Domani si vota in Grecia per l'elezione del parlamento
Un articolo che spiega la situazione politica della Grecia
Domenica 25 gennaio si tengono in Grecia le elezioni per il rinnovo del Parlamento. Si tratta di elezioni anticipate – come prevede la Costituzione – dopo che anche il terzo tentativo per eleggere il nuovo presidente della Repubblica era andato a vuoto e il 29 dicembre il Parlamento era stato sciolto. Finora, la maggioranza che aveva governato era composta da una coalizione tra Nea Dimokratia (il partito di centrodestra del primo ministro Antonis Samaras) e Pasok (il partito socialista del vicepremier Evangelos Venizelos).
I risultati rilevanti saranno sostanzialmente su due piani: il partito che vincerà le elezioni e la coalizione di governo che si riuscirà a formare. Sul primo punto si avranno notizie probabilmente già dalla tarda serata di domenica, sul secondo occorrerà invece aspettare un po’.
Il sistema elettorale
Il sistema elettorale della Grecia è proporzionale e il Parlamento ha una camera sola composta da 300 membri: è previsto un premio di maggioranza e una soglia di sbarramento fissata al 3 per cento calcolata per tutti i partiti a livello nazionale. La Grecia è suddivisa in 56 circoscrizioni. I membri del Parlamento sono eletti in base ai risultati elettorali dei rispettivi partiti politici in ogni circoscrizione. Al partito (non alla coalizione) che a livello nazionale raccoglie più voti viene assegnato un premio di maggioranza di 50 seggi, grazie al quale è possibile ottenere la maggioranza assoluta (151 seggi su 300) con una percentuale di voti che va dal 36 al 40 per cento.
Avere invece una maggioranza relativa inferiore non permette di governare: e il partito che dovesse vincere senza ottenerla sarebbe costretto a fare delle alleanze.
La formazione del governo
Se il primo partito otterrà la maggioranza assoluta dei seggi il suo leader avrà l’incarico di formare il nuovo governo. Se nessuno raggiungerà i 151 seggi, il leader del primo partito dovrà tentare di formare un governo di coalizione. Se il tentativo fallisce, l’incarico passerà al leader del partito arrivato al secondo posto e in caso di nuovo fallimento al leader del terzo. Se nessuno dovesse riuscire a formare una coalizione si dovrebbe tornare subito a nuove elezioni: è quello che è successo nel 2012, quando si votò sia a maggio che a giugno.
Il presidente della Repubblica
Tra le prime cose che il nuovo Parlamento dovrà fare c’è l’elezione del nuovo presidente della Repubblica: sarà necessaria la maggioranza del 60 per cento al primo voto, la maggioranza assoluta (151 su 300 seggi) al secondo voto, ed eventualmente un terzo voto di ballottaggio tra i due più votati all’elezione precedente.
I sondaggi
I voti saranno previdibilmente concentrati su due principali partiti: Syriza e Nea Dimokratia. Le altre formazioni politiche sono invece ai loro minimi storici e in base ai diversi sondaggi è incerto chi supererà la soglia di sbarramento. Dovrebbero farcela Alba Dorata (partito di estrema destra di recente formazione e ottimi risultati alle precedenti elezioni), il partito comunista greco (KKE), il nuovo partito To Potami e il Pasok. Più dubbia la situazione di altri partiti il cui risultato potrebbe essere però fondamentale per la formazione del nuovo governo. La distribuzione potenziale è comunque molto frammentata.
Un sondaggio condotto da Rass, mostra Syriza in vantaggio di 4,8 punti, un altro dice che la distanza da Nea Dimokratia è di 6,2 punti (molti altri sondaggi danno cifre intermedie). Se Syriza vincesse di 5 punti, la situazione in Parlamento sarebbe questa:
I comunisti del KKE avrebbero 16 seggi, Syriza 144, il Pasok (il partito socialista del vicepremier Evangelos Venizelos che ora fa parte della maggioranza al governo) 15, To Potami (la nuova formazione politica creata da un giornalista televisivo di successo e che raccoglie gli scontenti dei vecchi partiti tradizionali) 19, Nea Demokratia 80, ANEL (Greci indipendenti, il partito populista di destra contro l’austerità guidato da Panos Kamenos) 9 e Alba Dorata (il partito neofascista i cui leader sono in carcere in attesa di processo e da lì hanno condotto parte della campagna elettorale con vari collegamenti telefonici ai comizi) 17.
