Bilancio del colonialismo Italiano
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Discussione: Bilancio del colonialismo Italiano

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    Bilancio del colonialismo Italiano

    La fine dell'impero
    Angelo Del Boca


    Seguita alla sconfitta di El Alamein, la caduta di Tripoli chiuse un'epoca. A sessant'anni di distanza, il maggior storico del colonialismo italiano ci ricorda quanto è costato - in termini di guerra di conquista, eccidi e spoliazioni - il nostro sogno coloniale a Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia. Negativo anche il bilancio militare ed economico.


    I1 23 gennaio 1943, giusto sessant'anni fa, il vice governatore della Libia, Francesco San Marco, affiancato dal prefetto di Tripoli, il duca Alberto Denti di Pirajno, si recava a Porta Benito, dove il generale Bernard Law Montgomery aveva posto il suo quartier generale, e gli consegnava le chiavi di Tripoli.
    Nel ricordare il breve discorso del vincitore, Denti di Pirajno, che era, oltre che un alto e stimato funzionario coloniale, uno scrittore finissimo, così si esprimeva: «Montgomery non mi piacque, sia perché il vinto non trova mai simpatico il vincitore, sia perché ci parlava senza guardarci, col capo insaccato fra le spalle rachitiche e lo sguardo inchiodato al suolo. Ebbi allora l'impressione che con questo atteggiamento volesse ostentare il poco conto in cui ci teneva e questo, in un conquistatore, mi parve ingeneroso».

    Il prefetto di Tripoli non era soltanto turbato per il disprezzo che il vincitore della battaglia di El Alamein ostentava nei riguardi delle autorità italiane. Era anche avvilito per la mancata difesa di Tripoli, che militari e gerarchi fascisti avevano solennemente promesso di operare ad oltranza, casa per casa. Ma al momento di mettere in pratica questi bellicosi propositi - riferiva Denti di Pirajno - «tutti se ne erano andati: i condottieri che avevano giurato di difendere la città sino all'ultimo mattone, i gerarchi del "di qui non si passa". L'ultima nave ospedale, dirottata su Zuara, era partita vuota di feriti, ma stracarica di greche, di aquile, di medaglie».

    Con la caduta di Tripoli, ultimo lembo di terra africana ancora presidiato dall'Italia, si concludeva un'epoca. Finiva la spinta espansionistica che aveva avuto inizio nel 1869 con l'occupazione della baia di Assab, nel Mar Rosso. Crollava l'ultimo pilastro dell'impero dell'Africa italiana, voluto con ostinazione da Benito Mussolini, con un costo altissimo di vite umane e di risorse economiche. Dopo settant'anni di presenza italiana in Africa, il nostro paese usciva definitivamente dal Continente Nero lasciandovi il ricordo indelebile di stragi, di deportazioni, di devastazioni, di spoliazioni. Inutilmente Mussolini lanciava il 9 maggio 1943, celebrando l'anniversario della fondazione di un impero che oramai non c'era più, la parola d'ordine : "Torneremo". Due mesi dopo cadeva il regime fascista e con esso tutti i miti che aveva creato.


    Dogali, Adua, Kars bu Hadi

    II bilancio della presenza italiana in Africa non poteva, sotto tutti i punti di vista, essere più negativo. Sotto il profilo del prestigio militare l'Italia ne usciva malconcia. Alla resa dei conti, infatti, erano più le sconfitte che i successi. Dogali, Adua, Kars bu Hadi non erano soltanto brucianti disfatte. Mettevano in evidenza tutti i difetti del tardo colonialismo italiano: dilettantismo, imprevidenza, iattanza, disprezzo per l'avversario, eroismo di chi ormai non ha scampo e alla fine preferisce la morte al tribunale militare.

