita. Quindi essendo necessario che “tutto ciò che sia stato” sia ancora, allora in definitiva “La realtà è tutto ciò che è”.
    Relativamente a questa trattazione, di questo essere non vi è però l’intenzione d’indagarne l’origine - che fosse esistito anche prima di un dato evento, che di solito fa capo alla nascita, o meno - per la motivazione che non è strettamente necessario: è bene attenersi al principio di parsimonia.
    Detto quindi che l’uomo qualcosa è, sorge il problema di cosa sia questo qualcosa, di cosa di egli esista.
    E’ abitudine di alcuni identificarne il principio - inteso non in senso di “inizio” ma come “elemento fondamentale” - in un ente indipendente dalla realtà, ovvero somma delle dimensioni che costituiscono il cosiddetto mondo sensibile e sondabile: ma siccome per questa tesi l’uomo può esistere a prescindere dalla realtà, allora la realtà non fa parte dell’essere dell’uomo, e potendo ella non-essere allora non esiste. La cui sintesi potrebbe essere esposta nella forma “L’uomo è, in quanto esiste come essere indipendentemente dalla realtà”.
    A detta di altri, invece, codesto principio è un ente inscindibile dalla dimensione in cui è calato: perché se l’intera realtà è, risulta illogico pensare che qualche sua parte - l’uomo - possa continuare ad essere quello che è nello stesso tempo in cui l’altra sua parte - il mondo - non è. Sinteticamente “L’uomo è, in quanto esiste come essere dipendentemente dalla realtà”.
    Questa seconda ipotesi parrebbe maggiormente valida in luce della considerazione addotta a prova dell’iniziale premessa: ovvero che la realtà è, ed addirittura non sarebbe possibile ragionare sulla realtà se questa non fosse.
    Quindi l’uomo più che “esistente”, si dovrebbe pensare come “ivi esistente”, ed in luce di tale osservazione è bene precisare l’affermazione sotto indagine in: “L’uomo, sicché ivi esiste, è tormentato”.
    Nella fase successiva è da definire cosa si intende per “tormentato”, cosa sia dunque questo predicato che andrà poi ad attribuirsi al soggetto.
    Si può in primo luogo notare che il verbo “tormentare” sia transitivo, cioè che esprima un’azione che da un soggetto passa ad un oggetto del verbo stesso.
    In secondo luogo la sua forma pare né attiva né riflessiva ma bensì passiva: quindi se così fosse l’azione passerebbe dall’oggetto al soggetto del verbo. Ma in quanto il tormentare sia, in terzo luogo, più un “dare tormento” che altro, ed avendo questa afflizione egualmente origine e termine all’interno del soggetto stesso, meglio sarebbe affermare che il significato di “è tormentato” sia in questo caso “dà a sé stesso tormento”.
    Si potrebbe quindi riformulare l’enunciato iniziale in “L’uomo, sicché ivi esiste, dà a sé stesso tormento”.
    Un ulteriore appunto da fare è sul modo e sul tempo del verbo “dà”: il primo è l’Indicativo, modo della realtà e della certezza e dell’obbiettività, mentre il secondo è il Presente Semplice, qui inteso ad esprimere atemporalità e quindi qualità del vero che non dipende dal tempo.
    Terzo ed ultimo passo prima di sondare la ragione di questo suo darsi tormento, è il definire cosa appunto questo tormento sia.
    Ed ecco quindi che lo si identifica con l’afflizione, col patimento di ogni forma di dolore, con la pena e l’affanno.
    Tutto questo per dire "l'uomo si dà tormento".
    Oddio... ci sarebbe da discutere sulla questione dell'uomo che esiste indipendentemente o meno dalla realtà di cui fa parte, ma non è questo il punto della discussione. E poi, ammetto di essere allergico alla filosofia pura.


    Comunque: non esiste sia la mela che l’idea che della mela ci si fa? E non sono tra di loro, in quanto altra cosa l’una dall’altra, diverse? E non si crede, sempre, che le due entità siano invece eguali?
    In breve: l’uomo non vede la mela ma vede l’immagine della mela, e così non sente il tuono ma sente il rumore del tuono, e non tocca una tazza ma tocca la sensazione tattile della tazza, e non saggia il miele ma saggia il sapore del miele - così non pensa al bicchiere ma pensa all’idea che del bicchiere si è fatto, e addirittura non arriva a parlare delle cose e nemmeno dei pensieri: ma parla di rumori che dovrebbero figurare dei pensieri, che a loro volta dovrebbero figurare delle cose.
    Da queste considerazioni è impossibile non notare come il processo conoscitivo sia quindi in tutto fallibile: e proprio da questo hanno origine i desideri umani.
    Questo passaggio non mi è del tutto chiaro, a dire la verità... potresti spiegarti meglio?

    Che poi la conseguenza di quanto appena esposto sia un’insanabile discrepanza tra realtà e razionalità appare evidente: e quale più ovvia conseguenza - per l’impossibilità di far corrispondere, attraverso l’azione, la realtà all’idea alla quale si vorrebbe aderisse - se non la continua delusione o dolore o tormento che dir si voglia?
    L'uomo non è in grado di conoscere realmente la realtà che lo circonda; egli può solamente interpretarla in modo personale. Ognuno di noi vede la realtà in modo diverso.
    Quando cerchiamo di conoscere un oggetto, un odore, una sensazione, una persona, non facciamo altro che interpretare, in base alle informazioni che possediamo. Su questo punto sono d'accordo con te, dunque.

    D'altronde, che mezzi abbiamo per acquisire la conoscenza della realtà? I nostri sensi e il nostro pensiero.
    Ma, se è molto difficile conoscere un oggetto inanimato o una persona distante, la faccenda cambia quando abbiamo a che fare con un altra persona che desidera conoscerci così come noi vogliamo conoscere lei.
    Due persone hanno la possibilità di comunicare tra loro anche attraverso il pensiero... pensiero che viene trasmesso attraverso le parole.
    Il linguaggio non è uno strumento perfetto per trasmettere il nostro pensiero, è imperfetto e incompleto. Certe cose non si possono dire, non si possono esprimere pienamente.
    Tuttavia, quando due persone tentano di *conoscersi* realmente, possono riuscire (raramente succede) a condividere ciascuno il proprio punto di vista. Un doppio punto di vista, più completo. In parole povere, i due punti di vista si completano a vicenda, ognuno compensa le mancanze e le distorsioni dell'altro. A volte succede di riuscire a comprendere l'interiorità di un'altra persona, fino in fondo: empatia.
    Che cos'è l'empatia? L'empatia è l'unico mezzo che abbiamo per avvicinarci alla comprensione della realtà di un'altra persona. Un piccolo frammento di realtà, ma più che sufficiente. Qui non si tratta di interpretazione, bensì di comprensione profonda.

    Questa piccola eccezione, comunque, ha poco a che vedere con il discorso del tormento. Ma ormai l'ho scritta, pazienza.

    Tornando al tormento (planescape? ), direi che può avere origine da tante fonti diverse. L'insanabile baratro che separa realtà e interpretazione è una di esse, ma ce ne sono molte altre.
    I sogni, ad esempio. Costruiamo dei sogni, immaginiamo una realtà più bella, nella quale noi saremmo felice, nella quale i nostri desideri più irraggiungibili sarebbero esauditi.
    Questi sogni non c'entrano una mazza con l'interpretazione della realtà: in questo caso non stiamo interpretando la realtà che percepiamo, ne stiamo creando una nuova e migliore.
    Quando questi sogni si rivelano irraggiungibili, ne soffriamo. Credo sia questa la causa principale del "tormento" dell'uomo, a cui segue la rassegnazione, l'arrendersi di fronte alla vita.

    Sognare amore, sognare di avere successo, sognare di essere apprezzati ed elogiati come contrappasso a fronte delle tante ingiustizie, sognare di essere migliori, sognare che tutto sia perfetto. Realizzare i propri sogni (o perlomeno saperli gestire, saperli vivere serenamente) significa vivere bene, stare bene. Nel momento in cui veniamo travolti dai nostri sogni e dalle conseguenti delusioni, cominciamo a tormentarci, a perdere la speranza, a morire dentro. Può trattarsi di una morte reversibile... ma non sempre. Dipende da quanto siamo stati feriti. Se abbiamo perso troppo sangue e non abbiamo fatto nulla per arrestare l'emorragia, potremmo perdere ogni possibilità di sopravvivere a noi stessi.

