The Velvet Underground
I Velvet Underground sono uno dei gruppi più innovativi e influenti dell’intera storia del rock. Sono l'anima oscura e sotterranea della cultura "alternativa", le radici del rock bianco e metropolitano, ma anche i precursori dei fenomeni punk e new wave con un decennio d’anticipo. La loro nascita è profondamente legata alla New York degli anni Sessanta: un crogiolo di avanguardie, artisti e circoli underground. Una realtà parallela e, per l’appunto, "sotterranea" rispetto a quella in superficie.
Nei primi anni '60 Lou Reed (all’anagrafe Louis Firbank, originario di Freeport, Long Island, NY) viene a studiare poesia alla Syracuse University. Con il compagno d'università Sterling Morrison, suona in diverse formazioni newyorkesi. Ed è proprio nella Grande Mela che incontra un altro "genio maledetto", John Cale (nato a Cwmamman, Galles), studente di composizione da poco trasferitosi negli Stati Uniti per lavorare con Leonard Bernstein e dedicarsi all'arte sperimentale. Insieme, danno vita a una band che si chiama Primitives, poi Warlocks, quindi The Velvet Undeground (dal nome di una novella pornografica).
Nel 1965 Reed, Morrison, Cale e il percussionista Angus McLise (già nel giro del musicista d'avanguardia La Monte Young) formano a New York il nucleo dei Velvet Underground registrando, con il nome di Underground, alcuni provini (successivamente inclusi nel quintuplo "Peel Slowly And See", edito nel 1995) di brani che faranno la storia della band: "Venus In Furs", "Black Angel's Death Song", "Heroin".
Ma le loro sonorità spigolose e avanguardistiche non li non aiutano a trovare una casa discografica. Così non resta che l’attività "underground". Suonano al Café Bizarre, al Greenwich Village. Ma i loro testi sono troppo scandalosi. Una sera, nonostante un esplicito divieto, eseguono "Black angel's death song" e vengono licenziati in tronco. Quella notte, però, trovano un nuovo fan, un artista noto nell'ambiente underground newyorkese: si chiama Andy Warhol. Sarà proprio il maestro della pop-art a lanciarli in uno show multimediale, "The exploding plastic inevitable". Questa comunità artistica forgia un'immagine misteriosa e inquietante del gruppo, nel quale la batterista Maureen "Moe" Tucker prende nel frattempo il posto di McLise. Ma la novità più significativa è decisa dallo stesso Warhol, che impone nell’organico della band la sua cantante prediletta: Nico, bionda tedesca dalla voce spettrale con un passato di modella e attrice (con un'apparizione nella "Dolce vita" di Federico Fellini). Da questa formula magica scaturisce The Velvet Underground and Nico (gennaio 1967), uno degli album più importanti della storia del rock, griffato da una banana in copertina a firma dello stesso Warhol.
L’opera si segnala subito per la sua distanza dalle tendenze del momento: è cupa e decadente, in netta controtendenza con un periodo storico-musicale pervaso dalle contestazioni studentesche, dai movimenti pacifisti e dalle vibrazioni del flower-power. Uscito in tiratura limitata, The Velvet Underground and Nico viene praticamente ignorato dal pubblico, ma conquista subito la critica dell'epoca. Sarà poi il passaparola, o la progressiva emersione dalle tenebre della storia della band, facilitata anche dalla fama acquisita da Lou Reed, a riportarlo in superficie.
L'album è un perfetto equilibrio di melodia e rumore, buio e luce, dolcezza e perversione, ballate e baccanali. Dalla discesa negli inferi di "Venus in furs", con la viola elettrica di John Cale a flagellare le melodie e la voce profonda di Lou Reed a raccontare una storia d'amore morbosa e malata, alla filastrocca funerea di "All tomorrow's parties", con la voce spettrale di Nico che dà letteralmente i brividi. Dalla melodia solo apparentemente solare di "Sunday morning" agli abissi di folle decadenza di "Heroin". Dalla delicatissima "I'll be your mirror" alla suadente (e viziosa) "Femme Fatale", fino alla devastante orgia sonora di "Black angel's death song", in cui emerge la tendenza all'ossessività e al minimalismo tipica di John Cale.
