Che almeno la Giustizia sappia
Giuliano Pisapia - l'Unità 24 luglio 2001
Piange disperato, nel carcere di Pavia, un giovane pacifista, che ha fatto il servizio civile perché si è sempre battuto contro ogni forma di violenza. Lavora il sabato e la domenica per potersi mantenere agli studi: è terrorizzato, la paura traspare dagli occhi, dalla voce, dal corpo. Aveva deciso di esserci, a Genova, per far sentire anche la sua voce, insieme a quella di tanti altri, per una società più giusta, più umana. Era seduto sulla scalinata della Casa dello Studente, lontano dagli scontri causati e voluti da poche centinaia di "tute nere": "Prima sono arrivati i neri e mi hanno picchiato con i bastoni. Grondavo sangue quando, dopo dieci minuti. sono arrivati i carabinieri e mi hanno riempito loro di manganellate. Buttato dentro un cellulare, preso a calci in tutte le parti del corpo, ammanettato. Poi., ancora, in caserma, mi hanno fatto sdraiare per terra, calpestato con gli anfibi, insultato".
Ma cosa c'entro - mi dice - con tutto questo! Perché la violenza contro i non violenti, mentre si lasciano indisturbati quei pochi che erano a Genova solo per distruggere tutto e tutti? Piange, non vede l'ora di parlare con un giudice per spiegare e, forse, anche per capire. Cerco, per quanto possibile, di rassicurarlo: spero anch'io - e forse è più di una speranza - che almeno la "giustizia" sappia, e soprattutto voglia distinguere tra i duecentomila che hanno sfilato perché credono in un mondo migliore e quella minoranza che voleva solo devastare la città per distruggere la speranza in un mondo diverso.
Non piange, ma è seduto terrorizzato sulla brandina spoglia della cella, un ragazzo giovanissimo che ispira solo tenerezza. La faccia è viola dalle manganellate, l'occhio destro è rosso di sangue. Era venuto a Genova per solidarietà con i migranti, aveva dormito in una tenda, poi si era diretto verso il punto di incontro del corteo. Lo riconosco. Davanti a Brignole aveva in mano solo i suoi documenti: gli vengono tolti, buttati per terra, calpestati. E così, dubito dopo - in un gioco perverso che fa paura - viene fermato perché "non è possibile l'identificazione".
Mi riconosce e mi racconta la sua giornata che si è poi trasformata in un incubo durato fino a notte tardi: viene ammanettato, portato dentro il cellulare, manganellato sui fianchi perché teneva le mani alzate. Dopo lo portano in caserma: lo costringono a fare tutto il corridoio in ginocchio, a testa bassa "perché non è un uomo, è un essere inferiore, anzi è una merda". Continua il racconto: in ginocchio per 45 minuti, insieme al altri venti. Ordinano di gridare viva il duce: non lo vuole fare, manganellate anche alla testa. Sulla fronte e sul collo ha i segni viola dei lividi. Alza la maglietta: i fianchi sono devastati dai calci e dai manganelli. Ma il dolore più forte, l'angoscia che gli rimarrà chissà per quanto, è quella di non capire perché hanno arrestato, picchiato, terrorizzato proprio, e soprattutto, i più pacifici, i più indifesi.
Sia nel carcere di Alessandria che in quello di Pavia gli arrestati sono in celle singole, non possono parlarsi, eppure le loro versioni sono tutte eguali.
Passo ad un'altra sezione, e trovo un altro: un grosso cerotto in testa copra i setti punti di sutura di una ferita che provoca dolori lancinanti. E' giovanissimo. A voce bassa pieno di vergogna per averlo fatto e di umiliazione per esserci stato costretto, lui, antifascista, aveva sussurrato quella frase: "se ha detto viva il duce, allora vuol dire che sei un violento provocatore". E le manganellate gli arrivano sulla faccia e sulla schiena. Il suo corpo è un unico livido.
Ogni cella racchiude una storia di incubi e di violenze. C'è Fabrizio, un fruttivendolo di Genova: stava tornando al lavoro in motorino. Portava il casco, lo prevede la legge, e anche l'incasso della mattinata e il cellulare. Adesso è in galera: non ha più il cellulare, non ha più i soldi, ha solo i segni dei manganelli. Era solo un genovese che aveva scelto di non lasciare la città perché aveva bisogno di lavorare e non è l'unico arrestato mentre andava o tornava dal lavoro.
