Enixa
Notte nebbiosa, tenebr(ic)osa notturna nebbia. Il trambusto del circo avrebbe tenuto sveglie anche le erbacce, se non avessi sparato più volte agli elefanti e ai trampolinisti — quanti Robin in potenza uccisi, quante vite immolate al "se". Una volta, a tredici anni, qualcuno mi portò in un negozio di giocoleria, mentre mio zio, imitando uno scimmione, si allontanava nelle fosche viuzze del centro di Venezia: per poi ricomparire, dal fitto fogliame di una quattro stagioni, in un impeto improvviso, come un orango urlante e bramoso di spaventare i suoi pargoli. Per educarli, terrorizzarli, catechizzarli: all'infinito. Fallì, perché la laguna intera gli si rovesciò sul gilet, ridacchiando, schernendolo, affondando le sue velleità zoologiche di interlocutore salomoniano. Cadde: non già nel paludoso mare veneto, ma nella cupa desolazione del gondoliere.
La figura del gondoliere mi ha sempre affascinato in modo particolare. Attore squattrinato e folkloristico, costretto più al sentimento romantico-comico che alla sguaiatezza del clown (escluso dunque dalla glorificazione delle letterature), compie il triplice sforzo di nocchiero-galeotto-istrione con passione inestinguibile ed un pizzico di avventatezza giovanile. Più gondolieri vanno a formare un "clan", più "clan" una "tribù", più "tribù", in ultima istanza, formano un gruppo di imbecilli che indossa inguardabili maglie a righe per passare il giorno a trainare, in un giro sempre uguale, orde di turisti compiaciuti dall'"esotico", dal "romantico", che il gondoliere non ha mai avuto modo di provare. Subisce, infatti, il destino degli "addetti ai lavori", incapaci di apprezzare l'oggetto che sono incaricati di curare e di mostrare agli estranei: che è un po' anche la condanna, per quanto meno estremizzata, dell'uomo insicuro. Trovarsi indiscutibilmente repellente.