    Ad Adua, Oreste Baratieri, con 5mila morti, 2mila prigionieri e la perdita di tutti i cannoni, si aggiudicava la palma del generale più sconsiderato, più inesperto, più biasimevole. A Kars bu Hadi, il colonnello Antonio Miani perdeva mille uomini, 5mila fucili, alcuni milioni di cartucce, 6 sezioni di artiglieria, tutte le mitragliatrici, l'intero convoglio di rifornimenti e persino la cassa militare. Tante armi, viveri e denaro da alimentare e rendere vincente la rivolta araba. In pochi mesi i mujaheddin avrebbero ripreso tutti i territori conquistati dagli italiani in quattro anni di guerre, salvo Tripoli e poche altre città della costa.

    Si faceva così strada la convinzione, negli alti comandi, che, per strappare una sicura vittoria, fosse necessario mettere in campo uomini e mezzi che fossero almeno il doppio di quelli schierati dall'avversario. Infatti, memore di Adua, Mussolini impiegava nella conquista dell'Etiopia armate così possenti e soverchianti come l'Africa non aveva mai visto. E paventando ancora amare sorprese, ordinava a Badoglio e a Graziani di aggiungere alle armi convenzionali anche quella proibita dei gas, violando così gli accordi internazionali che l'Italia aveva sottoscritto.

    Poi, un giorno, per questi condottieri troppo celebrati e persino mitizzati, sarebbe venuto il momento della verità. Nel giudicare l'operato di Rodolfo Graziani in Africa settentrionale, nel corso della seconda guerra mondiale, l'addetto militare tedesco a Roma, Enno von Rintelen, così si esprimeva: «Egli condusse la guerra in Africa come una campagna coloniale; i suoi avversari non erano però dei nativi, bensì dei soldati dell'impero mondiale britannico».

    Graziani si era costruito tutta la sua fortuna, in Libia e in Etiopia, battendo formazioni di patrioti male armate, ricche soltanto di un indomito coraggio. Ma posto di fronte ad un esercito regolare e modernamente equipaggiato, egli rivelava tutti i suoi limiti, perdeva il controllo di sé stesso e delle sue armate, la sua leggenda si trasformava in una penosa parodia. E con lui scomparivano dalla scena, uccisi o fatti prigionieri, i Bergonzoli, i Gallina, i Tracchia, i Pitassi Mannella, che con troppa facilità avevano raggiunto i massimi gradi nella campagne coloniali. Scompariva anche il generale Pietro Maletti, che nel 1937, in Etiopia, aveva massacrato duemila monaci e diaconi della città conventuale di Debrà Libanòs.


    Fallimento del fascismo

    Se le campagne coloniali non avevano certo aumentato il prestigio dell'esercito italiano, il bilancio economico si chiudeva in net-ta perdita. Fra i motivi che avevano spinto l'Italia a partecipare allo "scramble for Africa", c'era stato anche quello di dirottare la corrente emigratoria, che aveva sempre preferito le Americhe, verso le colonie che l'Italia si era aggiudicata in Africa. Nella sola Etiopia, Mussolini aveva ipotizzato di inviare due milioni di contadini senza terre, ma nel 1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale, i coloni insediati sulle migliori terre etiopiche erano soltanto 31mila. Anche nelle altre colonie, decisamente più povere dell'Etiopia, l'afflusso degli italiani era stato più che deludente. In settant'anni, di fronte a venti milioni di disperati che avevano scelto le Americhe, gli italiani che avevano optato per l'Africa erano appena 300mila.

    Per rendere più agevole il loro insediamento (non certo per mi-gliorare la sorte dei nativi), lo stato italiano aveva impegnato forti capitali nella realizzazione di alcuni progetti. Citiamo, ad esempio, i comprensori di bonifica lungo il Giuba e 1'Uebi Scebeli, in Somalia; quello di Tessenei in Eritrea; le decine di villaggi agricoli costruiti sul finire degli anni '30 in Tripolitania e in Cirenaica. Ma i maggiori investimenti Roma li realizzava in Etiopia.
    Per il solo sistema viario, vitale per incrementare i traffici e per spostare rapidamente le truppe, venivano importati dall'Italia 1.192.000 quintali di cemento, 72.600 quintali di ferro, 12.319 quintali di dinamite, il tutto gravato dai noli marittimi, dal pesante pedaggio del canale di Suez, dai prezzi proibitivi imposti dai "padroncini" per i trasporti su autocarro.