    In effetti, siamo noi stessi la causa del nostro tormento. E' difficile gestire i propri sogni e le proprie aspettative. Cerchiamo il dolore e l'ingiustizia dentro di noi, involontariamente, per abitudine, e ci facciamo del male... a volte arriviamo a marcire dentro a causa di questo dolore, proviamo invidia e coviamo risentimento nei confronti degli altri.
    L'ideale sarebbe... vivere. Vivere senza pensare, vivere nel modo più pieno possibile, recepire ed assimilare tutto il possibile e apprezzare ciò che riusciamo a trovare sulla nostra strada. Vivere significa seguire il "sentiero di mezzo" tra amore e libertà, come scrisse a suo tempo De Crescenzo.
    E invece, abbiamo il vizio di sovrapensare, pensare troppo, rimuginare. Rosicchiamo i nostri sogni mancati, le nostre delusioni, le nostre aspettative mai realizzate, e ci tormentiamo inutilmente. Perdiamo la capacità di vivere e ci riduciamo alla condizione di dannati.

    E'impossibile evitare la sofferenza, a volte è necessario subirla. Rifiutare la sofferenza in toto è altrettanto errato, significa limitare la nostra capacità di vivere. Dovremmo semplicemente trovare il giusto equilibrio, vivere senza fuggire e senza perdere il contatto con la realtà, evitando di costruire il nostro dolore attraverso il pensiero.
    Il pensiero a volte è velenoso... se ce lo somministriamo in dosi eccessive finiamo con l'intossicarci.
    Si potrebbe insinuare però, a discapito di questa interpretazione della realtà, che sia possibile sì esistere in un orizzonte di ingiustizia, ma senza però provarne dolore: obiezione valida solo nel caso in cui si annullino tutti i desideri, non esista un sé pensante - in altri termini solo nel caso in cui si sia totalmente altro rispetto all’uomo.
    Ecco, questa è filosofia. E la filosofia tende a spiccare il volo, perdendo il contatto con la realtà.
    Ogni uomo è diverso. Un uomo può benissimo credere che il mondo sia ingiusto, e allo stesso tempo essere piuttosto felice. E'sufficiente sapersi accontentare, saper vivere la vita.
    Il dolore nasce dentro di noi, spesso, perchè siamo noi a costruirlo, a farlo crescere, a dargli spazio. E tutto questo non è necessario, di solito (non sempre, sia chiaro... ma di solito è così).

    Per finire, si arriva allo scopo di questo tormento: quesito ultimo soprattutto in luce della sua eccezionale complessità di indagine e precarietà di risposta.
    Per dare forse una ragione per intervenire sulla realtà al fine di cambiarla, e quindi spronare a darle il contributo che, se la suddetta discrepanza non producesse alcun effetto, probabilmente non si darebbe - vista la dispendiosità dello stesso? Come un modo della realtà di salvaguardare sé stessa dalla stasi - dall’assoluta immobilità madre forse di qualche insondabile catastrofe?
    O forse per premiare l’uomo - perché abituandolo a una vita di patimento possa finire col gioire di quella che sembrerebbe essere l’unica vera certezza, tomba di tutti i dolori e quindi in un certo senso fonte di tutti i piaceri, dai più chiamata morte?
    Non mi azzardo a dire che il tormento non ha uno scopo. Ma a volte è proprio così. A volte godiamo della nostra stessa sofferenza, troviamo godimento nel nostro dolore.

    Però, a volte il tormento ci serve. Per vivere, per capire, per necessità, o semplicemente perchè è giusto così.
    Se una persona che amiamo sta male, o se perdiamo un nostro caro, è più che giusto soffrire... fa parte della vita. Il guaio avviene quando ci lasciamo andare, quando il dolore diventa più forte di noi e ci rinchiude in una gabbia dalla quale non possiamo più uscire, abbiamo perso la chiave strada facendo.

    Beh, io ci ho provato a risponderti. Ho perso il filone filosofico sul quale avevi impostato la discussione, ma non ho potuto farne a meno ^^
    Ultima modifica di Guo Jia; 20-08-2005 alle 14:49:13
    "Quanti gioielli dormono sepolti nell'oblio e nelle tenebre, lontano dalle zappe e dalle sonde; quanti fiori effondono il profumo, dolce come un segreto, con rimpianto, nelle solitudini profonde." - Charles Baudelaire

    "Bonaire preferisce concentrarsi sull'ondeggiare delle onde piuttosto che su quello delle mie tette." - The legend of Alundra

    http://www.youtube.com/user/heita3 - ecco un genio.

  4. #4
    Utente L'avatar di NamelessOne
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    Ben trovato Guo


    Citazione Guo Jia
    Questo passaggio non mi è del tutto chiaro, a dire la verità... potresti spiegarti meglio?
    Penso di aver sbagliato, seppur di poco - della serie "come un dettaglio può minare un intero discorso". Mi spiego:
    La frase alla quale fai riferimento e che hai riportato è scritta come: "Da queste considerazioni è impossibile non notare come il processo conoscitivo sia quindi in tutto fallibile: e proprio DA QUESTO hanno origine i desideri umani".
    Mentre io in realtà avrei dovuto, ed in verità anche voluto, scrivere: "Da queste considerazioni è impossibile non notare come il processo conoscitivo sia quindi in tutto fallibile: e proprio DALLA CONOSCENZA CHE NE RISULTA, hanno origine i desideri umani"

    Perchè come potremmo desiderare qualcosa se non sapessimo di non possederla?
    Non sono i desideri o, come hai accennato poi anche tu, i sogni, delle cose che "vorremmo che fossero", appunto perchè "non sono"?
    Il resto del discorso va a finire come hai poi anche tu dedotto: ché siccome "L'uomo non è in grado di conoscere realmente la realtà che lo circonda", non riesce a capire non solo cosa già possiede e non possiede, ma addirittura ciò che è e ciò che non è. Risultato? "Insanabile baratro che separa realtà e interpretazione", che porta a "sogni che non c'entrano una mazza con l'interpretazione della realtà: in questo caso non stiamo interpretando la realtà che percepiamo, ne stiamo creando una nuova e migliore". Il che provoca tormento, dolore.


    Citazione Guo Jia
    Ecco, questa è filosofia. E la filosofia tende a spiccare il volo, perdendo il contatto con la realtà.
    Ogni uomo è diverso. Un uomo può benissimo credere che il mondo sia ingiusto, e allo stesso tempo essere piuttosto felice. E'sufficiente sapersi accontentare, saper vivere la vita.
    Il dolore nasce dentro di noi, spesso, perchè siamo noi a costruirlo, a farlo crescere, a dargli spazio. E tutto questo non è necessario, di solito (non sempre, sia chiaro... ma di solito è così).
    La filosofia credo che necessariamente tenda a perdere il contatto con la realtà, e te ne dirò il perché: se appunto consideri valida la teoria che il "mondo dei pensieri" sia altra cosa rispetto al "mondo delle cose" a dispetto di tutti gli sforzi che si possano compiere per farli conincidere, allora vedrai come sia inevitabile che quando si vive molto nel primo, si vive poco nel secondo, e viceversa.

    Poi che il dolore non sia necessario - secondo i nostri attuali criteri di necessità -, questo non implica per forza che sia anche possibile eliminarlo.
    Come tu ben dici, è possibile però vivere senza dolore, ed in un caso davvero singolare - che tu hai già esposto, forse però non conoscendone fino in fondo le implicazioni.
    E il caso è il seguente: nel momento in cui oltre a non essere coscienti della discrepanza tra realtà e razionalità, non si sia nemmeno coscienti o di quello che si ha o di quello che si desidera. Perchè solo non conoscendo la realtà potremmo farla coincidere con i nostri desideri, e solo non conoscendo i nostri desideri potremmo farli coincidere con la realtà - è impossibile che i due siano perfettamente uguali, perchè altrimenti sarebbero la stessa cosa e noi saremmo una qualche sorta di divinità, se rileggessimo questa eguaglianza in chiave mistica -. Comunque il risultato è, sia per il non conoscere la realtà sia per il non conoscere i desideri, l'essersi accontentati, il ritenersi già soddisfatti, l'illudersi che davvero desideri e realtà oltre a poter coincidere, addirittura coincidano.

