Tra Death Stranding ed Arrival, la fusione dei medium di Kojima

I materiali legati alle creature estranee subiscono un trattamento dualistico in entrambe le opere, servendo sia come danno che come collegamento.

Fin dai primi momenti in cui Death Stranding è stato rivelato, l’intento di fondere il cinema con il videogioco è stato più che palese da parte di Hideo Kojima. Gli amanti di Metal Gear annuirebbero sicuramente, forti dell’esperienza videoludica derivante dall’immaginario cinematografico occidentale riportato nella saga più famosa del maestro, con una dovizia meticolosa di particolari e riferimenti ai cult.

Il cast stellare della misteriosa nuova creatura della mente di Kojima era il primo indizio di quella che poi sarebbe diventata la genesi di un titolo tripla A che mira ad imitare le produzioni Hollywoodiane, specialmente nelle loro particolari concezioni creative. Osando sempre di più, lo sviluppatore orientale si è finalmente lasciato sfuggire dalle avide mani un trailer lungo e corposo, con delle vere e proprie scene in-game in grado di far sussultare i cuori e le menti di tutti quelli che l’hanno visto.

Sicuramente tale effetto è dovuto alla natura criptica della produzione, che paradossalmente si rende più chiara nell’ultimo video, considerato da molti come il più celante e misterioso. Eppure, in mezzo alla melma nera e ai grigi scenari pieni di simil-orrori Lovecraftiani, c’è molto di cui poter parlare, tenendo sempre saldo il riferimento al mondo cinematografico degli ultimi anni. Questo perché, come dice Hideo Kojima stesso, il sacro corpo del mentore è composto dal 70% di puri film.

Il trailer dei The Game Awards si apre poco dopo quello che sembrerebbe un incidente stradale, al quale Norman Reedus è miracolosamente sopravvissuto. In questa scena, sembra di star assistendo alla classica situazione di terrore palpabile in produzioni come Alien e Prometheus, dove il gruppo di astronauti esploratori viene in contatto con l’entità antica o aliena in un momento critico della missione. In effetti, con il filone di Ridley Scott ci sono diverse somiglianze, tra cui lo stesso fluido nero che finisce per essere la causa della morte di uno dei pochi rimasti insieme a Reedus. In realtà, perfino le tute dei personaggi si rifanno un po’ al tema dello spazio, cosa che è stata confermata da Kojima fin dai vecchi trailer grazie a diversi riferimenti creativi a opere come 2001: Odissea nello Spazio ed Interstellar. In ciò che è stato mostrato ai The Game Awards, la sensazione apparente di essere al di fuori dei confini della Terra è più che evidente in termini estetici, soprattutto grazie all’incipit della voce narrante che ci porta indietro fino alla genesi del Big Bang.

Ed è proprio la grande influenza dei fenomeni cosmici e misteriosi sull’uomo ad essere il fulcro centrale di questo trailer, nel quale Norman Reedus è solamente un testimone al pari del giocatore che sta assistendo al tutto. Impossibile dunque non notare i numerosi ed evidenti riferimenti alle space-opera lungo tutto il trailer. Tuttavia, una tra tutte le fonti d’ispirazione è la più dominante per via delle enormi coincidenze artistiche con il futuro gioco di Kojima Productions, ovvero il “recente” Arrival.

Oltre ad essere una delle pellicole più intriganti degli scorsi Oscar, è stata particolarmente apprezzata da Kojima stesso, tanto da andarla a vedere diverse volte ed esaltarne la colonna sonora pubblicamente sui social. Chi ha visto il film potrà notare facilmente diversi riferimenti alla produzione di Denis Villeneuve, ma ciò che vogliamo sottolineare è proprio il perché sono importanti tali richiami ad Arrival e ad altre perle della cinematografia “spaziale”.

