Uncharted: The Nathan Drake Collection – Recensione

Ogni volta che si parla di remastered c’è una vera e propria spaccatura, fra chi ne vorrebbe sempre di nuove e chi invece proprio non le sopporta. La critica più comune è sempre la stessa: ma perché non fanno giochi nuovi? Già, facili a dirsi, molto più complicato a farsi; ma poi, diciamoci la verità, non è che sfornare un titolo nuovo di zecca sia indice di qualità e fantasia produttiva. Fra seguiti che ormai faticano sempre più a distinguersi l’uno dall’altro di anno in anno, produzioni dall’iter produttivo totalmente catastrofico e continui quanto improbi rinvii, c’è da chiedersi seriamente cosa ci sia poi di così sbagliato a voler prendere un “usato sicuro”, restaurarlo e riproporlo sul mercato. In fondo è un procedimento che coinvolge un’infinita serie di branche, dalle automobili ai mobili d’epoca, quindi trovo quasi sempre fuori luogo il pressante biasimo verso questo genere di iniziative. Ho scritto “quasi” non a caso, perché se da un lato esistono titoli meritevoli di una nuova vita, tanti altri invece sarebbe molto meglio se rimanessero sepolti nei cassetti dei ricordi. Troppe volte abbiamo infatti assistito a delle conversione a dir poco raffazzonate, come l’agghiacciante Silent Hill HD Collection o il recente porting dei due Prototype, di cui non fra l’altro nessuno sentiva veramente il bisogno.

RIMASTERIZZARE NON È ROBA PER NIUBBI

Fare le remastered insomma non è un lavoro semplice come taluni vorrebbero farci credere. Pensare di portare del codice di vecchia generazione sulle console current-gen semplicemente ricompilando il tutto e sperando che un interruttore magico permetta di ottenere risultati mirabolanti è pura fantascienza e chi dice il contrario non ha neanche l’idea di come funzioni un architettura hardware di qualsiasi genere. In particolare ottenere risultati eccellenti, magari puntando ai 60 fps e migliorando tutta una serie di aspetti visivi, è roba da alchimisti del codice e non a caso sono pochi oggi quei team in grado di garantire simili performance. Uno di questi è la BluePoint Games, un team texano che negli ultimi anni ha settato un vero e proprio standard di qualità in campo di conversioni e adattamenti: a partire dalla prima leggendaria God of War Collection, considerata la madre di tutte le remastered, hanno in seguito mostrato il loro immenso talento occupandosi degli adattamenti di ICO, Shadow of the Colossus, Metal Gear Solid 2 e 3 su PS3, Titanfall su Xbox 360 e Flower su PS4.

Un curriculum di eccellenza assoluta, tanto che non meraviglia affatto che Sony e in particolare i Naughty Dog, considerati i maghi della programmazione, abbiano deciso di affidargli la conversione di non uno, ma ben tre giochi, ovvero tutta la trilogia di Uncharted. Compito davvero infame considerando che stiamo parlando di una serie che si è sempre contraddistinta per l’eccellenza grafica, riuscendo a spremere quel mostro di PS3 come pochi altri sono riusciti a fare. Questo significa che stiamo parlando di tre giochi, in particolare il secondo e il terzo, disegnati intorno a pregi e difetti della console di Ken Kutaragi, di fatto una delle macchine più complicate e infami mai messe in mano agli sviluppatori. Leggenda vuole che pure fra i Naughty Dog, durante il travagliato sviluppo del primo Uncharted, non mancarono le defezioni, con il team messo a durissima prova dal Cell e dalla sua apparentemente incomprensibile gestione. Eppure, una volta domata la bestia, i risultati si sono visti e hanno lasciato il segno. Perché questa saga non solo rimane uno degli showcase grafici più impressionanti della scorsa generazione, ma ha anche alzato l’asticella degli action adventure, andando a coprire il vuoto lasciato per lungo tempo da Tomb Raider.