    Questo caso effettivamente non l'avevo pensato prima del tuo post, ed avevo appunto considerato solo l'altro caso, l'unica alternativa possibile: che o l'uomo non pensi e quindi non esista il "mondo dei pensieri", o che non esista il "mondo delle cose" quindi sussita tra i due un rapporto di mutua esclusione.


    Citazione Guo Jia
    Non mi azzardo a dire che il tormento non ha uno scopo. Ma a volte è proprio così. A volte godiamo della nostra stessa sofferenza, troviamo godimento nel nostro dolore.
    Però, a volte il tormento ci serve. Per vivere, per capire, per necessità, o semplicemente perchè è giusto così.
    Se una persona che amiamo sta male, o se perdiamo un nostro caro, è più che giusto soffrire... fa parte della vita. Il guaio avviene quando ci lasciamo andare, quando il dolore diventa più forte di noi e ci rinchiude in una gabbia dalla quale non possiamo più uscire, abbiamo perso la chiave strada facendo.
    Ma perchè a volte proveremmo piacere nella sofferenza? Non forse perchè - se il dolore porta alla morte - sperando che la morte ponga fine a tutto, ponga quindi anche fine alla sofferenza stessa?
    Non potrebbe essere il dolore un qualcosa che ci spinga a desiderare, altro magari, altro che non provochi dolore?
    Se così fosse, a prima vista il cerchio quadrerebbe: nasco, penso, mi accorgo di quello che ho e quello che non ho, soffro, siccome non potrò mai avere quello che desidero, allora continuerò a soffrire per tutta la vita; e così dev'essere per far sì che la morte acquisti un senso: ed il senso potrebbe essere "diversità dalla vita". Del tipo "ora che CONOSCI cos'è il dolore [vivere], puoi CONOSCERE anche cos'è il piacere [morire]"; e dicendo questo mi rifaccio alla teoria che "la vera conoscenza è la conoscenza dei contrari".
    Che mi dici a riguardo? Puoi ritenerti d'accordo o trovi che il ragionamento sia fallace?


    Citazione Guo Jia
    tormento (planescape? )
    Ti assicurso che è una coincidenza occorsa in maniera non voluta. Anche se, ora che me l'hai fatta notare, non posso che sorriderne


    Citazione Guo Jia
    Il thread è interessante, seppure molto complicato. Talmente complicato che avrai sicuramente fatto scappare chiunque abbia anche solo tentato di leggere il tuo post... credimi, è una tortura cercare di leggerti. E te lo dice uno che ha la cattiva abitudine di scrivere difficile.
    La prossima volta, sempre che tu voglia avere delle risposte, prova a scrivere in modo più conciso e più leggibile, evitando magari le dissertazioni filosofiche
    Ebbene, se non ho alcun dubbio sul fatto che io non scriva facile, per quel che riguarda la "tortura di leggermi", più che cosa universale credo sia particolare: peculiare della tua persona intendo, ed in luce dell'affermazione: "ammetto di essere allergico alla filosofia pura".

    Però accetto volentiri il tuo consiglio riguardo la coincisione e la "leggibilità" in senso lato. Sono miei difetti più che evidenti. Anche se l'evitare dissertazioni filosofiche non credo sia sempre possibile: e soprattutto quand'è mia volontà scriverne, ché è inevitabile che io allora li scriva - come in questo caso


    Citazione Guo Jia
    Robe come questa sono essenzialmente inutili [...]
    Lo scrivere ha una duplice utilità: e non perchè una di queste - il piacere del fruitore - viene a mancare, allora anche l'altra - il piacere del creatore - decade a sua volta; al più si ridimensiona: o almeno questo è quello che succede a me.
    Quindi potrei quasi afferamare che "siccome il tuo piacere è diminuito, allora è diminuito anche il mio". Ma non è mia intenzione farlo perchè, facci caso, così detto sembre si riferisca più a un rapporto sessuale che ad altro

  5. #5
    Bannato L'avatar di Artemesys
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    Cartesio, se non erro (non ho letto tutto). Per l'equazione "Essere = Tormento" calza a pennello il pensiero del Leopardi, sia filosofo che poeta.

  6. #6
    Utente L'avatar di Guo Jia
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    Citazione NamelessOne
    Penso di aver sbagliato, seppur di poco - della serie "come un dettaglio può minare un intero discorso". Mi spiego:
    La frase alla quale fai riferimento e che hai riportato è scritta come: "Da queste considerazioni è impossibile non notare come il processo conoscitivo sia quindi in tutto fallibile: e proprio DA QUESTO hanno origine i desideri umani".
    Mentre io in realtà avrei dovuto, ed in verità anche voluto, scrivere: "Da queste considerazioni è impossibile non notare come il processo conoscitivo sia quindi in tutto fallibile: e proprio DALLA CONOSCENZA CHE NE RISULTA, hanno origine i desideri umani"

    Perchè come potremmo desiderare qualcosa se non sapessimo di non possederla?
    Non sono i desideri o, come hai accennato poi anche tu, i sogni, delle cose che "vorremmo che fossero", appunto perchè "non sono"?
    Il resto del discorso va a finire come hai poi anche tu dedotto: ché siccome "L'uomo non è in grado di conoscere realmente la realtà che lo circonda", non riesce a capire non solo cosa già possiede e non possiede, ma addirittura ciò che è e ciò che non è. Risultato? "Insanabile baratro che separa realtà e interpretazione", che porta a "sogni che non c'entrano una mazza con l'interpretazione della realtà: in questo caso non stiamo interpretando la realtà che percepiamo, ne stiamo creando una nuova e migliore". Il che provoca tormento, dolore.
    Quando interpretiamo la realtà e scopriamo di non poterla capire fino in fondo, allora possiamo trovare sì una causa di tormento.
    Ma quando arriviamo ai sogni, allora il discorso non vale più, o almeno non completamente.

    I sogni ci fanno male nel momento in cui non riusciamo più a credere in essi, nel momento in cui diventano irraggiungibili e non riusciamo più a gestirli. Allora nasce la frustrazione e il tormento.
    Ma tale tormento non nasce dalla limitatezza di nostri sensi, che ci impedisce di conoscere la realtà, non nasce dalla "limitatezza del processo conoscitivo". Da dove nasce dunque? Non nasce dai sensi, dai nostri limiti umani, bensì da ciò che in noi è illimitato: la capacità di andare infinitamente oltre la realtà, attraverso il pensiero.

    Mi spiego: immaginiamo di sognare, sognare una bella ragazza, la nostra ragazza ideale, perfetta per noi, la donna che abbiamo sempre sognato (ogni riferimento a persone, cose o oggetti è puramente intenzionale). La sogniamo, la vediamo nella nostra mente, ma sappiamo che non esiste... dobbiamo cercare la persona che, nella realtà, si avvicina di più al nostro sogno. E'questo che desideriamo.
    Cerchiamo per tutta una vita, e la sfortuna vuole che non riusciamo a trovare proprio niente, niente di anche solo lontanamente, vagamente simile a ciò che ci siamo immaginati. E soffriamo. Perchè soffriamo?
    Soffriamo perchè non riusciamo a interpretare la realtà? No, non è questa la causa. Il sogno, lo sappiamo, nasce dentro di noi, e quando nasce sappiamo bene che non è reale.
    Soffriamo per un altro motivo: il tormento è causato dal fatto che noi abbiamo voluto vivere per un sogno. Abbiamo volato troppo in alto, siamo volati troppo oltre i confini della realtà e abbiamo scoperto che i nostri sogni sono solo sogni, immaginazione non applicabile alla realtà.
    In parole povere: non soffriamo perchè siamo limitati e ci rendiamo conto di esserlo, ma per il motivo opposto (!): per il fatto che siamo stati troppo poco limitati, e non ce ne siamo resi conto. Abbiamo immaginato oltre i limiti, e abbiamo dato alla nostra immaginazione troppo potere. Da questo nasce il dolore.

