Save The Children e Transfair Italia denunciano le multinazionali della cioccolata per lo sfruttamento dei bambini
I piccoli schiavi del cacao
«Pensavo che dopo aver lavorato nel campo di cacao della Costa d'Avorio ne sarei diventato il proprietario. Ho lasciato il Mali perché non c'è possibilità di guadagnare. Il primo giorno di lavoro ho capito che i miei sogni non si sarebbero mai avverati, il capo mi ha detto che non mi poteva pagare per un anno intero perché doveva dare la mia paga all'uomo che mi ha portato nel campo in un camion. Ho pianto tutta la notte e ho cercato di scappare ma mi hanno catturato e picchiato». Diabatè ha 14 anni e lavora senza sosta dodici ore al giorno. E' uno degli oltre 615.000 bambini "arruolati" forzatamente nelle piantagioni di cacao in Costa d'Avorio, Nigeria, Ghana e Camerun.
«A loro dovremmo pensare quando scartiamo una tavoletta di cioccolato Nestlè», denunciano le Ong Save the Children e TransFair Italia che, in un rapporto di recente pubblicazione, hanno svelato il circolo vizioso instaurato tra il traffico-sfruttamento dei minori e il commercio mondiale del cacao. Analizzando il circuito dal produttore al consumatore, ecco il quadro delineato: da un lato le enormi difficoltà economiche per i contadini, dall'altro una forte concentrazione dei guadagni nelle tasche di poche multinazionali.
La raccolta e le prime fasi della produzione, dalla fermentazione all'essiccazione, avvengono nei paesi di origine, soprattutto in piccoli appezzamenti gestiti da aziende di modeste dimensioni o a conduzione familiare; il lavoro viene svolto a mano, senza supporti meccanici, con elevati costi di manutenzione e manodopera. Le multinazionali non riconoscono questi costi e gli altri oneri sociali, li considerano "esterni", lasciando che ricadano sui coltivatori e si traducano in lavoro minorile, luoghi di lavoro insalubri, salari bassissimi. Le fave di cacao, inoltre, per essere esportate devono percorrere lunghe distanze: raramente il piccolo produttore ha le capacità economiche di raggiungere i grossi mercati e deve quindi affidarsi ad intermediari. Quando le fave arrivano nei mercati di esportazione e nelle borse di Londra e New York, il contadino è da tempo fuori gioco. L'impossibilità per i coltivatori di esportare autonomamente il cacao rappresenta solo uno dei problemi, a cui si aggiungono la caduta dei prezzi, la liberalizzazione del mercato, i dazi dei paesi ricchi sulle importazioni, i limiti alla produzione imposti dagli accordi economici internazionali e la mancanza di strutture per la lavorazione della materia prima. Come se non bastasse, le economie dei paesi produttori subiranno un notevole deficit dalla caduta di richiesta del cacao da parte dei paesi Ue, dovuta alla recente adozione della direttiva Ce 36/2000, che permette la sostituzione del cacao con altre sostanze vegetali sino al 5% del prodotto finito.
Relegati i piccoli produttori ai margini, le vere protagoniste del mercato sono le compagnie d'importazione, le multinazionali che lavorano la materia prima e le industrie dolciarie. Secondo l'Icco (Organizzazione Internazionale del Cacao, nata nel 1973 per la supervisione della produzione e del commercio), quattro compagnie rappresentano da sole il 50% delle macinazioni mondiali: Archer Daniels Midland (500mila tonnellate), Cargill (410mila ton), Barry Callebaut (360mila ton), Nestlè (250mila tn). La Ferrero figura con 50mila tonnellate macinate e 4,73 miliardi di dollari di fatturato. Tre multinazionali si contendono il primato per la vendita dei dolciumi: la svizzera Nestlè e le americane Kraft Foods e Mars. Organismi internazionali quali la Fao, l'Ocse e l'Unctad avvertono che la quasi totalità del mercato mondiale di caffè, cacao, cereali, juta, cotone e tè è gestito da poche multinazionali, spesso non quotate in Borsa e quindi non adeguatamente controllate; il loro potere monopolistico influisce direttamente anche sulla produzione decidendo modalità e tempi.