SIC PARVIS MAGNA

“Da umili origini verso grandi imprese”. I Naughty Dog sembrano quasi aver preso alla lettere le parole di Francis Drake, le stesse incise sull’anello che il protagonista porta al collo per tutto il corso (o quasi) delle sue avventure. Perché se il primo Uncharted dimostrò che c’era vita oltre Jak and Daxter, i diretti seguiti fecero compiere un balzo enorme in avanti all’intero comparto videoludico e non è un caso che Il Covo dei Ladri sia a oggi uno dei giochi con più Game of the Year Award della storia, superato solo The Last of Us, tanto per rimanere in famiglia. Cosa ha reso così speciali questi titoli è presto detto: a un gameplay tutto sommato familiare, che univa diversi concept più o meno noti, i ragazzi di Santa Monica aggiunsero il fattore hollywoodiano, introducendo tutta una serie di sequenze a dir poco spettacolari, degne di un film d’azione ad altissimo budget. In pratica diedero vita a una sorta di Indiana Jones riletto in chiave moderna, infilando il buon Nathan in tutta una serie di situazioni assolutamente improbabili quanto coinvolgenti.

Chi, del resto, non ha mai sognato almeno una volta di inseguire un misterioso tesoro fino ai confini del mondo, scoprendo magari civiltà apparentemente legate solo al mito? Con questa trilogia, a cui presto si affiancherà un quarto e conclusivo capitolo, abbiamo praticamente visitato mezzo pianeta: dalle foreste del Sud America alla ricerca di El Dorado, passando per le gelide distese himalaiane, custodi della città perduta di Shambhala, fino a carambolare nel deserto delle penisola araba, nel tentativo di scovare l’Iram dei Pilastri. Un viaggio strepitoso, fatto di scoperte sensazionali, un sacco di scalate e non poche sparatorie. Il tutto assistendo alla maturazione del personaggio, che pur rimanendo sempre nei panni di simpatica canaglia dalla battuta sempre pronta, si è trovato costretto ad affrontare nemici via via più spietati, incrociando nel contempo il proprio destino con quello di due fanciulle molto determinate, Elena Fisher e Chloe Frazer. E come dimenticare l’immarcescibile Victor Sullivan, sorta di figura paterna che ha tolto Drake dalla strada e lo ho cresciuto nel rispetto e nell’onore… dei ladri ovviamente.

THE MASTER OF REMASTERED

Generalmente a questo punto della recensione bisognerebbe mettere in luce tutti i miglioramenti tecnici apportati nella nuova edizione, perché di base nessuno si mette a ritoccare il gameplay, anche perché molto probabilmente la cosa farebbe infuriare tanto i giocatori quanto gli sviluppatori originali. Eppure BluePoint non si è voluta limitare al compitino, che tanto compitino non era fra l’altro, ma ha deciso di fare un passo in più andando a ritoccare uno degli aspetti più criticati della serie, ovvero il sistema di puntamento durante i combattimenti. E visto che per molti il migliore in assoluto rimane quello implementato nel secondo capitolo, perché non estenderlo tanto al primo quanto al terzo? Detto, fatto, con i dovuti distinguo ovviamente. Per esempio in Drake’s Fortune non si possono lanciare le granate nella direzione in cui si mira (ma almeno non si è più obbligati a utilizzare i sensori di movimento del pad) come nei due seguiti e nelle sequenze corpo a corpo ogni gioco fa storia a sé, ma rimane comunque lodevole lo sforzo operato in tal senso. Il risultato è un gameplay più solido e appagante, che permette di affrontare gli scontri a fuoco con maggiore serenità. Ovviamente anche il layout è stato rivisto, con i tasti L2 e R2 dedicati a mirare e sparare, seppur risulti possibile switchare su L1 e R1 per quei folli che ne sentissero la mancanza. In termini di configurazione è anche possibile modificare la sensibilità, invertire i movimenti della telecamera e persino scambiare i comandi degli stick analogici.[quotedx]potremo decidere se attivare o meno il motion blur[/quotedx]Le opzioni ovviamente non si fermano qua e coinvolgo anche il comparto video e audio. Nel primo caso potremo decidere se attivare o meno il motion blur e se riservarlo ai soli personaggi o a tutta la scena. Una scelta molto intelligente, visto che non a tutti l’effetto di sfocatura di movimento piace, oltre al fatto che personalmente la trovo un po’ inutile quando il frame rate è così elevato, ma come si dice in questi casi, de gustibus… La sezione audio farà inoltre gola a tutti i possessori di impianti home theater, che potranno non solo godere di un supporto multicanale fino a 7.1, ma avranno anche la possibilità di determinare l’angolazione delle casse, per ottenere il miglior risultato possibile. Una cosa è certa, Uncharted non ha mai suonato meglio di così, sfoggiando una riproduzione assolutamente cristallina quanto potente, con i bassi pronti a sottolineare ogni esplosione e il canale centrale in grado di restituire i dialoghi alla perfezione, senza mai affogarli in mezzo al resto dei suoni. Un lavoro superbo che la dice lunga sulla cura certosina che è stata riservata a questa remastered.