    Ma i sogni irraggiungibili, di per sè, non sono pericolosi. Lo diventano nel momento in cui perdiamo il controllo di essi... quando, in definitiva, perdiamo fiducia nella realtà al punto di sostituirla parzialmente con i sogni stessi.
    Per vivere bene, è necessario che i nostri sogni ci sostengano come un faro che fa da guida ai naviganti. Non importa se il faro non lo raggiungiamo, non importa la distanza, l'importante è vedere la luce... ma se l'unico obiettivo della nostra vita diventa quella luce, e scopriamo infine di aver costruito il nostro faro dall'altra parte dell'oceano, allora sarà difficile che la nostra barchetta possa raggiungerlo.
    Ci condanniamo a soffrire, proviamo dolore perchè abbiamo perso il contatto con la vita, abbiamo voluto vivere solo di sogni.

    Non credo di essere stato chiaro... rileggendo ciò che ho scritto non mi sento soddisfatto. Ho scritto qualcosa che non coincide pienamente con il mio punto di vista... ma non capisco cosa o_O
    Vabbè, ora sono troppo stanco per queste cose


    Poi che il dolore non sia necessario - secondo i nostri attuali criteri di necessità -, questo non implica per forza che sia anche possibile eliminarlo.
    Come tu ben dici, è possibile però vivere senza dolore, ed in un caso davvero singolare - che tu hai già esposto, forse però non conoscendone fino in fondo le implicazioni.
    E il caso è il seguente: nel momento in cui oltre a non essere coscienti della discrepanza tra realtà e razionalità, non si sia nemmeno coscienti o di quello che si ha o di quello che si desidera. Perchè solo non conoscendo la realtà potremmo farla coincidere con i nostri desideri, e solo non conoscendo i nostri desideri potremmo farli coincidere con la realtà - è impossibile che i due siano perfettamente uguali, perchè altrimenti sarebbero la stessa cosa e noi saremmo una qualche sorta di divinità, se rileggessimo questa eguaglianza in chiave mistica -. Comunque il risultato è, sia per il non conoscere la realtà sia per il non conoscere i desideri, l'essersi accontentati, il ritenersi già soddisfatti, l'illudersi che davvero desideri e realtà oltre a poter coincidere, addirittura coincidano.
    Uhm... non era proprio questa la mia idea ^^
    Forse mi sono spiegato male: con "Vivere senza pensare, vivere nel modo più pieno possibile, recepire ed assimilare tutto il possibile e apprezzare ciò che riusciamo a trovare sulla nostra strada", mi riferivo ad uno stile di vita attraverso il quale riusciamo a cogliere tutta la felicità possibile dalla vita, dai sogni e dalla realtà.
    Ma ciò non significa non essere a conoscenza della discrepanza tra realtà ed interpretazione, significa semplicemente accettare la realtà per come la sentiamo, e viverla. Viverla senza che essa possa farci del male. La accettiamo per quello che riusciamo ad assimilare di essa.
    In secondo luogo, la mia idea di "vivere" non significa mancanza di sogni, non significa che manchi la conoscenza dei propri desideri: significa, più che altro, vivere i sogni con serenità, come nel caso del faro di cui ho parlato poco più in alto. Vivere i sogni in modo sano, senza sovrapensare, senza andare oltre il confine tra sogno positivo e sogno "pericoloso".

    Tutto ciò non significa ignorare la realtà, ignorare la sofferenza, nè tantomeno significa essere troppo stupidi per capire il vero significato di "male di vivere", la realtà o i propri bisogni.
    Significa ben altro: significa essere abbastanza forti e sereni da percorrere la nostra vita senza creare delle curve laddove la via è dritta e senza ostacoli.
    Significa affrontare gli ostacoli con la consapevolezza che fanno parte della vita, e superarli fiduciosi. Avere fiducia nel fatto che, una volta superato il problema, la nostra strada ritorna dritta e senza ostacoli, piacevole da percorrere se solo sappiamo apprezzarla.
    Significa vivere anche quando dobbiamo soffrire, perchè anche la sofferenza è vita. La vera morte sta nell'apatia, nella delusione, nell'incapacità di gestire i propri sogni.

    E' possibile questo? Io credo di si. Chi ci riesce ha imparato a vivere davvero.

    Ma perchè a volte proveremmo piacere nella sofferenza? Non forse perchè - se il dolore porta alla morte - sperando che la morte ponga fine a tutto, ponga quindi anche fine alla sofferenza stessa?
    Non potrebbe essere il dolore un qualcosa che ci spinga a desiderare, altro magari, altro che non provochi dolore?
    Se così fosse, a prima vista il cerchio quadrerebbe: nasco, penso, mi accorgo di quello che ho e quello che non ho, soffro, siccome non potrò mai avere quello che desidero, allora continuerò a soffrire per tutta la vita; e così dev'essere per far sì che la morte acquisti un senso: ed il senso potrebbe essere "diversità dalla vita". Del tipo "ora che CONOSCI cos'è il dolore [vivere], puoi CONOSCERE anche cos'è il piacere [morire]"; e dicendo questo mi rifaccio alla teoria che "la vera conoscenza è la conoscenza dei contrari".
    Che mi dici a riguardo? Puoi ritenerti d'accordo o trovi che il ragionamento sia fallace?
    Da un punto di vista filosofico, nulla da eccepire.
    Però, per quanto mi riguarda, preferisco pensare a qualcosa di più semplice, un punto di vista che è praticamente opposto al tuo su questo punto: godiamo della nostra sofferenza e proviamo piacere nel dolore solo nel momento in cui soffrire è l'unico modo che abbiamo per vivere, per sentirci vivi. Quando non ci resta nient'altro, o quando non abbiamo altra scelta: o soffriamo o non viviamo.

    Non provare nulla significa avvicinarsi alla condizione di chi è morto e non può più provare nulla (perlomeno non in questa realtà), e noi rifiutiamo per istinto un simile comportamento.

    Lo scrivere ha una duplice utilità: e non perchè una di queste - il piacere del fruitore - viene a mancare, allora anche l'altra - il piacere del creatore - decade a sua volta; al più si ridimensiona: o almeno questo è quello che succede a me.
    Quindi potrei quasi afferamare che "siccome il tuo piacere è diminuito, allora è diminuito anche il mio". Ma non è mia intenzione farlo perchè, facci caso, così detto sembre si riferisca più a un rapporto sessuale che ad altro
    Dì la verità, scrivere post lunghissimi ti piace, ti dà piacere. E nel momento in cui clicchi sul pulsante "invia risposta", raggiungi il picco massimo del piacere sessuale.
    O mi sbaglio?
    "Quanti gioielli dormono sepolti nell'oblio e nelle tenebre, lontano dalle zappe e dalle sonde; quanti fiori effondono il profumo, dolce come un segreto, con rimpianto, nelle solitudini profonde." - Charles Baudelaire

    "Bonaire preferisce concentrarsi sull'ondeggiare delle onde piuttosto che su quello delle mie tette." - The legend of Alundra

    http://www.youtube.com/user/heita3 - ecco un genio.

  7. #7
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    Esistere significa anche possedere l' "istinto" del: potrei non esserlo... fine della storia.

  8. #8
    Daimadoshi L'avatar di matoriv
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    Citazione NamelessOne
    Quindi l’uomo più che “esistente”, si dovrebbe pensare come “ivi esistente”, ed in luce di tale osservazione è bene precisare l’affermazione sotto indagine in: “L’uomo, sicché ivi esiste, è tormentato”.
    è una sorta di dimostrazione per assurdo? voglio dire, se quello che intendevi è "accettiamo per assurdo (in quanto preso per veritiero) la frase - L’uomo, sicché esiste, è tormentato - e traiamo le conclusioni..."
    allora, se così è, e quindi ho caito bene, la frase da tè sopra citata prende significato (ai miei poveri occhi che hanno faticato a seguirti...)


    e tutto grazie ad una attenta analisi del verbo "tormentare", ( solo questa poteva essere ragione di un topic a sè)

    Nella fase successiva è da definire cosa si intende per “tormentato”, cosa sia dunque questo predicato che andrà poi ad attribuirsi al soggetto.
    Si può in primo luogo notare che il verbo “tormentare” sia transitivo, cioè che esprima un’azione che da un soggetto passa ad un oggetto del verbo stesso.
    In secondo luogo la sua forma pare né attiva né riflessiva ma bensì passiva: quindi se così fosse l’azione passerebbe dall’oggetto al soggetto del verbo. Ma in quanto il tormentare sia, in terzo luogo, più un “dare tormento” che altro, ed avendo questa afflizione egualmente origine e termine all’interno del soggetto stesso, meglio sarebbe affermare che il significato di “è tormentato” sia in questo caso “dà a sé stesso tormento”.
    e dando, anche in questo caso per ipotesi (correggimi se sbaglio, ho bisogno del tuo aiuto per capire e per poi rispondere secondo il mio parere) e che quindi ben due ipotesi sono state formulate per raggiungere questo risultato?