Le multinazionali del cioccolato, accusate dalle organizzazioni umanitarie di comprare il cacao dai contadini ivoriani a costi bassissimi e quindi di contribuire indirettamente allo sfruttamento del lavoro minorile, per molto tempo non hanno fatto altro che negare l'esistenza di tali condizioni affermando di essere all'oscuro di quanto succedeva nei paesi di produzione dato che esse acquistavano la materia prima direttamente nelle borse di Londra e New York. Nell'ottobre 2001 hanno siglato il protocollo "Harkin - Engels" impegnandosi ad eliminare entro il 2005 lo sfruttamento dei minori attraverso programmi di sviluppo dei paesi produttori. Alla scadenza del periodo prefissato, i prodotti delle industrie firmatarie saranno contraddistinti dal bollino "slave free". In realtà, sino ad oggi si è solo denunciato pubblicamente il fenomeno e le multinazionali non affrontano i problemi strutturali: la concessione di salari adeguati ai contadini e il permesso di associarsi liberamente nei sindacati.
«Se le multinazionali non avessero interessi a mantenere basso il prezzo della materia prima sarebbe più facile creare condizioni di lavoro umane. L'unica possibilità è rafforzare i meccanismi del commercio equo e solidale per garantire la tutela del lavoro nelle piantagioni». Salia Kante, 54 anni, gestisce il Centro di accoglienza "Horon So" di Save The Children a Sikasso, città ai confini tra Mali e Costa d'Avorio, e trascorre le sue giornate in mezzo ai bambini. La sua testimonianza aiuta a comprendere le dimensioni dello sfruttamento: «molti villaggi del Mali vivono in una povertà cronica, i bambini abbandonano la scuola da piccoli ed iniziano a lavorare. I trafficanti non trovano resistenze né nei minori né nei genitori, anzi spesso sono gli adulti che affidano i figli in cambio di uno stipendio mensile. Anche le classi sociali agiate non vengono risparmiate: il figlio di un funzionario del governo è stato preso mentre viaggiava in autobus per raggiungere la casa dei nonni. Non aveva mai usato il machete, la prima volta che lo ha preso in mano si è tagliato di netto un tendine. Non cammina più. I bambini come lui, dopo essere stati venduti in Costa d'Avorio per una cifra che oscilla tra i 28 e i 66 euro, lavorano nelle piantagioni dalle 6 di mattina alle 9 di sera, mangiano un pugno di mais e una banana, dormono ammassati in stanze senza letti, senza bagno, chiusi a chiave di notte. A volte sottoscrivono un patto che prevede un compenso di circa un euro al giorno, ma sono soldi che non vedranno mai».
Solo raramente qualcuno riesce a scappare e a trovare rifugio nel Centro di accoglienza: «da quello che raccontano, scappare è rischioso. Se i padroni lo scoprono, usano forme di tortura. Ad alcuni hanno inciso la pianta dei piedi con un coltellino. Le ferite s'infettano, ma il lavoro continua. Non è infrequente vedere bambini che si aggirano per le piantagioni camminando a quattro zampe. In altri casi, vengono appesi a un albero nudi: le mogli dei proprietari delle piantagioni li eccitano e li masturbano davanti a tutti e al ludibrio delle altre donne». Purtroppo la fuga è l'unica via di salvezza poiché nessuno verrà mai liberato. «I più fortunati - spiega Kante rimangono nelle piantagioni e quando sono troppo vecchi per lavorare, parliamo di ragazzi di 18 anni, vengono fatti sposare per avere altri schiavi. Producono forza lavoro gratuitamente! Gli altri, la maggior parte, completamente distrutti dalla fatica e senza neanche la forza di reggersi in piedi, finiscono alla frontiera del Ghana. Poi di loro non si sa più niente, spariscono nel nulla». Nel nulla? «Il governo olandese ha finanziato uno studio, ancora in corso. Quello che si sa è che questi bambini sono soprannominati "pezzi di ricambio", il che fa pensare che siano utilizzati per il prelievo di organi».