Un rancido odore di urina misto ad altre torbidezze bastò a destare T. dal poco puro e agitato sonno. Non dovette realizzare che quel fetore era un suo prodotto, essendo l'unica anima ospite del tugurio.
Ogni mattina le chiazze di piscio e il tanfo dei suoi umori gli davano il buongiorno. Era diventato un essere mesto ed abietto (o forse lo era sempre stato), sopravviveva a se stesso per inerzia, senza prospettive né ricordi. Non intratteneva alcuna relazione, il contatto con gli estranei gli incrementava la nausea vitale. Le parole gli sembravano volgari fronzoli, e ogni suo pensiero non era altro che la proiezione astratta dei suoi sentimenti logori e putrefatti. In quelle quattro mura strette e fetide i giorni passavano uguali senza che li si contasse... o meglio, le ore erano uguali e i minuti stessi: un succedersi di vacui pensieri, un crogiolarsi nel nulla, l'alternarsi della veglia e del sonno confondendo l'uno e l'altro, senza spasimi e senza speranze. I raggi solari, le voci e i fruscii ventosi che dall'esterno penetravano nel suo infimo mondo non gli interessavano: riusciva a non percepirli senza sforzarsi.
Un'esistenza come un'altra quella di T. Un'anima già morta in un corpo dall'apparenza viva, l'arrancare di un essere incapace di desiderare la morte stessa. L'analogo di un vegetale o di una suppellettile. L'inutilità della sua sussistenza lo avevo reso un'ombra cieca, opaca e sorda.
Non era che un criceto in gabbia a cui ormai più nessuno era interessato.