"L'ho visto, l'ho visto: era tutto di latta, galgal"
Il principe Tancredi, nella scena in cui, disperato, si rivolge alla madre di Kallstrom, Senzavita Vodolini.
Il buio: i fotogrammi si susseguono, eppure l'immagine non muta, sorda. E pure cieca.
Come cristallizzare, all'interno dell'incessante scorrere del tempo, l'istantanea percezione dell'eterno? Questa deve essere stata la domanda che Regginaldjames Musumeci s'è posto, regalmente assiso sul cesso, meditando di produrre il suo ennesimo capolavoro- un vero e proprio suggello alla sua gloriosa carriera.
Il buio: ecco la risposta con la quale il geniale regista ha saziato il suo dubbio, immediatamente dopo aver tirato l'acqua, osservando rapito le sue feci inghiottite da un crudele gorgo.
Così prendono vita le intricate vicende di "Kallstrom III: la mamma che gli amichetti ad perì più genitivo". Un film che deve molto alle scorie del suo eccentrico autore: un film di merda.
Buio, dicevamo.
D'un tratto compare una lucina rossa che, lampeggiando ad intermittenza, spezza la tangibile sensazione d'atemporalità, riconducendo lo spettatore, ormai inabissatosi fra le acque dell'estasi, ad una dimensione reale, e dunque fittizia.
Dall'omogenea certezza delle tenebre, si precipita bruscamente nella quotidiana illusione del tempo: Musumeci ci prende tutti a schiaffi ( a me carezze, però ), mostrandoci l'inconciliabile contrapporsi di chiaroveggenza e vita.
Innanzi alla concretezza della più totale oscurità, si possono far strada nello spettatore angoscia, pace, paura, smarrimento, un pennarello carioca viola, mai usato, eppure scarico: sensazioni estremamente diverse fra di loro, eppure accomunate tutte da una peculiarità capitale: esse, infatti, affondano le radici nelle salde terre d'un'inamovibile certezza.
Chi, terrorizzato dall'opprimente morsa del buio, scorge nel flebile lume vermiglio la speranza di poter gettare nuovamente uno sguardo al mondo, subirà presto una terribile delusione.
Viceversa, coloro che naufragano placidamente nell'unitario mare dell'ombra, guarderanno alla spia rossa come ad un tetro presagio dell'ineluttabile incedere delle illusioni: esse busseranno alle porte della saggezza, pronte ad onnubilare gli animi che, fra le tenebre, avevano finalmente trovato modo di mirare la propria luce; d'illuminarsi, e non d'essere illuminati.
I sinistri prodromi dell'imminente tragedia non tradiscono le più meste aspettative: la luce torna a violentare lo spazio, originando il tempo, e strappando lo spettatore alla quiete della rassegnazione, piuttosto che all'amniotico stagno delle sue ansie.
Torotomeo l'orsetto fa la sua improvvisa comparsa, accompagnato dallo stupore di Tutkang, il protagonista, che trasale.
La terrificante sagoma del pupazzetto si staglia, terribile, nell'improvviso oceano di luce che prorompe sulla scena.
Innanzi ad un ritorno tanto improvviso alle comuni illusioni, dopo aver per qualche attimo assaporato il dolce fiele del Vacuo, non si può che stramazzare a terra, stremati, come lo sfinito Kallstrom.
Interpreti della caduta, precipiteremo esanimi; increduli osservatori, sussulteremo assieme allo sconvolto Tutkang. Cucciolo dell'inverosimile, stendardo di sevizie terrene, Tortomeo è un coccolino blu, non ce ne dimentichiamo.