King Arthur: Il potere della Spada – Recensione

Il cinema sta attraversando un pericoloso momento di appiattimento tematico ed emotivo, e film come King Arthur sono la dimostrazione di come la fabbrica dei sogni stia inseguendo altri settori dell’entertainment, su tutti, videogiochi e serie TV, per rimanere rilevante. La domanda è: ci sta riuscendo? Vediamolo insieme.

Ero entrato in sala per vedere King Arthur con le migliori aspettative, da fan della cinematografia sopra le righe e caciarona di Guy Ritchie, che ancora una volta torna con le tematiche a lui più care, raccontandoci la vicenda di quella che è fondamentalmente la vita di un disadattato in una Londra ostile, decadente e corrotta. Suona familiare? Be’, lo è. La cosa curiosa è che quel disadattato risponde al nome di Re Artù.

[quotesx]La genesi di Re Artù è la genesi di Batman[/quotesx]King Arthur attinge a piene mani dal ciclo arturiano, raccontandoci la non semplice ascesa al potere dell’iconico sovrano di Inghilterra. Che per l’occasione è un personaggio che si discosta molto dalla simbologia alla quale siamo abituati. L’Artù di Guy Ritchie è grosso, barbuto e molto arrabbiato. Un personaggio carismatico, con la battuta sempre pronta ma anche una tendenza a far parlare i muscoli (e la spada). A livello di sceneggiatura abbiamo un tipico viaggio dell’eroe, anzi, del supereroe. Eh già, perché Christopher Nolan ha fatto scuola, e la genesi di Re Artù è praticamente la genesi di Batman, con tanto di viaggio iniziatico in mezzo a un luogo ostile e visioni psicologiche di un bestione armato di ascia che sembra essere uscito da un dipinto di Frank Frazetta. Se da una parte ho gradito il tentativo di dare spessore a un personaggio apparentemente impenetrabile come Artù, dall’altra trovo piuttosto insopportabile il trend recente di Hollywood di trasformare ogni vicenda in una storia di origini di nolaniana memoria, arrivando finanche a emularne fotografia, colonna sonora e atmosfera. E sì che mi sarebbe davvero piaciuto appassionarmi a questo film, il cui protagonista, cresciuto in un bordello, è un amabile underdog nei confronti del quale non possiamo che empatizzare. Anche perché ogni eroe non potrebbe vivere senza la sua nemesi, ed è qui che entra in scena il vero mattatore del film, Jude Law, che reduce dal papa giovane di Sorrentino si è calato nel ruolo dell’altrettanto ieratico Vortigern, un uomo disposto a perdere tutto pur di alimentare la sua brama di potere. La performance di Jude Law è semplicemente magnetica, il ritratto di un uomo corrotto dalla volontà di potenza, e la prova dell’attore è talmente buona da far dimenticare che in fondo abbiamo a che fare con il solito supervillain da cinecomic (chi ha detto Loki?).

[quotedx]I cavalieri sono una banda di sfigati[/quotedx]È un vero peccato che Ritchie si sia piegato alle logiche vuote di contenuto del cinema d’oggi giorno, perché le sue scelte migliori sono quelle che vanno controtendenza, come l’idea di inserire l’ironia all’interno di un contesto che abbiamo sempre visto come altero e serioso, come il ciclo arturiano. Artù e i suoi cavalieri non sono le figure nobiliari dell’immaginario con cui siamo, ma piuttosto una banda di sfigati, che il più delle volte contrasta il potere usando mezzi non convenzionali e quasi da guerriglia. È una destrutturazione molto interessante del canone arturiano, che punta a ricondurre in fondo alle storie di bande di criminali dalle quali Guy Ritchie è palesemente ossessionato. E quando Ritchie fa Ritchie, abbiamo i momenti migliori del film, come i montaggi anacronistici, con i personaggi che prevedono gli eventi mentre sullo sfondo la scena si manifesta di fronte agli occhi dello spettatore; e ancora, i movimenti di camera vorticosi, la colonna sonora anacronistica (con tanto di momento di brividino prima della resa dei conti finali che non fa mai male).

Il problema è quando invece Ritchie paga tributo alla moda del cinefumetto e dei cinematic universe, con tanto di scena finale che sembra strizzare l’occhio alla fondazione degli Avengers. Alcuni combattimenti sono davvero spettacolari, ma la sensazione di assistere a un costoso videogioco è davvero palpabile, anche perché gli artisti visivi del gioco hanno saccheggiato a piene mani l’immaginario di giochi come Dark Souls e Bloodborne. Forse ci siamo un po’ troppo assuefatti a un certo cinema di genere, fatto sta che è davvero difficile emozionarsi di fronte a visioni e scelte registiche che abbiamo visto fin troppo volte e che sembrano ormai diventate uno standard.

L’idea è di vedere un film realizzato con un certo cinismo da parte della produzione, realizzato a tavolino per replicare al cinema l’esperienza di kolossal delle serie TV come Il trono di spade, non riuscendo tuttavia a replicarne la profondità e la caratterizzazione dei personaggi (o almeno, quella che veniva esplorata nelle prime stagioni della serie HBO). Questo non vuol dire affatto che il film non si lasci vedere, ma tra un inseguimento, un incantesimo e un duello all’arma bianca si sente davvero la difficoltà di capire cosa effettivamente porti di nuovo questo film, rispetto a un qualunque Hobbit o Signore degli Anelli. La “Guy Ritchie way” sarebbe stata sicuramente la chiave per proporci un universo fantasy diverso, e se in minima parte l’obiettivo può dirsi riuscito, la maggior parte del film non ha purtroppo alcuna inventiva o voglia di sperimentare. Un vero peccato.