In questo sondaggio (diversamente da altri) il Movimento dei socialisti democratici di George Papandreou, nuovo progetto politico fondato dall’ex primo ministro socialista nato da una scissione del Pasok, è dato sotto la soglia di sbarramento e dunque non compare nell’ipotetico futuro Parlamento, ma secondo diversi analisti politici potrebbe guadagnare consensi.
Un altro sondaggio dice che il 71 per cento degli intervistati preferirebbe una coalizione di governo piuttosto che nuove elezioni, nel caso in cui nessuno dovesse raggiungere la maggioranza assoluta:
Cosa si sa sulle ipotetiche alleanze
Ipotizziamo che Syriza vinca, ma che non ottenga la maggioranza assoluta e debba cercare degli alleati. Una coalizione con i neonazisti di Alba Dorata è impossibile. Nonostante sulla carta sia meno incomprensibile, anche la collaborazione con i comunisti del KKE è considerata molto improbabile e da escludere (l’ha esclusa lo stesso KKE). Stavros Théodorakis, di To Potami, si è invece dichiarato favorevole a cooperare con un governo guidato da Syriza. E così potrebbe andare per i Greci indipendenti se dovessero superare la soglia.
Molto dipenderà da quanti voti otterranno (o meglio, si spartiranno) il Pasok di Evangelos Venizelos e il nuovo partito di Papandreou. Il Movimento dei socialisti democratici potrebbe superare la soglia di sbarramento prendendosi un pezzo degli elettori storici del Pasok e riuscendo ad eleggere dei deputati. Se questo avvenisse, le principali conseguenze sarebbero due: togliere voti al Pasok compromettendo a quel punto la sua entrata in Parlamento, trasformare Papandreou – e non più Venizelos – nel nuovo “ago della bilancia” della nuova coalizione guidata da Syriza. Dei due, il più propenso ad accettare un’alleanza con Tsipras è stato finora proprio Papandreou. Per Venizelos dipenderà dal risultato: potrebbe allearsi di nuovo con Nea Dimokratia oppure scegliere Syriza, opzione su cui l’attuale leader del Pasok si è dimostrato molto prudente.
Il favorito
Il partito favorito nei sondaggi è Syriza: è l’acronimo di Coalizione della sinistra radicale, è nato nel 2004 come unione di vari movimenti e partiti indipendenti di sinistra e si è costituito come partito unico nel 2012. La coalizione prima e il partito poi sono cresciuti soprattutto a partire dal 2008 quando venne eletto presidente Alexis Tsipras.
Tsipras è nato ad Atene il 28 luglio del 1974, quattro giorni dopo la caduta della dittatura dei Colonnelli, è sposato e ha due figli. Nel 2000 si è laureato in ingegneria presso l’Università di Atene, ha iniziato a fare politica alla fine degli anni Ottanta con il movimento dei Giovani comunisti greci. Durante l’università è diventato membro del sindacato degli studenti e dopo essersi allontanato dal partito comunista, nel 1999 è stato eletto segretario dell’area giovanile del partito della sinistra radicale, Synaspismós, diventandone nel 2008 il segretario generale: aveva 33 anni e divenne il più giovane leader politico della storia greca.
Nel frattempo, nel 2004, era stata formata la coalizione della sinistra radicale “Syriza” (Synaspismós Rizospastikís Aristerás) la cui lista più grande era rappresentata proprio da Synaspismós, ma al suo interno c’erano altri 9 diversi partiti più piccoli e tutti di sinistra radicale. Syriza partecipò alle sue prime elezioni legislative nel 2004 ottenendo il 3,26 per cento e poi nel 2009, ottenendo il 5,04 per cento dei voti. In quell’occasione Tsipras – che nel 2006 si era anche candidato a sindaco di Atene arrivando terzo – è stato eletto in Parlamento.