Ma ovviamente tutto questo contorno sarebbe inutile se non ci trovassimo al cospetto di una conversione con i controfiocchi. Manco a dirlo ancora una volta i BluePoint hanno colpito nel segno, portando a termine un lavoro di restauro a dir poco mastodontico sotto ogni singolo aspetto. Il primo Uncharted in particolare è stato notevolmente migliorato in termini grafici, in modo da non farlo sfigurare eccessivamente rispetto ai due seguiti, ben più sofisticati sotto molteplici aspetti. Troviamo quindi location più dettagliate, un numero incrementato di poligoni, vegetazione più fitta ed effetti grafici più convincenti (soprattutto per la resa dell’acqua). Gli stessi personaggi sono stati aggiornati per “pareggiarli” con le versioni presenti nel secondo e terzo capitolo, anche nelle scene d’intermezzo. Queste in particolare meritano un discorso a parte, poiché sono state completamente ri-renderizzate non solo in 1080p nativi (quindi senza affidarsi al solito upscaling), ma anche a 60 fps! Fino a oggi solo i Naughty Dog avevano osato tanto, arrivando a riempire quasi fino all’orlo un BD da 50 GB per la remaster di The Last of Us. Come abbiano fatto i BluePoint a farci stare tre giochi interi in un solo disco è davvero inspiegabile, miracoli della compressione moderna suppongo, sebbene non si noti alcun tipo di artificio in tal senso, tanto da far pensare che si tratti di sequenze in realtime (ma così non è, come hanno confermato gli sviluppatori).

A livello tecnico insomma c’è da alzarsi in piedi e spellarsi le mani in un applauso da almeno 45 minuti. Tutti e tre gli Uncharted sono stati rifiniti in ogni aspetto, con texture ad alta risoluzione, una gestione della luce più precisa e coerente, ombre più dettagliate, riflessi più realistici, nonché un antialias di qualità, in grado di minimizzare gran parte delle scalettature. Ottimo anche il perfezionamento della profondità di campo (il cosiddetto DoF) e dell’illuminazione globale, il tutto, è bene ribadirlo come un mantra, nello splendore dei 1080p a 60 frame al secondo, una fluidità che tutti e tre i titoli mantengono costante in ogni situazione. Giusto ne L’inganno di Drake ho notato qualche lieve fenomeno di stuttering nei momenti più concitati con numerosi NPC a video, ma dato che la recensione è stata fatta su una versione del gioco priva di day one patch, non è detto che questi lievissimi difetti non possano essere corretti in tempo per l’uscita nei negozi. Ultimo dettaglio, ma non certo in termini di importanza, il photo mode, che attraverso tutta una serie di modifiche alla focale, posizionamenti di camera, filtri, cornici e via discorrendo, permetterà a tutti i ludo-fotografi di darsi alla pazza gioia, tirando fuori scatti assolutamente fenomenali. Cosa si può desiderare più di così?