    Osservando, costernato, lo sperpero del denaro pubblico, il ministro degli Scambi e Valute Felice Guarneri scriveva: «Tutta l'economia dell'impero prosperava in un clima artificioso, che traeva alimento unicamente dalla trasfusione di beni e ricchezze che la madrepatria faceva con generosità da gran signora. Era mia profonda convinzione che noi non avremmo potuto durare a lungo nello sforzo». Si rischiava la bancarotta.

    Questo immenso sforzo, realizzato, fra l'altro, tutto a detrimento del Sud dell'Italia, i cui problemi, nel clima di esaltazione imperiale, venivano ignorati, non sarebbe servito a nulla. Con l'entrata in guerra dell'Italia, il 10 giugno 1940, l'Africa Orientale Italiana (Aoi) rimaneva isolata dalla madrepatria e risultava accerchiata da territori in gran parte amministrati dalla Gran Bretagna. La difesa dell'Aoi non sarebbe durata che diciassette mesi. Prima ad essere occupata dalle forze alleate era la Somalia, poi l'Eritrea (nonostante l'accanita resistenza a Cheren) e, per ultima, l'Etiopia. Il mattino del 28 novembre 1941 si arrendevano gli ultimi capisaldi di Ualag, Chercher, Celgà e Gorgorà, nella regione di Gondar. L'impero voluto da Mussolini non esisteva più.

    C'erano altri bilanci da stilare. Eravamo andati in Africa per portarvi la civiltà e il benessere, perché questo - si diceva all'epoca - era il "fardello" dell'uomo bianco. Ma, alla resa dei conti, non avevamo portato alcuno sviluppo. Avevamo soltanto adottato una politica di rapina, che consisteva nel riservare ai coloni italiani le migliori terre e nell'impedire la creazione di una classe dirigente africana proibendo ai nativi l'accesso agli studi.

    Nel 1950, ad esempio, quando l'Italia ritornava in Somalia con il mandato delle Nazioni Unite di condurla in dieci anni all'indipendenza, sul paese dei somali gravava ancora la più buia notte coloniale. I suoi primati erano tutti negativi. Il tasso di analfabetismo toccava il 99,40 per cento. Nessun somalo era riuscito a diplomarsi o a laurearsi. Su di una popolazione di 1.242.000 abitanti, soltanto 20mila vivevano in case in muratura, tutti gli altri in baracche, tende, tucul e arich. C'era un medico ogni 60mila anime e 1.254 postiletto nei dieci ospedaletti distribuiti su di un territorio vasto come una volta e mezza l'Italia.


    400mila morti

    C'era, infine, un ultimo e tragico bilancio da compiere. Qual era il costo della presenza italiana in Africa? Quante vittime avevano mietuto le guerre di conquista, le operazioni di grande polizia coloniale, le azioni di contro guerriglia, il lancio dei gas sulle popolazioni civili? Anche se, in questi casi, le stime sono sempre necessariamente approssimative, si può comunque sostenere che, fra il 1890 e il 1941, sono morti, a causa dell'espansionismo italiano, circa 400mila fra eritrei, somali, libici ed etiopici. Il paese maggiormente colpito è stato la Libia, con 100mila morti: questi ultimi sicuri, non "approssimativi", schedati uno per uno negli archivi del Libyan Studies Center di Tripoli.