Nel maggio del 2012, alle elezioni per il rinnovo del parlamento greco, il movimento politico di Tsipras ha ottenuto il 16,78 per cento dei voti, aumentando moltissimo i suoi consensi a danno soprattutto del partito socialista, il Pasok. Il risultato aveva portato a uno stallo politico: diversi leader ricevettero dal capo di stato Papoulias l’incarico di formare un governo senza riuscirci, Tsipras compreso. Nelle nuove elezioni del 17 giugno 2012 Tsipras con il suo partito arrivò secondo con il 26,89 per cento dei voti, aumentando di nuovo i suoi consensi e diventando il principale leader dell’opposizione. Le elezioni furono vinte dal maggior partito di centrodestra Nuova Democrazia guidato da Antonis Samaras, che formò poi un governo di grande coalizione con il Pasok.
Alle elezioni europee dello scorso maggio Syriza aveva ottenuto il 26,7. Tsipras è diventato col tempo in Grecia il rappresentante delle critiche più severe alle politiche di austerità dell’Unione Europea, del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Centrale Europea, mostrandosi allo stesso tempo radicalmente diverso rispetto ad Alba Dorata e agli altri movimenti anti-europei populisti e di destra.
http://www.ilpost.it/2015/01/23/guid...ezioni-grecia/
Articolo del Post che spiega se uno stato puo uscire dall'Euro
Ed ecco gli argomenti di discussionehttp://www.ilpost.it/2015/01/22/come-uscire-euro/
Cosa dicono i trattati? E soprattutto, cosa non dicono?
Prima cosa da sapere: nei trattati europei è prevista la procedura di uscita di uno Stato dall’Unione Europea tout court ma non soltanto dall’euro.A naso, quindi, la risposta sarebbe: si può uscire dall’euro uscendo del tutto dall’Unione Europea. Ma le cose sono un po’ più complicate di così.
Il Trattato sull’Unione Europea, all’articolo 50, stabilisce che uno Stato che voglia uscire dall’UE possa notificare la sua decisione al Consiglio Europeo: si aprirebbe a quel punto una negoziazione dell’Unione sulle modalità del recesso, che dovrebbero essere approvate dal Parlamento Europeo; il Consiglio dovrebbe infine deliberare sull’accordo raggiunto a maggioranza qualificata e dall’entrata in vigore dell’accordo i Trattati smetterebbero di essere applicati nell’ordinamento dello Stato uscente. Nel caso in cui non si riuscisse a trovare un accordo, il recesso dall’UE si considererebbe comunque efficace due anni dopo la data della notifica al Consiglio Europeo (a meno che lo stato non cambi idea). Se un paese volesse uscire dall’Unione Europea per uscire dall’eurozona, dovrebbe mettere in conto quindi una fase di trattative piuttosto lunga, fino a due anni: e la totalità degli analisti – anche quelli favorevoli all’uscita dall’euro – concorda che una fase di negoziati così lunga avrebbe conseguenze disastrose sull’economia e sui mercati europei.
Sebbene la possibilità di abbandonare l’uso dell’euro senza uscire dall’UE non sia contemplata in modo esplicito dai trattati, né sia mai stata prevista una specifica procedura per metterla in pratica, non esiste nemmeno un ostacolo giuridico che impedisca a uno Stato di poterlo fare. La questione è piuttosto «complicata», ha spiegato nel 2011 il francese Jacques Attali, considerato uno dei fautori del Trattato di Maastricht: «Ci si è accuratamente dimenticati di scrivere l’articolo del trattato che permettesse l’uscita da Maastricht». Il punto è: se un paese dell’eurozona dovesse avere la volontà politica di uscire dall’euro, con una decisione presa in modo inequivocabile e definitivo, gli altri paesi non potrebbero impedirglielo. Non c’è una procedura? Andrebbe trovata in quel momento.
Ci sono tre strade possibili, perché un paese dica formalmente di avere la volontà politica di uscire dall’euro:
– un referendum, nei paesi in cui si possono fare referendum su questo tema (non in Italia, nonostante la proposta del Movimento 5 Stelle per la generica introduzione dei referendum consultivi);
– una revisione unilaterale di una parte dei Trattati (possibilità prevista dai Trattati stessi), decisa dal governo e dal Parlamento;
– un recesso secondo il diritto internazionale (l’articolo 62 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati prevede per esempio la cosiddetta norma “rebus sic stantibus”, per cui un cambiamento sostanziale rispetto alle circostanze in cui si è sottoscritto un trattato può portare alla possibilità di recesso da quello stesso trattato), anche questo deciso e votato da governo e Parlamento.