    Poste le necessarie premesse, è possibile avanzare le domande inizialmente accennate: Qual è la causa di questo tormento? Ed il suo scopo?
    Prima di capire donde potrebbe portare - o, sempre che si potesse scegliere, a cosa sarebbe preferibile che esso porti
    ancora prima di avere chiari alcuni dei tuoi concetti di base, esprimo un mio primo parere (spero non fuori luogo) credo di intendere il "tormento " stesso come un bisogno, continuo, come ogni bisogno necessita di un "bene" per essere soddisfatto e prota ad una soddisfazione. la soddisfazione si concretizza nel "non essere tormentati" punto e basta...

    sempre a mio avviso però, non essere tormentati, porta alla felicità, o a quello che l'uomo pensi che sia la felicità, come status perenne, cosa in cui io non credo, esistono forse emozioni in grado di farci dimenticre di non essere felici, ma arrivare allo status di felicità PERENNE, è impossibile

    credo anche a questa conseguenza logica ora

    non avere tormento ALLORA (per chi conosce il simbolo |= ) essere felici

    non credo si possa essere felici, e quindi, ora, grazie a tè, mi dò una risposta concreta, e affermo dalla conseguenza logica che non si possa "non avere tormento"

    aiutami in questo passaggio...qual'è dunque il bene che soddisfa il bisogno "non avere tormento" io ho affermato l'impossibilità di soddisfarlo ma...

    non ho affermato che non esista "bene " in grado di soddisfarlo, potremmo non essere in grado di ottenerlo?


    - sembrerebbe meglio capire donde potesse venire: ma non tanto per una scelta arbitraria, quanto per una considerazione di carattere logico.
    Infatti se è certo che qualcosa sia stato e quindi in un certo qual modo è ancora e che, di questo, qualcosa risulti preferibile ad altro, allora più proficuamente si potrebbe operare escludendo quello a cui non si vorrebbe il tormento porti - sempre che sia concesso di scegliere. Ma ad ogni modo se quest’ultima cosa non fosse possibile, far partire l’indagine dallo scopo piuttosto che dalla causa non farebbe alcuna differenza, quindi in altre parole anche nell’ipotesi peggiore si rischierebbe di perdere nulla.
    Comunque: non esiste sia la mela che l’idea che della mela ci si fa? E non sono tra di loro, in quanto altra cosa l’una dall’altra, diverse? E non si crede, sempre, che le due entità siano invece eguali?
    In breve: l’uomo non vede la mela ma vede l’immagine della mela, e così non sente il tuono ma sente il rumore del tuono, e non tocca una tazza ma tocca la sensazione tattile della tazza, e non saggia il miele ma saggia il sapore del miele - così non pensa al bicchiere ma pensa all’idea che del bicchiere si è fatto, e addirittura non arriva a parlare delle cose e nemmeno dei pensieri: ma parla di rumori che dovrebbero figurare dei pensieri, che a loro volta dovrebbero figurare delle cose.
    e sono perfettamente daccordo ...


    Da queste considerazioni è impossibile non notare come il processo conoscitivo sia quindi in tutto fallibile: e proprio da questo hanno origine i desideri umani.
    Che poi la conseguenza di quanto appena esposto sia un’insanabile discrepanza tra realtà e razionalità appare evidente: e quale più ovvia conseguenza - per l’impossibilità di far corrispondere, attraverso l’azione, la realtà all’idea alla quale si vorrebbe aderisse - se non la continua delusione o dolore o tormento che dir si voglia?
    Il vestire questo processo con i nomi più originali, quali ingiustizia o altri non dissimili, è cosa comune, ma ciò non ne intacca la vera essenza bensì esclusivamente la maniera in cui si è soliti pensarlo.
    Ed avanza quindi spontaneo il dubbio che questa maschera ce la si faccia per rendere meno aspro il gusto del vero: perché se si può abituarsi a dire che “Vivere è vivere ingiustizia”, più difficile è fare lo stesso con “Vivere è vivere dolore”.
    Si potrebbe insinuare però, a discapito di questa interpretazione della realtà, che sia possibile sì esistere in un orizzonte di ingiustizia, ma senza però provarne dolore: obiezione valida solo nel caso in cui si annullino tutti i desideri, non esista un sé pensante - in altri termini solo nel caso in cui si sia totalmente altro rispetto all’uomo.
    Perché l’uomo, anche se esiste come il resto della realtà, possiede delle caratteristiche tali da non poter essere confondibile con pietre e alberi e fiumi - con gli altri partecipanti al reale.
    Tale dolore potrebbe quindi essere comune ad ogni partecipante al reale? O è cosa prettamente umana o, ancora, appartenente solo a una determinata categoria di enti?
    scusa se riprendo , secondo il mio ragionamento dovrebbe essere comune a chiunque non sia in grado di ottenere il "bene" in grado di soddisfare.

    e quando dico "bene", non intendo a priori qualcosa di materiale (non lo escludo) ma credo tu sappia di cosa parlo.

    Codesta domanda, pur sorgendo spontanea, non porta però ad una risposta che sia indispensabile per il proseguire del discorso, quindi può a ragione essere elusa.
    Per finire, si arriva allo scopo di questo tormento: quesito ultimo soprattutto in luce della sua eccezionale complessità di indagine e precarietà di risposta.
    Per dare forse una ragione per intervenire sulla realtà al fine di cambiarla, e quindi spronare a darle il contributo che, se la suddetta discrepanza non producesse alcun effetto, probabilmente non si darebbe - vista la dispendiosità dello stesso? Come un modo della realtà di salvaguardare sé stessa dalla stasi - dall’assoluta immobilità madre forse di qualche insondabile catastrofe?
    O forse per premiare l’uomo - perché abituandolo a una vita di patimento possa finire col gioire di quella che sembrerebbe essere l’unica vera certezza, tomba di tutti i dolori e quindi in un certo senso fonte di tutti i piaceri, dai più chiamata morte?

    e quindi raggiungimento della felicità come stato perenne?

  9. #9
    Utente L'avatar di NamelessOne
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    Buona Sera matoriv

    Citazione matoriv
    è una sorta di dimostrazione per assurdo? voglio dire, se quello che intendevi è "accettiamo per assurdo (in quanto preso per veritiero) la frase - L’uomo, sicché esiste, è tormentato - e traiamo le conclusioni..."
    [...]
    e dando, anche in questo caso per ipotesi (correggimi se sbaglio, ho bisogno del tuo aiuto per capire e per poi rispondere secondo il mio parere) e che quindi ben due ipotesi sono state formulate per raggiungere questo risultato?
    Esattamente.
    Si accetta per assurdo la frase "L’uomo, sicché esiste, è tormentato", poi la si analizza nelle sue parti - in questo caso tentando di riformularla in una forma che offra un significato il più univoco possibile: prima ipotesi è su che cosa sia il suo "esistere", e seconda ipotesi su cosa sia il suo "essere tormentato"; il tutto per arrivare a "L’uomo, sicché ivi esiste, dà a sé stesso tormento" - ed infine, da quest'ultima, si prova a trarne delle conclusioni.


    Citazione matoriv
    credo di intendere il "tormento " stesso come un bisogno, continuo, come ogni bisogno necessita di un "bene" per essere soddisfatto e prota ad una soddisfazione. la soddisfazione si concretizza nel "non essere tormentati"
    Non credo avrei saputo formulare il concetto meglio di come hai appena fatto.
    Infatti assumevo come definizione "L'Uomo è Tormentato quando manca di qualcosa".


