PlayerUnknown’s Battlegrounds – Recensione

Perverso. Un gioco maledettamente perverso. Perché non contano  i frame, almeno su console, ma conta il concetto. C’è una filosofia quasi pornografica a sorreggere l’intera struttura di gioco di PlayerUnknown’s Battlegrounds. Ed è pure ostentata, quasi fosse una sfida. Eh sì, lo è per davvero. Su un’isola sperduta chissà dove, in quella parte di globo che un tempo ospitava l’URSS, si cerca la vita. Si trova la morte.

PlayerUnknown's Battlegrounds

DELLA VITA, DELLA MORTE

Prima di essere un videogioco di successo, PUBG è un fenomeno di massa. Milioni di copie vendute su PC, milioni di vincitori. Miliardi di perdenti, sconfitti. Di morti sul campo di battaglia. Nella fattispecie, un’isola deserta, sperduta da qualche parte in quel territorio enorme chiamato ex Unione Sovietica. “Ti spiezzo in due” diventa, così, “io ti uccido”. Ci sono 100 possibili killer che accompagnano le nostre avventure, ogni nostra avventura. Il concetto di “Battle Royale” diventa, così, il concetto della vita stessa. Sopravvivere è la parola d’ordine. Ogni nuovo inizio è nella lobby, un miscuglio di fotogrammi perduti e di aspettative prima di salire su un anonimo aereo. Quindi, il lancio e l’atterraggio, equipaggiati di paracadute e disarmati, verso un punto qualsiasi dell’enorme mappa di gioco. Enorme per davvero. Un’estensione di oltre 10 chilometri quadrati dove i giocatori, un massimo di 100 nella modalità in “solitaria”, vengono paracadutati. Scelto un punto della mappa, ci si ritrova, una volta a terra, con l’inventario vuoto. La prima cosa da fare è, quindi, cercare armi, risorse e protezioni, proceduralmente ricreate all’interno degli edifici disabitati. Quindi, a intervalli regolari, la stessa mappa si “restringe”, un poco alla volta, costringendo la carica dei 100 a convergere in una determinata zona, anche questa casuale. Questo vuol dire che gli scontri, mano a mano, diventano sempre più frequenti, quasi obbligatori, come obbligatorio è l’incedere del giocatore, magari nascosto a strisciare tra l’erba alta di un campo incolto, oppure chiamato dai bombardamenti in atto nella “zona rossa” a correre a perdifiato alla ricerca di un punto tranquillo dove attendere momenti migliori. In alto, sulla destra, vi è l’unico riferimento che in Playerunknown’s Battlegrounds conta davvero. Il contatore dei “vivi” scende, inesorabilmente, con il trascorrere del tempo. L’obiettivo è restare in vita, fino alla fine, Perché in PUBG è solo uno a vincere. Gli altri 99 perdono tutti.

UNO SU 100 CE LA FA

La filosofia dietro al concetto stesso di Battle Royale diventa, in questo caso, il contesto dove si sviluppa il level design del titolo, ricco di variabili. Ogni partita è, per forza di cose, diversa. Non cambia mai l’obiettivo, quello di restare in vita, ma muta sempre il modus operandi, scandito dal caso e, anche, dall’abilità. Sarà sempre il caso, infatti, a determinare quali armi e quale attrezzatura sarà possibile trovare all’interno di un’abitazione o di una struttura. Sarà l’abilità, specie quella dell’improvvisazione sul campo, a determinare la durata della vita di ogni singolo giocatore. Potenzialmente, il gruppetto di 100 disperati presenti nell’area di gioco sono tutti assassini. Sono tutte prede. Ogni match poggia le sue fortune su questo dualismo, provocando tensione infinita e rendendo ogni passo prezioso, proprio come preziosa è la gestione delle risorse.

Difficile dire se ci sia davvero un approccio preferibile ad un altro. Vero è, piuttosto, che ogni partita e ogni situazione impreziosiscono la capacità del singolo di prendere le giuste decisioni in base allo svolgimento del match.  Restare coperti è sempre un obbligo morale, ma lo è, anche, dedicarsi all’esplorazione a caccia delle armi migliori, dei componenti più letali, ad esempio un mirino olografico, per avere la meglio in un eventuale scontro. Di più: l’impossibilità di “livellare” il proprio alter ego,il cui sviluppo è relegato agli aspetti estetici, mette sempre tutti sullo stesso piano. Ad ogni morte, che può arrivare dopo pochi secondi o dopo una buona mezzora, si ricomincia da capo. Magari, con un maglione più bello, ma sempre da capo. Un’idea di base che coccola, pure, il giocatore occasionale e segna un confine netto con altre produzioni multiplayer. A fare la differenza, anche, è la capacità di saper ascoltare ogni passo e ogni sparo, anche quello avvertito a chilometri di distanza. O, magari, la mera capacità di sparare colpi precisi e letali.  In tal senso, all’utente è relegata la scelta, l’ennesima, della visuale di gioco. La terza persona consente di avere una visione più ampia e, quindi, di scorgere il nemico prima che il nemico di individui. Con la pressione del dorsale sinistro si passa, in un attimo, alla modalità in prima persona, sicuramente preferibile durante la guida dei veicoli e lo shooting. Il gunplay rifugge concessioni arcade per sposare, invece, dinamiche più realistiche minate, purtroppo, da un input lag piuttosto marcato, alle volte insopportabile, specie nei menu. Non è questo, purtroppo, l’unico problema.

Playerunknow’s Battlegrounds

PAURA E DELIRIO A SINGHOZZI

Mentre l’utenza PC attende, a giorni, la pubblicazione della versione completa, con una nuova mappa e una lunga serie di migliorie, su Xbox One il gioco arriva in early access inoltrato. Una sorta di diamante grezzo per un codice ben lontano da un’ottimizzazione ideale. A dirla tutta, sono così tante le carenze tecniche che, specie su console “liscia”, quasi si fatica a credere di aver speso 39 euro per una roba del genere. La necessità ludica di assicurare una draw distance quanto più estesa possibile, cozza con il frame rate ballerino, incapace di raggiungere il target dei 30fps e, in linea di massima, una minima stabilità. Nell’ubriacante sali e scendi di fotogrammi non aiutano i diffusi fenomeni di pop up, stutter, pop in e, più in generale, qualsiasi difetto o glitch grafico conosciuto. Al netto di una CPU poco performante, almeno per questo tipo di giochi, è impossibile nascondere la sensazione di essere stati risucchiati in una sorta di beta testing a pagamento. Oppure, se si preferisce, in un primo assaggio di quello che, un giorno diventerà un grande gioco. Per ora, l’opera di Bluehole resta un fenomeno pornoludico, che fa leva sulla paura primordiale di ogni giocatore. Ovvero, essere uccisi prima di poter uccidere. Non c’è nulla di più spaventoso. Neppure, nulla di più perverso.