The Evil Within – Recensione

16 ore e 76 morti. Questo è il conteggio finale della mia esperienza con The Evil Within, due numeri che nascondono le numerose sfaccettature di un progetto pieno di potenziale, frutto della mente deviata di Shinji Mikami. Il creatore della saga di Resident Evil (sempre quel Male nel titolo, quasi fosse un soggetto ricorrente) non è certo uno che ama rispettare le regole e le conformità a cui spesso il mondo videoludico tende ad allinearsi. Quando diede vita al quarto capitolo della serie zombesca di Capcom, ne riscrisse letteralmente le regole. Un survival con elementi action che ad alcuni parve un’eresia, ma che tutt’oggi viene considerato come un titolo di riferimento, dal quale è anche germogliato quel capolavoro di Dead Space.

Nel frattempo la sua lunga carriera è stata costellata di produzioni sempre più particolari, come il bizzarro Shadows of the Damned, realizzato in tandem con un altro malato di mente (in senso positivo…), il mitico Suda 51. Ma a Mikami era rimasto in testa il pallino di tirare fuori un survival horror vecchia scuola, uno di quelli capaci d’inquietare costantemente il giocatore e di proiettarlo in un Inferno in terra senza se e senza ma. Con questa idea, quattro anni fa circa, ha fondato la Tango Gameworks, che sarebbe poi diventata la branca asiatica di ZeniMax. Un publisher che di certo non pone grossi limiti in quanto a creatività, con una certa propensione a titoli dove violenza e temi decisamente adulti non mancano (vedi Wolfenstein: The New Order).
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1, 2, 3, l’Uomo Nero è qui per te

Da quel progetto inizialmente annunciato con il nome di Zwei è nato poi The Evil Within, una produzione che fin dai primi trailer si è presentata nelle vesti di un horror senza compromessi, agghiacciante quanto disturbante nella sua crudissima rappresentazione del dolore fisico e mentale. Un lungo viaggio nella follia, che vedrà protagonista un tormentato detective, Sebastian Castellanos, le cui vicende passate hanno segnato inevitabilmente la sua condotta. Giunto al Beacon Mental Hospital insieme a due colleghi, il più che determinato Joseph Oda e la giovane recluta Juli Kidman, si ritroverà immediatamente a lottare per la propria vita, mentre l’intera città sembra crollare su se stessa. Una sequenza che da lì a poco lo porterà a risvegliarsi ai confini di uno strano villaggio, abitato da creature che di umano hanno ormai ben poco.

In queste situazioni Mikami gioca ad autocitarsi, proponendo una scena che è un chiaro omaggio al primo incontro con gli zombie di Resident Evil. Anche gli abitanti del luogo paiono avere un debito con i celebri Ganado, e il fatto che a un certo punto salti fuori anche un tizio con una sega elettrica in mano non fa che chiudere il cerchio. Queste prime fasi mettono immediatamente in luce pregi e difetti di un gameplay assai rigido, che non lascia spazio a troppa improvvisazione. Sebastian è dotato di un armamentario al limite del ridicolo, potendo disporre giusto di un coltello e un revolver con quattro proiettili in croce. Attaccare a viso aperto gli Spiritati (così sono chiamati i nemici del gioco) è altamente sconsigliabile, e l’approccio stealth finisce per prendere rapidamente il sopravvento, se non altro per una mera questione di sopravvivenza. Un occhio socchiuso al centro dello schermo indica la presenza di un ostile nelle vicinanze, da aggirare e colpire alle spalle. Non sempre però le cose sono così semplici, e una volta che si viene scoperti non esistono che due alternative: tentare un’improba fuga o attaccare il nemico, consci del rischio di attirarne altri e/o finire le munizioni sul più bello. Mirare alla testa è sempre consigliabile, ma anche sparare alle gambe può rallentare o stendere gli avversari, da bruciare poi con un bel fiammifero, giusto per evitare che si rialzino.

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It’s a trap!

[quotedx]nel caso si resti a secco di colpi, le speranze di cavarsela sono minime[/quotedx]
Non aspettatevi grandi tattiche di combattimento: nel caso si resti a secco di colpi, le speranze di cavarsela sono minime, per non dire nulle. Per fortuna, poco alla volta, il nostro arsenale si amplierà tramite gli immancabili fucili a pompa e con ottica di precisione, affiancati dall’efficace balestra Agonia (un nome, un programma). Quest’ultima permette una piccolissima meccanica di crafting, che consiste nella raccolta di materiale da trasformare poi in frecce dalle differenti caratteristiche (esplosive, criogeniche, stordenti, etc.). Sarà quindi d’uopo smontare le trappole, specialmente le bombe di prossimità, anche perché il più delle volte sono in grado di ucciderci con una singola esplosione. Ma non mancano neppure tagliole, mine in grado di avvolgerci in spire di filo spinato e tante altre amabili invenzioni che hanno il solo scopo di portarci dritti dritti all’altro mondo.

Sebastian poi non è un campione di agilità. Ogni colpo subito falcia enormi fette di energia, e nel caso scenda sotto una certa quota lo vedrete zoppicare e trascinarsi miseramente. Ha inoltre meno fiato di un tabagista novantenne, tanto che bastano pochi secondi di corsa per vederlo arrancare, fino al punto di non riuscire più a muoversi. Ed è solo una delle tante cattiverie di The Evil Within, che non di rado si dimostra oltremodo punitivo. In particolare tutte, ma proprio tutte, le sequenze con i boss sono solo calci nei denti (per non dire di peggio). Si muore a profusione, mentre l’abominio di fronte a noi sembra totalmente insensibile ai nostri attacchi, per quanto potenti possano sembrare. Il tutto spesso in aree ristrette, claustrofobiche, che non lasciano adito a troppi tentennamenti. E non mancano neppure nemici insensibili alle armi normali (come la maledettissima capellona!), che obbligano a indovinare il da farsi, sfruttando alcuni elementi presenti nel livello.