    Il cinquanta per cento morti in combattimento, l'altro cinquanta durante la deportazione in massa delle popolazioni della Marmarica e del Gebel Akhdar e nei tredici campi di concentramento costruiti nell'inferno della Sirtica. Per dare un'idea della decimazione subìta dai libici ricordiamo che, all'epoca, la Libia contava 800 mila abitanti. Come a dire che un libico su otto ha perso la vita a causa della presenza ostile degli italiani.

    L'altro paese che ha pagato un prezzo altissimo nei tentativi di difendere la propria indipendenza è l'Etiopia di Hailé Selassiè. Anche se la cifra di 760mila morti, fornita alle Nazioni Unite dalle autorità etiopiche, appare decisamente eccessiva, quella di 300mila vittime non è molto lontana dalla realtà.

    A questa cifra si arriva sommando i caduti militari e civili durante il conflitto italoetiopico del 1935-36; i patrioti uccisi in combattimento o fucilati dopo un processo sommario nei cinque anni della guerriglia; i militari e civili (fra questi ultimi, moltissimi esponenti del clero copto) assassinati in seguito all'attentato a Graziani del 19 febbraio 1937; i confinati deceduti per privazioni ed epidemie nei lager di Danane e di Nocra; i contadini morti a causa dei patimenti subiti dopo la distruzione dei loro villaggi e il saccheggio dei loro beni.

    Per questi morti e per i danni causati dall'aggressione fascista, l'Etiopia chiese all'Italia un risarcimento di 184 milioni di sterline. Roma chiuse la partita con 6.250.000 sterline. Con altri paesi, come la Libia, fu ancora più avara.
    L'Italia poteva tornare in Africa, nel dopoguerra, per riparare i suoi torti e per rifarsi una reputazione. Invece non ha pagato i suoi debiti (o lo ha fatto in maniera insufficiente) e ha destinato male i suoi aiuti, usando una politica non giusta, non riparatrice, non lungimirante. Una politica spicciola, povera di fantasia e di vera solidarietà. Una politica che non ha il senso della storia, che non conserva la memoria del passato.


    http://www.nigrizia.it/doc.asp?ID=5284

    la via per il superamento di sé è la liberazione dalle aspirazioni mediocri

  2. #2
    Terza Via L'avatar di Zell '87
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    il Duce doveva puntare su colonie un po più ricche,ma con l'esercito a disposizione non avrebbe conquistato niente.in pratica il colonialismo italiano è stato un grave errore

  3. #3
    Bello e dannato L'avatar di El Gugliauser
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    Re: Bilancio del colonialismo Italiano

    Wiald

    Negativo anche il bilancio militare ed economico.

    Tante parole, ma quello che conta e' racchiuso in queste 7.

  4. #4
    (un po' meno) cattivo L'avatar di L33T
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    Ricordiamo per correttezza due personaggi non citati nell'articolo, anch'essi responsabili del colonialismo italiano: Crispi e Giolitti.
    Ricordiamo anche che l'Inghilterra -- quell'inghilterra che spingeva all'interno della Società delle nazioni per difendere le vittime della violenza italiana -- aveva nel Kipling di "The White Man's burden" ("Il fardello dell'uomo bianco" - http://www.fordham.edu/halsall/mod/Kipling.html) uno dei suoi ideologi.
    Ricordiamo che se l'Italia si ridusse a Libia e Etiopia è perchè i cugini francesi ripagarono la nostra rispettosa attesa del loro consenso per invadere la Tunisia attaccandola per primi, nel tentativo di allargare il loro già vasto impero.
    Aggiungendo che anche Germania e Usa non stavano proprio fermi, e aggiungendo che dal punto di vista dei metodi tutti questi paesi non si comportarono meglio dell'Italia, il quadro storico sarà abbastanza completo per condannare -- con fermezza ma senza eccessi d'enfasi -- la nostra politica internazionale.
    Ultima modifica di L33T; 27-02-2004 alle 19:31:18
    Es ist nichts schrecklicher als eine tätige Unwissenheit.

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