La risposta alla domanda iniziale è quindi: uscire dall’euro è tecnicamente (e giuridicamente) possibile, ma al momento non è previsto in modo esplicito. E questo non facilita la costruzione di un’eventuale volontà politica di farlo.
Ci sono dei precedenti?
No, per quanto riguarda l’eurozona. Molti, invece, se parliamo del cambio di valuta o dell’uscita da una moneta prima comune. Proprio mentre i paesi dell’UE ratificavano Maastricht, per esempio, la Cecoslovacchia decise di dividersi in Repubblica Ceca e Slovacchia, e i due paesi adottarono due monete nazionali differenti: la corona ceca e la corona slovacca (sostituita a sua volta dall’euro nel 2009). Un altro esempio è il Bangladesh, che dopo la separazione dal Pakistan adottò nel 1972 il taka bengalese al posto della rupia. Ci sono anche casi in cui le monete nazionali sono state cambiate: il Brasile (che è una federazione di ventisei stati più uno) nel luglio del 1994 sostituì il cruzeiro con il real.
Concretamente, come dovrebbe avvenire?
Lo studioso francese François Heisbourg – europeista, sostenitore del progetto federalista di un’unione europea e presidente del prestigioso International Institute for Strategic Studies (IISS), ma favorevole alla fine della moneta unica – ha scritto nel suo ultimo libro che «il piano di uscita dall’euro non sarebbe traumatico perché potrebbe essere attuato tecnicamente in un lungo weekend, a mercati chiusi». Questa tesi è condivisa da tutti, sia i favorevoli che i contrari: per uscire dall’euro senza gravi conseguenze bisognerebbe farlo con estrema velocità. Ma si può uscire dall’euro con estrema velocità, considerata la necessità di arrivare a una volontà politica precisa e individuare una procedura che al momento non c’è? Probabilmente no.
Economisti e studiosi contrari alla fine dell’euro sostengono infatti che i problemi comincerebbero non al momento dell’effettivo ritorno alla moneta nazionale, ma già al momento dell’annuncio dell’abbandono dell’euro, se non addirittura al momento di un potenziale annuncio: basti pensare che i mercati europei in questi giorni sono stati agitati non dalla vittoria di Syriza (che appunto si dice pro-euro) alle elezioni in Grecia o dalla fine dell’euro ma dal solo annuncio che la Grecia andrà a elezioni anticipate. I rischi per cui anche chi vuole uscire dall’euro insiste che andrebbe tutto fatto molto in fretta – fughe di capitali, prelievi di massa, collasso delle banche, tensioni varie, ricadute sull’economia globale – non si concretizzerebbero nel momento dell’uscita dall’euro bensì al momento della vittoria elettorale di un partito che vuole uscire dall’euro, o al momento della vittoria dei Sì all’eventuale referendum, o al momento del voto parlamentare sul recesso dal trattato di Maastricht. Oppure, più probabilmente, ancora prima.
Affinché i governi abbiano il tempo di stampare la nuova moneta e approntare la transizione, dovrebbero quindi controllare i movimenti di capitale e i viaggi in paesi esteri. Bisognerebbe fissare un tasso di cambio e soprattutto intavolare una trattativa con gli altri paesi dell’eurozona: i conti correnti andrebbero congelati fino alla loro conversione, perché altrimenti le banche sarebbero con ogni probabilità invase da correntisti desiderosi di estinguere i loro conti. Per poter operare la conversione dei salari e dei redditi nella nuova valuta, i governi dovrebbero inoltre approvare delle leggi specifiche (e averne il tempo), così come andrebbero ridenominati immediatamente anche i debiti. L’ipotesi di un’uscita, insomma, dovrebbe fare i conti con una fase di passaggio molto più lunga di un weekend, e durante la quale sarebbe irrealistico pensare di congelare i conti in banca, impedire i prelievi, i trasferimenti di capitale e i movimenti dei cittadini.
Una strada possibile?