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Moonlight sonata

I picchi di difficoltà sono finanche eccessivi, e se siete giocatori di primo pelo o poco avvezzi al genere, è facile sentirsi davvero scoraggiati. Occorre una gran pazienza per venirne a capo, anche perché non sempre i checkpoint sono collocati nelle vicinanze, e lo stesso dicasi per le stanze di salvataggio. Questi luoghi, caratterizzati dalle note del Claire de Lune di Debussy, non hanno però solo tale funzione. Oltre a trasportarci in quel che sembra un ospedale psichiatrico, permettono di potenziarci attraverso uno strana sedia che ha tutta l’aria di uno strumento di tortura. Qui Sebastian può intervenire su quattro campi differenti, che vanno dalle armi ai miglioramenti fisici, tutti suddivisi in più livelli, con gli upgrade legati una strana brodaglia verde. Quest’ultima si trova in giro sotto forma di contenitori di vetro, se non rilasciata da qualche nemico, ma in ogni caso sempre e comunque in quantità limitata. Non aspettatevi quindi di arrivare alla fine del gioco armati fino ai denti: bisognerà concentrarsi su alcune delle caratteristiche principali, lasciando da parte tutto il resto. Anche se dover fare avanti e indietro in questo non-luogo potrebbe sembrare una forzatura, il fatto che di tanto in tanto vi siano inseriti elementi legati alla narrazione conferisce al tutto una dimensione più interessante.

Sono altre le magagne di The Evil Within, a partire da una storia che purtroppo non sembra decollare mai. Anche se di carne al fuoco (nel senso letterale) ve ne è fin troppa, il legame fra i vari comprimari, compreso il villain stesso, appare il più delle volte eccessivamente macchinoso, inutilmente complicato e più di tutto narrato maluccio. Solo guardando la descrizione dei singoli personaggi, una volta terminato il gioco, si dipana un po’ della nebbia che avvolge il delirante copione scritto da Mikami. Non che sia una novità per gli standard giapponesi, ma vista l’estrema “occidentalità” di quest’opera, forse sarebbe stato più saggio evitare di frammentare così tanto gli eventi, asciugando alcuni temi e cercando di sconvolgere il giocatore con qualcosa di più sottile dell’ennesima orrenda creature deforme.

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[quotesx]Dove fallisce miseramente The Evil Within è sotto il profilo della mera paura[/quotesx]
Dove fallisce miseramente The Evil Within è sotto il profilo della mera paura: ci sono giusto un paio di momenti che vi faranno trasalire per mezzo secondo, ma quel che davvero manca è una sensazione di pura angoscia stile Alien Isolation. Per quanto ci si ritrovi a muoversi fra corpi straziati, sangue a ettolitri e marchingegni da Inquisizione, l’unica vera preoccupazione arriva dalle trappole, che per assurdo sono forse il nemico peggiore del gioco. Forse anni di film come Hostel e Saw ci hanno anestetizzati, rendendoci insensibili a un certo tipo di violenza, anche se Dead Space è sempre lì a dimostrarci il contrario.

30 frame per me posson bastare (?)

Più in generale, è tutta la produzione a soffrire di alti e bassi. A momenti interessanti e visivamente potenti se ne oppongo altri assai più scialbi e privi di mordente, una caratteristica che coinvolge specialmente il comparto grafico. Ancora una volta si conferma il difficile rapporto degli sviluppatori giapponesi con le tecnologie moderne: l’id Tech 5, scelto da Tango Gameworks, è un motore nato con l’idea specifica di garantire un gameplay a 60 fps anche su macchine non particolarmente potenti. Lo abbiamo visto all’opera in Rage e in Wolfenstein: The New Order, ma in The Evil Within qualcosa deve essere andato storto. Mikami ha più volte ribadito che il suo gioco avrebbe girato a 30 fps per una mera questione di estetica cinematografica, a tal punto che sono presenti persino le barre nere tipiche dei film in Blu-ray, con l’immagine in formato 2.35:1.

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Una scelta simile a quella operata da Ready at Dawn per il suo The Order: 1886, ma con il quale non condivide certo la stessa qualità grafica. Anche se gli ambienti presentano non di rado un buon livello di dettaglio, lo stesso non si può dire della modellazione dei nemici più comuni, che sembrano usciti da un titolo della scorsa generazione. Nonostante quanto esposto, i famigerati 30 fotogrammi faticano a concretizzarsi (per la cronaca, abbiamo testato la versione PS4), con l’engine in costante affanno, specie nelle sezioni all’aperto, che sono fra l’altro le prime che si incontrano. Va meglio al chiuso, ma la fluidità costante non è una delle prerogative di questa produzione. Permangono inoltre i soliti problemi di texture streaming dell’id Tech 5, visibili specialmente nelle scene d’intermezzo.

The Evil Within è insomma figlio di numerose contraddizioni: da un lato vorrebbe essere un vero survival horror, ma dall’altro risulta incapace di proporre idee nuove e cade un po’ nella trappola del “vorrei ma non posso”. Sembra un Resident Evil 4 in chiave ultra-gore, ma gli manca quel qualcosa che gli permetterebbe di fare un autentico salto di qualità. Mikami ha cincischiato un po’ troppo con la sua creatura, che parimenti a quelle presenti nel gioco, appare come un essere sgraziato e un po’ troppo fuori di testa.