    Citazione matoriv
    sempre a mio avviso però, non essere tormentati, porta alla felicità, o a quello che l'uomo pensi che sia la felicità, come status perenne, cosa in cui io non credo, esistono forse emozioni in grado di farci dimenticre di non essere felici, ma arrivare allo status di felicità PERENNE, è impossibile
    Su questo punto però non so decidere se convenire con te o meno.
    Perchè ho una teoria, che qui ti espongo, che non mi è ancora riuscita di accettare:

    Assumiamo "Infelicità" come "Bisogno di conseguire un Bene", il qual "Bene" - inteso non come obbligatoriamente materiale, ma più vasto, mi verrebbe da dire "Metafisico" - appunto non è ancora stato conseguito, quindi essenzialmente come "Mancanza di un Bene".
    Se il "Bene" fosse stato un tempo posseduto, vi è certezza che sia esistito, e che quindi ancora esista, e che quindi ancora esisterà.
    Se il "Bene" non fosse stato un tempo posseduto, vi è incertezza che sia esistito, e che quindi che esista, e che quindi esisterà.
    In altri termini, se l'origine dell'essere umano è "Completezza", allora esiste la possibilità di conseguirla, quindi esiste la possibilità di tornare - più che arrivare - allo status di "Felicità".
    Altrimenti - ovvero se l'origine umana fosse "Non-Completezza" - si può solo essere incerti che questa possibilità esista. Ed anzi, si potrebbe quasi affermare che non esista affatto, perchè a che idea di "Completezza" ci si rifarebbe? Se la "Completezza" non fosse mai esistita, potremmo renderci conto di un'eventuale "Mancanza"?

    Davvero non mi ci raccapezzo più molto.

    Ti faccio leggere un commento fattomi in altra sede:

    << Mi sembra un discorso molto simile a quello leopardiano, che affermava che l'uomo soffre poichè aspirante alla felicità infinita, alla padronanza infinita ed eterna di un oggetto che pensiamo, ma che non trova correlati reali.
    Credo però che dopo aver provato il tormento l'uomo giunge alla conoscenza dell'oggetto veramente reale, e diverso dalla sua idea; se non giungesse a questa conoscenza allora non proverebbe tormento, poichè non sarebbe venuto a contatto con l'oggetto desiderato. La conoscenza di un oggetto per via di una rappresentazione errata non è quindi necessaria ed eterna, non per quel singolo oggetto. Questa discrepanza si risolve infatti con la grandissima quantità di oggetti che un uomo può desiderare. Il tormento quindi resta, ma credo che a lungo andare possa risultare affievolito, se non scomparso. Il tormento quindi non è una caratteristica necessaria ed immutabile dell'esistenza.
    >>

    Tu che sai dirmi a riguardo?


    Citazione matoriv
    non ho affermato che non esista "bene " in grado di soddisfarlo, potremmo non essere in grado di ottenerlo?
    E' esattamente la domanda alla quale vorrei anch'io trovare risposta - e della quale, come avrai già notato, ho tentato di porre delle basi nelle righe immediatamente sopra.
    Magari se proviamo a specularci sopra un po', caviamo fuori qualcosa.


    Citazione matoriv
    scusa se riprendo , secondo il mio ragionamento dovrebbe essere comune a chiunque non sia in grado di ottenere il "bene" in grado di soddisfare.
    e quando dico "bene", non intendo a priori qualcosa di materiale (non lo escludo) ma credo tu sappia di cosa parlo.
    Se non erro, ed in caso contrario correggimi, tu fai corrispondere il significato della parola "Bene" più ad un concetto metafisico che altro.

    E quindi tu classificheresti il Dolore come caratteristica propria di tutti quegli "Enti" - letteralmente "Tutto ciò che è" - che non siano in grado di ottenere un Bene.
    Mi sa che in questo caso, se non determiniamo se sia possibile o meno ottenerlo, allora finiamo col parlare principalmente a vuoto.
    Però me la segno, e al momento opportuno vedremo di riprenderla, se sei d'accordo.


    Citazione matoriv
    Citazione NamelessOne
    Ed il suo scopo? [del dolore N.d.R.]
    e quindi raggiungimento della felicità come stato perenne?
    Precisamente.
    Non potrebbe essere che il dolore serva appunto per farci raggiungere la felicità come stato perenne?

    Potrebbe essere quella che segue una teoria a riguardo:
    Ipotizziamo che l'"Essere-Uomo" Esista nella Realtà ancor prima della nascita - vedi bene che non sto rifacendomi al concetto di "anima trascendente che prima è in una realtà poi in un'altra", ma mi rifaccio all'idea che la nostra esistenza nella Realtà possa avere diverse forme, e che una di queste possa iniziare con la nascita e finire con la morte.
    Ed ipotizziamo che prima della nascita sia "Completo", ovvero che possegga tutti i Beni dei quali ha bisogno.
    Non sapendo cosa però sono questi Beni che possiede, non sa nemmeno cosa possiede, e quindi nemmeno ciò che lui è.
    Al fine di fargli conoscere ciò che è, è privato di tutti i suoi Beni, ovvero "Nasce"; così in vita può avvedersi di tutto quello che gli manca, ovvero di tutto quello che esiste ma lui non possibede.
    Con la morte gli viene restituito quello che gli era stato sottratto, così da raggiungere nuovamente la Completezza; ma non una semplice Completezza: bensì una Completezza conscia di essere completa.

    Anche se però, ora che l'ho scritto, m'avvedo di un errore: ma se prima di nascere l'Essere-Uomo mancava di auto-coscienza, allora non era davvero Completo.

    Come commenti?


    - - - - - - -


    Citazione Guo Jia
    Soffriamo per un altro motivo: il tormento è causato dal fatto che noi abbiamo voluto vivere per un sogno. Abbiamo volato troppo in alto, siamo volati troppo oltre i confini della realtà e abbiamo scoperto che i nostri sogni sono solo sogni, immaginazione non applicabile alla realtà.
    In parole povere: non soffriamo perchè siamo limitati e ci rendiamo conto di esserlo, ma per il motivo opposto (!): per il fatto che siamo stati troppo poco limitati, e non ce ne siamo resi conto. Abbiamo immaginato oltre i limiti, e abbiamo dato alla nostra immaginazione troppo potere. Da questo nasce il dolore
    [...]
    Non importa se il faro non lo raggiungiamo, non importa la distanza, l'importante è vedere la luce... ma se l'unico obiettivo della nostra vita diventa quella luce, e scopriamo infine di aver costruito il nostro faro dall'altra parte dell'oceano, allora sarà difficile che la nostra barchetta possa raggiungerlo.
    [...]
    Ci condanniamo a soffrire, proviamo dolore perchè abbiamo perso il contatto con la vita, abbiamo voluto vivere solo di sogni.
    [...]
    Non credo di essere stato chiaro... rileggendo ciò che ho scritto non mi sento soddisfatto.
    Non so se questo sia aderente alla tua idea o meno.
    Però, da quello che ho letto, credo un discorso siffatto porti ad intendere che:
    "Ci siamo condannati a soffrire perchè dopo aver perso il contatto con la vita, ed aver in seguito scoperto che i nostri sogni sono solo sogni perchè troppo oltre i limiti della realtà, non abbiamo più voluto vivere la loro illusione - di conseguenza la vita senza sogni ci è apparsa come un tormento"


    Citazione Guo Jia
    Ma ciò [vivere felici N.d.R.] non significa non essere a conoscenza della discrepanza tra realtà ed interpretazione, significa semplicemente accettare la realtà per come la sentiamo, e viverla. Viverla senza che essa possa farci del male. La accettiamo per quello che riusciamo ad assimilare di essa.
    In secondo luogo, la mia idea di "vivere" non significa mancanza di sogni, non significa che manchi la conoscenza dei propri desideri: significa, più che altro, vivere i sogni con serenità, come nel caso del faro di cui ho parlato poco più in alto. Vivere i sogni in modo sano, senza sovrapensare, senza andare oltre il confine tra sogno positivo e sogno "pericoloso".
    In pratica un "considerare solo quello che è e non quello che potrebbe essere". Sapere che siccome è disponibile solo "questa via", tanto vale percorrerla con serenità, senza uscirne - vuoi col pensiero, vuoi con altro - perchè non avrebbe senso e, in aggiunta, provocherebbe solo dolore - che serva a qualcosa o meno.
    Però ti dirò che non mi convince, e non saprei esprimere il perchè in maniera sintetica e chiara.
    Se non l'hai già fatto ti consiglierei di leggerti quello che sopra ho risposto a matoriv: anche se la lunghezza a prima vista non invoglia molto.