In primis, vediamo l’inserimento della oscura dimensione dell’ignoto. Questo è uno stratagemma molto usato in produzioni come Arrival proprio perché attira lo spettatore, giocando sulla paura dello sconosciuto insita negli istinti umani. Tale terrore viene sapientemente usato dallo sviluppatore nell’obiettivo di creare qualcosa di concreto che dia la sensazione di essere un serio pericolo plausibile per chi tiene in mano il pad. Tuttavia, nonostante alcuni sguardi fugaci in direzione dei giganteschi orrori che sovrastano lo scenario del trailer, lo spettatore/giocatore si ritrova ad averne sì timore, ma anche a subire una sorta di attrazione verso di essi a causa della naturale curiosità verso qualcosa che non si comprende.

La scena alla fine del trailer, con Norma Reedus che osserva le cinque figure volanti, ricorda molto le panoramiche sugli oggetti alieni di Arrival

Sia in Arrival che in Death Stranding, la nebbia è il mezzo con cui le creature vengono celate alla vista nella loro interezza, rese manifeste in maniera frammentaria appositamente per non far calare l’interesse e le emozioni di chi sta osservando, proprio come avviene anche in Cloverfield ed altre produzioni dove la minaccia non è mai chiara, a differenza dei danni che causa a cose o persone. A questo punto, in una situazione dove non si conosce bene l’origine di ciò che ci si para davanti, la simbologia diviene l’unico appiglio che si ha verso questi esseri; il solo modo per poterne capire le varie caratteristiche di base cercando nel modello di mondo comune della nostra esperienza. Mentre in Arrival vediamo l’utilizzo di linguaggi inventati, estranei fino a quando non vengono tradotti dall’équipe di scienziati protagonisti del film, in Death Stranding vengono usate mani, corde ed altri aspetti che riconducono alla cultura della nostra razza per dare quel pizzico di raziocinio all’esistenza dei mostri. Un espediente simile è utile per fornire quella piccola parvenza di plausibilità che serve a reggere le colonne logiche di tutte quelle situazioni al limite dell’impossibile che si vedono nel filmato. Volare per aria o finire in un oceano fittizio senza alcuna ragione saranno conseguenze più accettabili se vengono inclusi riferimenti ad oggetti che tutti conoscono.

Anche questo, è un aspetto molto importante in Arrival, dove la comunicazione degli alieni, per quanto strana, segue effettivamente dei pattern linguistici umani; così come il fatto che vengono percepiti da un canarino e che esteticamente ricordano delle mani. Proprio le creature extra dimensionali di entrambe le produzioni sono il punto di contatto più vicino tra i due lavori, in quanto condividono lo stesso principio di design ispirato alle fattezze dell’uomo distorte in qualcosa di diverso, enorme, parto solamente di visioni da incubo che mai potrebbero avverarsi nella realtà. Eppure, in tali abomini è necessario utilizzare caratteristiche umane al fine di rispecchiare quella natura pericolosa che è insita in ogni uomo di cui molti filosofi hanno parlato fin dai tempi dei Greci. Un indizio che, accoppiato al trailer con Del Toro e alle “esplosioni” della voce narrante, valida quel filone che potrebbe indicare un eventuale guerra nucleare avvenuta in precedenza e che ha cambiato permanentemente il mondo di Death Stranding. Nonostante sia una teoria valida, non spiegherebbe tutte quelle cose al limite dell’onirico che si intravedono tra i banchi di nebbia.

Se si cercasse di seguire quel poco di principio logico dietro i fenomeni inspiegabili in questa produzione, si potrebbe dire che tutto può essere ridotto ad una semplice illusione mentale (e qui strizziamo un occhio a The Phantom Pain), e forse per alcune particolari istanze, come il mare che appare all’improvviso, lo è effettivamente. Il labile confine tra ciò che è vero e ciò che è un’illusione ha creato alcune delle opere più iconiche del panorama cinematografico, come Matrix, ed ovviamente anche Arrival sfrutta sapientemente questo nodo filosofico utilizzando le visioni del futuro per creare una trama parallela che giustifica le azioni della protagonista. Una meccanica che potrebbe essere utilizzata anche da Hideo Kojima stesso in questa produzione, e che sappiamo non ha esitato ad usare fin dal famoso Time Paradox di Metal Gear Solid 3. Quindi, “Il tempo è distorto” anche nella dimensione di Death Stranding? Stando a quanto ha dichiarato recentemente il maestro, sembra proprio così, considerando che il mare del trailer è una schermata di Game Over esplorabile.