Queste sono storie, e solo alcune, da regime cileno, che ho sentito in carcere. Le loro parole trovavano conferma nei loro visi e nei loro corpi.
Era possibile fermare i violenti e, come si era impegnato a fare il Ministro Scajola in Parlamento, garantire sia il G8 che il diritto di manifestare pacificamente? Sì era possibile, se solo lo si fosse voluto. Dagli stessi cittadini di Genova erano stati segnalati fin da mercoledì e giovedì, i luoghi dove si erano accampate "le tute nere". Bastava circondare il loro "campo" e si poteva fermarli prima che mettessero a soqquadro la città. Venerdì, l'ho visto personalmente,quattrocento di questi - dopo aver distrutto negozi, bruciato cassonetti e macchine - si sono diretti verso il carcere di Marassi. Era possibile bloccarli tutti. Era possibile fermarli ed isolarli. Non è stato fatto: sono stati lasciati liberi di distruggere e devastare. Mentre, invece, i lacrimogeni e i manganelli venivano puntati, e usati, contro i presìdi pacifici.
Non so - ma uno stato di diritto ha il dovere di verificarlo - se tutto ciò è dovuto a incapacità o a scelta deliberata. O, come vi sono motivi per ritenere, in quanto ha prevalso la linea di chi - all'interno del Governo e della Forze dell'Ordine - voleva arrivare allo scontro col movimento pacifista nel tentativo di bloccare con la forza e con la violenza il dissenso. Il che significa che non è stato un "lapsus" quello del Ministro Scajola che, in Parlamento - dopo aver distinto, a parole, le piccole frange violente della stragrande maggioranza dei manifestanti - ha detto che il Governo avrebbe bloccato "con tutti i mezzi i gruppi antagonisti"? Ma antagonismo, signor Ministro, non equivale a violenza! Quei pochi parlamentari presenti a Genova, quegli avvocati, quegli osservatori, quei giornalisti che con coraggio hanno fatto il loro dovere per dare a tutti una corretta informazione, hanno permesso in numerose occasioni di salvaguardare l'incolumità di molti: ragazzi, donne, anziani. Se fossero stati di più, avrebbero potuto fare molto di più! Ecco perché, a Genova, era importante esserci. Era giusto, e politicamente doveroso per chi crede nei valori della pace, della giustizia, della solidarietà, essere accanto a quelle centinaia di migliaia di persone che volevano manifestare pacificamente per esprimere la loro protesta, per far sentire le loro proposte. I molti della sinistra istituzionale che non hanno voluto esserci, non hanno capito che quel popolo, che voleva essere gioioso e pacifico, era stato stretto in una micidiale tenaglia da parte di chi, nel governo e tra le forze dell'ordine, voleva scardinare, distruggere, sconfiggere, brutalizzare, impaurire ogni dissenso e creare le premesse per impedire la crescita di un movimento che intendeva solo mandare un messaggio che poteva essere recepito da tanti altri: a sinistra e oltre la sinistra. Forse è vero che in un momento di crisi degli ideali, anche le idee fanno paura.
Gli abusi sono stati enormi, le regole di uno stato democratico stracciate, i diritti calpestati. Ecco perché non è possibile assistere passivamente dicendo che nessuno deve rispondere di quanto avvenuto. Ogni abuso, ogni violazione dello stato di diritto è la premessa per un abuso successivo più grave e così via, fino alla catastrofe. La storia ce lo ha insegnato: alla difesa delle garanzie democratiche non si è mai abbastanza attenti. Ecco perché, a Genova, era giusto esserci. Su questo, credo, dovrebbe riflettere chi, potendolo fare, non ha avuto la forza e il coraggio di mostrare coi fatti la loro solidarietà a chi voleva manifestare pacificamente. A chi, ed era la stragrande maggioranza, voleva far sentire la voce anche di chi non ha voce per chiedere il rispetto del diritto alla vita; di chi soffre per la fame e la guerra; di chi non ha la possibilità di combattere la malattia e la miseria; di chi vede quotidianamente calpestato il proprio diritto alla vita e al rispetto dei fondamentali diritti dell'uomo.