    Citazione Guo Jia
    [...]godiamo della nostra sofferenza e proviamo piacere nel dolore solo nel momento in cui soffrire è l'unico modo che abbiamo per vivere, per sentirci vivi
    Questa è davvero molto poetica
    Io invece, da maldestro ed immaturo filosofo - e quindi non da poeta -, ti potrei rispondere con: "La sofferenza potrebbe essere l'UNICA esistenza possibile".


    Citazione Guo Jia
    Dì la verità, scrivere post lunghissimi ti piace, ti dà piacere. E nel momento in cui clicchi sul pulsante "invia risposta", raggiungi il picco massimo del piacere sessuale.
    O mi sbaglio?
    "Piacere Sessuale" è riduttivo: è più un orgasmo metafisico
    E per dimostrar ciò apporterò due evidenti prove:
    Prima su tutte la lunghezza di questo post;
    Seconda l'aderenza logica di "Mentre Scrivo Post Lunghi Soffro come un Cane" con "Piacere è assenza di Sofferenza".
    E tra non molto avrò modo di ripetermi


    - - - - - - -


    Chiusa la parte "affezzionatissimi" ( ), apro quella "evasi" - nel senso che sono fuggiti contro la MIA volontà.

    Citazione G.A.M.
    Esistere significa anche possedere l' "istinto" del: potrei non esserlo... fine della storia.
    Questa mi sarebbe piaciuta vedermela spiegata: è singolare - o, per porla in altri termini, non l'ho capita.


    Citazione Artemesys
    Cartesio, se non erro (non ho letto tutto). Per l'equazione "Essere = Tormento" calza a pennello il pensiero del Leopardi, sia filosofo che poeta.
    Hai per caso gli estremi per andare a trovare dei loro "scritti" - mi mantengo sul vago - attinenti alla discussione? Ché mi piacerebbe leggerne qualcosa.


    Citazione Gaothaire
    L'uomo, da quando non è più un animale primitivo, è talmente complesso da tormentarsi, sempre.
    Cosa, secondo te, l'ha reso altro da "animale primitivo" quale era?



    Infine, ero certo di aver visto postati i seguenti - non so se sono scomparsi a causa di un errore del server o altro, e ad ogni modo io ad essi mi rifaccio tranquillamente:

    Citazione Bzzo
    siamo in un forum di videogiochi,non all'università non che non abbia le capacità per capire (il primo post l'ho letto ed'è anche interessante),ma non ho il tempo (o se volete la voglia) per reggere un discorso intero...non sono nell'aria giusta appena mi viene l'ispirazione magari
    Quando vuoi


    Citazione Devil 87
    Quando avrò un asettimana libera ti risponderò
    Skerzo, però di certo dovrò ritagliarmi un pò di tempo
    Anche tu come sopra

  10. #10
    Utente L'avatar di NamelessOne
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    Caspita, or ora m'è venuta in mente un'assolutamente necessaria precisazione da fare riguardo a:

    Citazione NamelessOne
    [...]così non pensa al bicchiere ma pensa all’idea che del bicchiere si è fatto, e addirittura non arriva a parlare delle cose e nemmeno dei pensieri: ma parla di rumori che dovrebbero figurare dei pensieri, che a loro volta dovrebbero figurare delle cose.
    Da queste considerazioni è impossibile non notare come il processo conoscitivo sia quindi in tutto fallibile: e proprio da questo hanno origine i desideri umani.
    Perchè credo di aver formulato un paradosso.
    Potrei infatti riassumere questa parte in: "La Conoscenza delle Cose Non è Vera, quindi la Conoscenza Mente", e su cosa si basa questa affermazione? Paradossalmente sulla stessa Conoscenza.
    Il che è del tutto simile al paradosso del mentitore: ovvero di colui che afferma "Io Mento".

    Come eliminare quest'apparente contraddizione? Leggendo quello che segue - nel quale mi sono casualmente ( ) imbattuto:

    << Andando oltre la schizofrenia, Bateson ha notato che praticamente tutta l'attività comunicativa superiore (non solo umana!) è un'espressione del paradosso. Ad esempio, comunicare "questo è un gioco", il che può avvenire anche a livello prelinguistico e tra animali, significa semplicemente dire "ciò che sto facendo non è ciò che sto facendo", nel senso che gli atti che vengono compiuti (ad esempio, la simulazione di una lotta) non sono da intendere come andrebbero intesi normalmente (ad esempio, una lotta vera). Analogamente avviene per minaccia, inganno, simulazione, magia, umorismo, comicità, simbolismo, metafora, immagini poetiche, cerimonie, rituali, riti, recitazione, passando attraverso tutta l'attività creativa e artistica. Il punto di arrivo di questa reinterpretazione paradossale della comunicazione è ovviamente il linguaggio stesso, sulla base del principîo che il segno non è il messaggio, come la mappa non è il territorio: una posizione condivisa da Umberto Eco, che nel Trattato di semiotica generale del 1975 definisce un segno come "tutto ciò che può essere usato per mentire", e la semiotica come una "teoria della menzogna". >>

    Ed anche:

    << Un grande logico della modernità, Tarski, diede una definizione di verità affermando che la verità per un qualsiasi linguaggio formale non era definibile nel linguaggio ma soltanto nel metalinguaggio. Non è possibile ad esempio per il linguaggio matematico definire solo tramite il suo linguaggio la definizione di verità. Perché? Questo è l'unico modo per non inceppare in paradossi come quello del mentitore e per non mandare in pezzi l'intero edificio matematico evitando le contraddizioni.
    Questa limitazione è totalmente semantica: non è possibile parlare della propria verità all'interno del proprio sistema. Tramite questa soluzione Tarski ha dato una importante soluzione del paradosso del mentitore.
    >>

    In altre parole?
    Per affermare che il nostro linguaggio mente - ossia non è veritiero -, dobbiamo rifarci non ad esso, bensì al "Metalinguaggio".

    Cos'è il "Metalinguaggio"?
    E' il linguaggio da utilizzare per descrivere le regole necessarie alla costruzione dei linguaggi. Il Metalinguaggio utilizza simboli non-terminali, diversi dai simboli terminali che utilizza il linguaggio che va a determinare.

    Comprendo che sia di non immediata comprensione, ma più che me dovreste scusare l'argomento nel quale ci siamo addentrati.

    E comunque: anche oggi ci si è guadagnati la tregua

  11. #11
    Daimadoshi L'avatar di matoriv
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    Citazione NamelessOne
    Se il "Bene" fosse stato un tempo posseduto, vi è certezza che sia esistito, e che quindi ancora esista, e che quindi ancora esisterà.
    Se il "Bene" non fosse stato un tempo posseduto, vi è incertezza che sia esistito, e che quindi che esista, e che quindi esisterà.
    "esistere", il solo averlo sognato, il solo desiderarlo lo rende "vero"...

    se potessi modificare la tua frase come segue

    Se il "Bene" non fosse stato un tempo posseduto, vi è incertezza che sia OTTENIBILE[...].

    sarei perfettamente daccordo con tè (e lo sono per lo più)



    << [I]Mi sembra un discorso molto simile a quello leopardiano, che affermava che l'uomo soffre poichè aspirante alla felicità infinita, alla padronanza infinita ed eterna di un oggetto che pensiamo, ma che non trova correlati reali.


    Credo però che dopo aver provato il tormento l'uomo giunge alla conoscenza dell'oggetto veramente reale, e diverso dalla sua idea; se non giungesse a questa conoscenza allora non proverebbe tormento, poichè non sarebbe venuto a contatto con l'oggetto desiderato.
    potrebbe non giungere alla conoscenza ( se non nel momento in cui la ottiene [ la morte?] ) sicuramente ne ha contatto, di sicuro sà che esiste, sà che è insostituibile (o ne è certo, ed è imposibile fargli cambiare idea) e questo basta a dargli tormento.

    La conoscenza di un oggetto per via di una rappresentazione errata non è quindi necessaria ed eterna, non per quel singolo oggetto. Questa discrepanza si risolve infatti con la grandissima quantità di oggetti che un uomo può desiderare. Il tormento quindi resta, ma credo che a lungo andare possa risultare affievolito, se non scomparso. Il tormento quindi non è una caratteristica necessaria ed immutabile dell'esistenza. >>
    se non è necessaria, è comunque utile a tal punto da essere l'unico mezzo per arrivare alla felicità... direi che a questo punto possiamo affermare questo con tranquillità.

    risultare affievolito... io non ci credo

    per consuetudine? parliamo del desiderio di raggiungere la cosa più importante, l'obbiettivo primo dell'uomo , la felicità, per miliaia di anni l'uomo si è tormentato tramandando conoscenza e risultati a posteri. mai il tormento si è placato. può un uomo in quanto? 40-50-60 anni di vita, abituarsi ad un simile fardello? considerarlo "consuetudinale" ed ignorarlo?

