Steso sul dolce declivio di una collina, al tramonto: in bocca un filo di erba, americano, virile, deus ex (sive) machina non gravato dagli esiti della sua prestazione. Questo almeno nelle fughe pindariche di quella notturna prigionia delle lenzuola. Avvinto, costretto alle coperte, ma mi sentivo pienamente libero perché seguivo la necessità. In un certo senso, mi dicevo, non si può scegliere di non essere liberi: di conseguenza, non si può scegliere, perché altrimenti si potrebbe scegliere di rinunciare a qualsiasi forma di libertà. Sono sempre stato contrario alla libertà, perché l'uomo libero, se fosse possibile essere liberi, non potrebbe fare a meno di riconoscere un valore ed un peso ad ogni sua azione, votandosi così alla responsabilità che è di per sé una limitazione liberticida.
Mi odiavo. Odiavo il mio modo così tremendamente retorico di descrivere e di forzare le descrizioni, odiavo la mia incapacità di inserire coordinate e subordinate nel momento e nel luogo che ritenessi più opportuno, e via di cancellazione, poi scrivere ancora nauseato, senza balugini ispiratrici, senza idee. Un vuoto pneumatico con due cosce elefantine, ributtante della persona e della personalità.
Il suicidio si addice alle persone importanti, alle persone libere, che poi non esistono e anche se esistessero non sarebbero libere o non sarebbero vive. Scontato, quindi, che non avessi mai neanche lontanamente pensato al suicidio, ritenendolo, con un certo orgoglio proposizionale, un escamotage letterario o la più degna conclusione delle sostanze pregne di significato. Cosa che io non ero, non potevo essere e non potevo volere essere.
Mi sentivo sottomesso anche alle mie funzioni corporali, non perché mi forzassero a compiere certe azioni, ma perché loro erano indubitabilmente più necessarie della mia percezione. Ero il custode sociopatico di un complesso industriale deserto e gestito da quel rigore insopportabile ed infallibile delle macchine: solo, inutile e potenzialmente dannoso per il funzionamento complessivo (ai fatti, l'unico con la libera facoltà di manomettere la produzione fordistica di chissà cosa, ma in un certo senso anche l'unico a percepirlo come un divieto: una inutile complessità del determinismo, o finalismo cieco).
Mentre scrivevo all'imperfetto, in quel modo orrendo e abusato in tutte le traduzioni italiane dei vari Sandro Perini e Floro Flores, provavo la distinta, gelida e deludente sensazione di sprecare del tempo non prezioso in una occupazione non preziosa che avrebbe prodotto dati non preziosi. Valeva la pena perdere del tempo, ma non se l'atto della perdita andava a rappresentare, in un curioso circolo vizioso, una delle poche modalità di impiego delle risorse. Se fossi stato importante o se avessi voluto aggiungere epicità ad un lavoro francamente privo di finalità immediate, avrei usato da qualche parte l'espressione "non c'era via di uscita".
Non me la sarei sentita per niente al mondo: non c'era via di uscita, sì, ma perché non ero mai entrato da nessuna parte. Immaginavo, sempre nella grottesca ricerca di una posizione idonea al sonno, di essere il paladino medievale degli esclusi: del terzo escluso, in particolare. In un altro mondo, sicuramente non il migliore dei possibili, sarei stato certamente un sovrano importantissimo, di quelli che prendono decisioni salomoniche e che passano agli annales come emblemi di saggezza e particolari discontinuità nella piattezza equorea dell' humana ratio: una di quelle increspature che ricevono incensamenti stratificati nel dispiegarsi della storia, fino a diventare proverbiali e quindi leggendarie e quindi inesistenti per i contemporanei. Ecco: una volta nel mondo dei migliori, sarei sicuramente apparso in sogno ad un mio discendente, o forse avrei prodotto un lungometraggio in cui la mia vita fosse stata affiancata a quella di un contemporaneo protagonista, ma poi faceva caldo e, con un certo fastidio, rimuovevo le lenzuola.
Ero sicuro di avere incrociato uno sguardo di una persona importante, una volta. Ne ero certissimo, perché me lo aveva assicurato il bagliore languido dei suoi occhi. A confermarlo, poi, il pallore e l'indifferenza quotidiana, quel suo partecipare di ogni cosa EPPURE contemporaneamente esserne estranea, come l'alieno più furbo. Non sarei stato in grado di trovare NEANCHE UNA situazione perfettissima per quella persona, un suo ideale declivio collinare con tanto di suzioni boccali dal vago sapore di campagna americana (o piscio di segugi toscani, a piacimento). Quante notti nel bollore delle premure familiari, ma perdevo sicuramente qualcosa. Anche solo il respiro della persona importante: sì, anche il suo respiro, valorizzato dal silenzio ossequioso della notte, non sarebbe stato adatto alla sua stanza. Perderselo! Che roba!