Nel 2013 il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo che spiega una possibile soluzione ai problemi di cui sopra prendendo come esempio la Grecia, ma dicendo che potrebbe valere per qualsiasi altro paese. L’articolo è stato scritto da Ross H. McLeod, professore di economia dell’Australian National University. McLeod spiega che gli scenari catastrofici si basano su cose date per scontate, che hanno però delle alternative.
«Il punto centrale è fissare la quantità iniziale della nuova moneta da emettere, permettendo invece al mercato di stabilire il prezzo al quale viene cambiata. In questo contesto, la Banca centrale annuncia che è disposta ad acquistare euro dalle banche nazionali, dai cittadini greci o da chiunque altro, usando le dracme appena emesse. Tutte queste transazioni dovrebbero avvenire in uno specifico periodo di transizione e dovrebbero essere completamente volontarie. Non si dovrebbe insomma esercitare alcuna confisca.
Terminato il periodo di transizione, il governo greco dovrebbe usare solo dracme nelle sue transazioni finanziarie di tutti i giorni. Nessuno dovrà essere costretto a usare le dracme, ma coloro che vorranno fare transazioni con il governo ne avranno bisogno.
All’inizio del periodo di transizione, la Banca centrale annuncerà il tasso di cambio iniziale al quale le dracme verranno cambiate con gli euro, senza fare esplicitamente alcuna promessa su come il tasso di cambio evolverà in futuro. Il tasso iniziale può essere totalmente arbitrario, così come il nome della nuova moneta».
Questa ipotesi teorizza dunque la coesistenza temporanea di due monete, l’euro e la moneta nazionale. La Banca centrale greca offrirebbe a chi vuole di cambiare i propri euro in dracme, fissando però una quantità limite di dracme disponibili (McLeod ipotizza che possa corrispondere alla quantità di moneta circolante in Grecia per un periodo di tre anni). Le vendite per il primo giorno potrebbero essere molto probabilmente zero, ma pian piano il fatto che il governo paghi solo in dracme farebbe aumentare il prezzo di acquisto e porterebbe più persone a cambiare almeno parte dei loro euro. Durante la transizione il governo continuerebbe a pagare i suoi debiti in euro: sia quelli che ha contratto con la comunità internazionale e i mercati, sia quelli che ha con i suoi fornitori nel paese. Alla fine della fase di transizione il prezzo delle dracme risulterebbe fissato dal mercato: ci sarebbe anche una domanda significativa di nuove dracme e una quantità sufficiente di nuove dracme in circolazione. Conclude McLeod:«Una volta che ci saranno sufficienti dracme in circolazione, accanto allo “sportello della dracma” creato dalla Banca Centrale si formerebbe un mercato per scambiare dracme in euro e nel corso del tempo le dracme prenderebbero il sopravvento sull’euro. A quel punto, nel bene e nel male, la Grecia si troverebbe di nuovo nella condizione di avere una politica monetaria nuovamente indipendente».
Il problema di questo scenario è che se il prezzo delle dracme fosse fissato dal mercato – lo scopo di chi vuole lasciare l’euro è proprio permettere alla moneta di svalutarsi, così da rafforzare le esportazioni – alla fine della fiera l’ammontare del debito da ripagare non cambierebbe in meglio: sarebbe solo convertito in una valuta più debole. Inoltre, si tratta comunque un po’ di una rinegoziazione del debito: i detentori dei titoli di stato greci hanno comprato quei titoli sulla base di una promessa (ottenere dopo un tot di anni la cifra prestata più gli interessi, in euro) e quei soldi gli sarebbero restituiti in un’altra moneta, violando parzialmente quella promessa. Infine questa ipotesi dovrebbe trovare il consenso dell’eurozona: servirebbe quindi non solo la volontà politica della Grecia ma anche quello della Banca Centrale Europea.
1)Tsipras ha gia detto che se vincerà con la maggioranza assoluta non rispetterà i piani di Austerity stabiliti dalla Troika.Cosa potrebbe comportare questo???
2)Il ministro dell’Economia tedesco, Wolfang Schaeuble ha gia dichiarato che se la Grecia non rispetta gli accordi con la Troika,non potra accedere al QE della BCE.Cosa comporterebbe questa esclusione per l'economia greca??
3)Si mormora che la Grecia possa essere il primo paese ad uscire o essere sbattuta fuori dalla zona Euro.Quali conseguenze porterebbe un tale evento???