    Per rassegnazione? ma no...guardaci, guarda mio nonno, guarda chiunque cerca la felicità, finchè la cerchi hai anche tormento, non ti puoi rassegnare

    il suicidio? è rassegnazione? il suicidio è rendersi conto che non puoi ottenere quella felicità, ma al contempo credere di ottenerla nel momento della morte
    in fondo la frase comune non è forse "porre fine al tormento".

    spero di non essere andato off topic.



    E' esattamente la domanda alla quale vorrei anch'io trovare risposta - e della quale, come avrai già notato, ho tentato di porre delle basi nelle righe immediatamente sopra.
    Magari se proviamo a specularci sopra un po', caviamo fuori qualcosa.
    magari...

    Se non erro, ed in caso contrario correggimi, tu fai corrispondere il significato della parola "Bene" più ad un concetto metafisico che altro.

    E quindi tu classificheresti il Dolore come caratteristica propria di tutti quegli "Enti" - letteralmente "Tutto ciò che è" - che non siano in grado di ottenere un Bene.
    forse ho risposto in modo ambiguo, un errore nella citazione ha impedito di farti capire a che frase mi riferivo .... aprirò un post sotto (per comodità) in cui riscriverò la frase accompagnata dalla citazione. GUARDA SOTTO.

    Mi sa che in questo caso, se non determiniamo se sia possibile o meno ottenerlo, allora finiamo col parlare principalmente a vuoto.
    Però me la segno, e al momento opportuno vedremo di riprenderla, se sei d'accordo.
    sono più che daccordo, a piccoli passi si costruisce qualcosa di grande, bisogna azzardare e "ipotizzare" per arrivare a conclusioni,che anche se errate, ci aiutano a "confutare" (scusami , ma sono lievemente corrotto dalla logica).



    Precisamente.
    Non potrebbe essere che il dolore serva appunto per farci raggiungere la felicità come stato perenne?

    esatto, se si ariva alle conclusioni di cui sopra, la frase è inconfutabile.


    Potrebbe essere quella che segue una teoria a riguardo:
    Ipotizziamo che l'"Essere-Uomo" Esista nella Realtà ancor prima della nascita - vedi bene che non sto rifacendomi al concetto di "anima trascendente che prima è in una realtà poi in un'altra", ma mi rifaccio all'idea che la nostra esistenza nella Realtà possa avere diverse forme, e che una di queste possa iniziare con la nascita e finire con la morte.
    Ed ipotizziamo che prima della nascita sia "Completo", ovvero che possegga tutti i Beni dei quali ha bisogno.
    Non sapendo cosa però sono questi Beni che possiede, non sa nemmeno cosa possiede, e quindi nemmeno ciò che lui è.
    Al fine di fargli conoscere ciò che è, è privato di tutti i suoi Beni, ovvero "Nasce"; così in vita può avvedersi di tutto quello che gli manca, ovvero di tutto quello che esiste ma lui non possibede.
    Con la morte gli viene restituito quello che gli era stato sottratto, così da raggiungere nuovamente la Completezza; ma non una semplice Completezza: bensì una Completezza conscia di essere completa.

    Anche se però, ora che l'ho scritto, m'avvedo di un errore: ma se prima di nascere l'Essere-Uomo mancava di auto-coscienza, allora non era davvero Completo.

    in un primo momento, avrei risposto così: magari non ne aveva bisogno? lo esulava la stessa consapevolezza di essere nella perfezione (come tutto intorno a lui), ma hai ragione invece, non era completo.

    pensando...se non è a conoscenza di ciò che possiede, non è nemmeno a conoscenza di ciò che può perdere, nè del fatto che, perdendo un privilegio (un "bene" ) possa perdere la "perfezione" o possa stare peggio, e quindi non è a conoscenza di essere perfetto. si sarebbe dato tormento comunque? incredibile.

  12. #12
    Daimadoshi L'avatar di matoriv
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    Citazione GUO JIA
    Soffriamo per un altro motivo: il tormento è causato dal fatto che noi abbiamo voluto vivere per un sogno. Abbiamo volato troppo in alto, siamo volati troppo oltre i confini della realtà e abbiamo scoperto che i nostri sogni sono solo sogni, immaginazione non applicabile alla realtà.
    In parole povere: non soffriamo perchè siamo limitati e ci rendiamo conto di esserlo, ma per il motivo opposto (!): per il fatto che siamo stati troppo poco limitati, e non ce ne siamo resi conto. Abbiamo immaginato oltre i limiti, e abbiamo dato alla nostra immaginazione troppo potere. Da questo nasce il dolore
    se posso intromettermi.

    volare troppo in alto dici? puoi biasimarlo? e "SOLO sogni", non merita "SOLO", non è motivazione futile.

    se sogni qualcosa in grado di darti felicità puoi ignorarla e rassegnarti al fatto che essa sia oltre i tuoi limiti? il tuo scopo rimane comunque ottenre la felicità, se hai trovato un modo e ci rinunci, sei sicuro dche un giorno troverai un altro modo per raggiungerla? non sei nemmeno sicuro che esista...

    come nell'amore, mentre ami , non puoi immaginare possa esistere qualcun'altra da amare, non ci arrivi.

  13. #13
    Daimadoshi L'avatar di matoriv
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    questo è il post a cui mi riferivo, questa è la citazione che ritenevo di aver affrontato in modo ambiguo.

    era a questo che rispondevi? ora è più chiaro?


    Citazione TU

    Tale dolore potrebbe quindi essere comune ad ogni partecipante al reale? O è cosa prettamente umana o, ancora, appartenente solo a una determinata categoria di enti?

    Citazione IO
    scusa se riprendo , secondo il mio ragionamento dovrebbe essere comune a chiunque non sia in grado di ottenere il "bene" in grado di soddisfare.

    e quando dico "bene", non intendo a priori qualcosa di materiale (non lo escludo) ma credo tu sappia di cosa parlo.
    quando dico "non sia in grado di ottenere il bene" sbaglio....

    forse è più chiaro e corretto "non lo possieda e sia alla ricerca del bene" (che può portare alla paura di non ottenerlo....ma è diverso)

    Citazione NamelessOne

    Cos'è il "Metalinguaggio"?
    E' il linguaggio da utilizzare per descrivere le regole necessarie alla costruzione dei linguaggi. Il Metalinguaggio utilizza simboli non-terminali, diversi dai simboli terminali che utilizza il linguaggio che va a determinare.

    Comprendo che sia di non immediata comprensione, ma più che me dovreste scusare l'argomento nel quale ci siamo addentrati.

    E comunque: anche oggi ci si è guadagnati la tregua
    mi rendo conto che sono in grado di capire ciò che hai scritto solo grazie ad un corso di logica matematica, uno di algebra ed uno di algoritmi e strutture dati... e nonostante tutto trovo molto complicato l'uso di "non terminali" per affrontare una discussione leggibile a tutti in questo forum.



    Ciao
    Ultima modifica di matoriv; 23-08-2005 alle 10:02:10

  14. #14
    Bannato L'avatar di Artemesys
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    Citazione NamelessOne
    Hai per caso gli estremi per andare a trovare dei loro "scritti" - mi mantengo sul vago - attinenti alla discussione? Ché mi piacerebbe leggerne qualcosa.
    Ti posso felicemente riportare un testo del Leopardi sulla felicità, giusto un accenno, per farti poi venire voglia di cercare qualcos'altro di più approfondito per conto tuo (consigliatissimo). Anche di Cartesio, se vuoi.

  15. #15
    Utente L'avatar di NamelessOne
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    Citazione Artemesys
    Ti posso felicemente riportare un testo del Leopardi sulla felicità, giusto un accenno, per farti poi venire voglia di cercare qualcos'altro di più approfondito per conto tuo (consigliatissimo). Anche di Cartesio, se vuoi.
    Si, grazie: riportami quello che hai di entrambi che poi ad approfondire ci penso io.
    Aspetterò con ansia (e tormento ) tue nuove.

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