Arrivati fin qui, bisogna chiedersi quale sia il vero punto focale di Death Stranding, di cosa è fatta la colonna portante che tiene insieme il comparto narrativo. Tenendo sempre a mente il film di Villenueve, possiamo affermare che nella pellicola il filo rosso della trama è retto proprio da come la razza umana ha deciso di confrontarsi con gli alieni. Né gli scienziati né le creature rappresentano il centro dell’opera, piuttosto creano un apparato volto a mettere in primo piano le relazioni tra le due parti, facendo riflettere lo spettatore sulla condotta di entrambe. La stessa cosa accade, in maniera anche più marcata, in Shin Godzilla di Hideaki Anno (ed anche in Evangelion, specie nei Rebuild), opera esaltata più volte dal padre di Metal Gear sempre sul profilo Twitter. Kojima, non a caso, ha esplicitato l’utilizzo di questa strategia attraverso il tema della Corda tratto dallo scritto La Corda ed il Bastone di Jinzo Abe, che vediamo continuamente riproposto in ogni trailer. La corda, in questa particolare filosofia, è utilizzata per tenere le cose preziose salde a noi, contrariamente all’utilizzo del bastone, che allontana i mali. Tenendo a mente questa definizione fornita dal developer stesso e sottolineata come cruciale, è piuttosto sorprendente vedere che le enormi minacce provenienti dalla nebbia tengano in mano delle grandi corde nere, come ad essere delle catene.

I materiali legati alle creature estranee subiscono un trattamento dualistico in entrambe le opere, servendo sia come danno che come collegamento.

Eppure, se fossero un simbolo di oppressione sarebbe strana la centralità del tema delle “connessioni” in favore dei personaggi, che addirittura fanno parte di una compagnia chiamata “Ponti”. Tutto questo è accentuato anche dal gameplay attraverso il rapporto che si ha con il bambino nella capsula, forse il più importante collegamento che accenna anche ai concetti dello storico film di Kubrick e, se vogliamo riprendere il simbolismo delle opere di Anno, agli Umbilical Cable di Neon Genesis Evangelion. Questi fili tessono la correlazione tra le parti, palesando l’interdipendenza tra ciò che uccide e ciò che viene ucciso. Oltre alle connessioni narrative e dei medium, vediamo dunque anche il loro inserimento in termini di puro e semplice gameplay, elemento che rimane comunque essenziale per definire questa esperienza come ludica.

Hideo Kojima sta prendendo un rischio enorme con Death Stranding, proprio per via della fusione tra le moltissime tecniche e idee sia del mondo videoludico che di quello cinematografico. L’esperienza di questa nuova IP è rivoluzionaria già solo nella semplice esecuzione di quella che è l’ambientazione vera e propria, sapientemente costruita da una persona che è stata in grado di sfruttare a piene mani alcune delle produzioni più coraggiose del panorama moderno fin dai tempi di Metal Gear. Tale scommessa potrebbe riscrivere l’accezione culturale ed artistica del videogioco grazie alla fusione di due mondi dai confini via sempre più labili a seconda dell’aumento delle facoltà tecnologiche dell’industria. Il genio sta nell’essere così coraggiosi da distruggere tali linee di demarcazione per creare qualcosa di nuovo, stupefacente, che sembra appartenere perfettamente ad entrambi i medium d’intrattenimento ma che si distacca completamente da uno e dall’altro. La sfida è stata accettata e creata da Kojima e, se queste sono le premesse, potremo assistere ad un vero e proprio Big Bang della narrativa videoludica, plasmandola in un nuovo modo di comunicare l’arte visiva.