Nove Lune e Mezza – Recensione

Lune, maternità e due donne protagoniste, una delle quali anche regista esordiente, Michela Andreozzi. Nove lune e mezza è una storia per le donne che però al femminismo lancia solo un’occhiata leggera e ironica. Ben fatto, mi dico. È solo che… Partiamo dall’inizio: Tina (Michela Andreozzi) è una donna ordinaria, timida vigilessa urbana che desidera ardentemente avere figli, ma che non riesce a causa di un fibroma; sua sorella Livia (Claudia Gerini) è una violoncellista che non conosce spartiti perché va ad orecchio e che vuol farsi chiudere le tube, perché – forse per egoismo, dice lei – non sente alcun bisogno di maternità. Al centro, tra le due, il ginecologo Nicola (un bravissimo Stefano Fresi) che propone a Livia di portare nel suo grembo il figlio di Tina e di Gianni (Pasquale Petrolo). Quest’ultimo, infatti, non ci pensa neanche ad adottarlo: ne vuole uno biologicamente suo, un purosangue (c aspirata) calabbrese. Ma sarà una missione segreta: in Italia la maternità surrogata è ancora illegale, perciò Livia dovrà nascondere la gravidanza e Tina dovrà fingerla e bisognerà trovare un ospedale in cui la burocrazia non sia pervenuta. Le scene comiche efficaci ci sono, ma non mancano i goffi scivoloni.

I personaggi maschili sono spesso macchiettistici, primo tra tutti il fratello neocatecumenale (Alessandro Tiberi) a cui il padre (Nello Mascia) – vecchio comunista che usava Marx come ninna nanna – a un certo punto dice: “[Potevi essere] Non ti dico comunista, ma almeno un 5 stelle?” Mezza sala rideva, ma non per le ragioni auspicate.

Il compagno di Livia (Giorgio Pasotti) è un guru vegetariano convinto che non esista alcuna differenza di ricchezza di sapori tra piatti vegetariani e onnivori e che beve solo centrifughe di finocchio e sedano, salvo cambiare totalmente idea in un attimo per una disperazione solo apparentemente giustificata. Ad essere più credibili sono Nicola e il suo compagno Manfredi (Massimiliano Vado) che hanno due figlie, litigano, ma tutto sommato sono complici e il modo di gestirsi la coppia risulta molto più naturale di quello delle altre coppie. Il nodo drammatico sulla scena rimane, forse, la maternità, ma permea una vaga sensazione che questo film voglia dire tanto altro, forse indagare sul nesso tra illegalità e immoralità?! Questi “forse” sono la ragione per cui non possiamo dire che Nove lune e mezza sia del tutto convincente e voglio dirlo con una  lettera aperta.

Cara Andreozzi, finalmente un film impegnato e non borioso, in cui la finezza dell’esperienza femminile riesce a imporsi senza risultare ostile, dimostrando che si possa mostrarla nella sua natura più spontanea, ma…sei sicura di non aver messo troppa carne al fuoco?

Ci chiedi se una donna che non ha figli sia davvero una donna a metà, com’è finita la questione della maternità surrogata, se davvero le coppie omosessuali non siano pronte ad adottare bambini (o se non lo siano i single), cosa voglia dire essere davvero indipendenti e non solo strafottenti, se siamo davvero capaci di “avere orecchio” anche quando dobbiamo ascoltare e perché l’adozione sia ancora così macchinosa in Italia. Sono interrogativi importanti che, in Nove lune e mezza, hanno la virtù di essere espresse con una forte ironia, tipo: “ma se non è lecito che un ostetrico sia omosessuale perché rifiuta la vagina, tutte le ostetriche sono lesbiche?”

Ringraziandoti per aver comunque spiegato cosa sia veramente questa naturale inclinazione alla maternità per le donne, ti chiedo solo: è possibile che abbia tenuto la bocca chiusa per troppo tempo e adesso abbia voluto concentrare tutto in un solo film? O magari questa sensazione è il risultato di una sceneggiatura a più mani? O forse è solo che una donna che voglia fare commedia deve imparare a controllare la propria feconda capacità intellettuale: l’inclinazione alla genitorialità spassionata, insomma.