E' un album che mescola rock e blues, psichedelia e avanguardia. Un lavoro che trae lezione dal passato per proiettarsi idealmente nel futuro. Non a caso è diventato una pietra miliare per le band del punk, della new wave e perfino dell'attuale post-rock. Non si contano, insomma, i tentativi d'imitazione. Tanto che, se si fa attenzione, si può scoprire un passaggio di The Velvet Underground and Nico in quasi ogni singolo brano del rock moderno. Facile, quindi, convenire con il critico Federico Guglielmi quando scrive che "chi non conosce questo disco non può sapere che cosa significhi la parola rock".
I testi dei Velvet sono crudi ("Heroin"), sono autentici inni alla vita di strada e alla perversione ("I'm Waiting For The Man", "Venus In Furs", "Run Run Run"). La commistione tra il talento creativo di Lou Reed, i contorti percorsi musicali di Cale e la voce sensuale di Nico si rivela perfetta. Ma l’equilibrio si spezza presto. La lotta per la leadership nel gruppo porta all'abbandono di Nico e al distacco dall'orbita warholiana. Nasce così White Light White Heat (1967), un disco che accentua l’estremizzazione rumorista e paranoica dei suoni ("Sister Ray", "The Gift" oltre alla title track, poi ripresa da David Bowie), senza tralasciare gli aspetti più inconfessati dell'animo umano ("Lady Godiva's Operation"). La natura instabile e irrequieta del gruppo porta all'abbandono di John Cale nel 1968, sostituito da Doug Yule. E' così il solo Reed a confezionare le canzoni destinate a The Velvet Underground (1969), che offre alcune buone composizioni del cantautore newyorkese ("Candy Says", "What Goes On", "Some Kinda Love", "Pale Blue Eyes"), venate di intimismo e di struggente malinconia. Malgrado ciò, il mancato successo del gruppo porta allo scioglimento dopo la registrazione di Loaded (1970), disco modesto malgrado gli hit "Sweet Jane" e "Rock & Roll".
I dischi dal vivo The Velvet Undeground Live At Max's Kansas City (1972) e il doppio 1969 Velvet Underground Live (1974) tentano invano di riaccendere il mito. Ma sono soprattutto le ottime carriere solistiche di John Cale e Lou Reed a contribuire, alla fine degli anni '70, a una lenta ma inesorabile riscoperta dei primi due dischi della band. Album che diventano riferimenti obbligati per le band della new wave (dai Pere Ubu ai Joy Division, dai Television ai Sonic Youth) e che ottengono addirittura il disco d'oro negli anni '80, dopo l'uscita di due raccolte di rarità e inediti (VU del 1985 e Another View del 1986). Ma la storia della band sembra segnata da un sortilegio maledetto. Scompare, infatti, il loro maestro Andy Warhol, e due dei componenti storici, Nico e Sterling Morrison, muoiono in circostanze misteriose.
Nel 1990 Cale e Reed tentano un riavvicinamento con l'opera-requiem per Andy Warhol, Songs for Drella, con una successiva, improbabile riunione dei Velvet Underground, impegnati in un tour mondiale in grandi arene trent'anni dopo gli stentati inizi nelle cantine newyorkesi. Live MCMXCIII (1993) testimonia questa ritrovata congiunzione, ma non impedisce il definitiva scioglimento della band. Nel 1995 Peel Slowly And See racchiude in un cofanetto di cinque cd una serie di inediti relativi a ogni album.
L’eredità lasciata dai Velvet Underground alle generazioni successive è tra le più ricche della musica moderna. I loro baccanali sonori, le loro ballate decadenti, i loro testi crudi e perversi hanno lasciato un segno permanente sulla storia del rock. Al punto che sono pressoché incalcolabili i gruppi per descrivere la cui musica è stato usato in qualche modo il termine "Velvet Underground".
(presa da www.ondarock.it)
che ne pensate di loro? inutile che vi dia la mia opinione a riguardo