L'altro giorno stavo riflettendo sull'uomo.
Ragionando sono giunto a certe conclusioni e, siccome vorrei discuterne un po', le ho dato forma scritta.
La domanda di fondo che è presente un po' in tutto il discorso è "
Come l'uomo dovrebbe diventare UOMO?", ed appunto a questa ho tentato di dare una risposta.
Essenzialmente il discorso è suddiviso in due parti, le quali però sono comunque legate l'una all'altra, anche se non in maniera evidentissima
Ve le riporto di seguito:
[Parte 1]
Quando si capisce di essere di fronte ad un’illusione, non è vero che è automatico che questa venga eliminata: ci si può sempre, nuovamente, illudere di non essersi illusi.
Se si capisce quindi che quello in cui si crede non è la verità, ma altro, bisogna cercare di rinnovarsi, di giungere al vero, perché il mondo si comporta soltanto in conformità col "vero", con quella che viene chiamata “realtà”.
E’ evidente quindi che è questo il vero problema per il quale tendiamo a cercare spesso l’isolamento e la solitudine: ossia l’incomprensione. Ognuno di noi vorrebbe, per una tanto assurda quanto naturale volontà di dominio sull’assoluto, che il nostro io si affermasse su di ogni cosa, e che ogni cosa rispondesse al nostro io soltanto. Però così non può essere, perché ognuno possiede il proprio personalissimo vissuto, comprensibile da lui soltanto,
e il mondo gli è completamente dissimile in quanto frutto dell'intersezione di infiniti vissuti.
Da qui si giunge alla conclusione, visto che non possiamo essere solamente noi in definitiva a comandare la realtà, che si è costretti ad accettare la vita per quello che è, e scegliere, se possibile, il minore tra i due mali, tra il costruirci un mondo fatto a nostra misura pagando però il prezzo della totale solitudine, e il vivere nel mondo degli uomini, che non sarà mai esattamente come lo vogliamo e che non ci permetterà di vivere assolutamente come desideriamo.
Quindi, siccome l’uomo non è fatto per vivere solo, la scelta sarà in favore della società, di quel tanto odiato mostro che poi tanto mostro non è.
[Fine Parte 1]
[Parte 2]
Il caos è disgiuntivo, non permette di riutilizzare le proprie nozioni per costruire qualcosa, appunto per l’impossibilità a stabilire ordine che dia la possibilità di articolare un’analisi critica efficace ed efficiente.
Da questo importante presupposto bisogna quindi partire per costruirsi la propria
sintesi culturale - che è in definitiva la consapevolezza del nostro io conseguita sia attraverso l'introspezione della nostra persona, con le sue peculiarità ed i suoi gusti, sia attraverso l'analisi dei fattori esterni che hanno contribuito a farci diventare quello che siamo: uno su tutti il travaglio storico, e quindi anche culturale, dell'umanità intera.
E’ evidente però come oggi questa “sintesi” sia completamente assente.
Siamo un ridicolo collage di mille volti e di mille pensieri, ognuno dei quali è stato fatto proprio senza mai essere vagliato dal nostro io, del quale non prendiamo quindi coscienza. Evidente riprova di ciò è l’assenza di senso critico: e privi di questo insostituibile strumento “edile” non possiamo costruire le fondamenta della nostra identità, e siamo solamente in grado di accatastare il materiale che ogni giorni ci perviene, caoticamente ed acriticamente.
Ma come dobbiamo procedere per ordinare le nozioni che già possediamo dentro di noi, o siamo in procinto di apprendere?
E come deve nascere il senso critico, una volta riconosciuta la sua importanza e la volontà di farlo nostro?
Rispondere a queste domande è possibile, previa però un’attenta analisi della reale condizione attuale – con tutte le sue contraddizioni ed i suoi “bug”.
L’intenzione iniziale degli artefici del sistema scolastico era formare delle persone “consce di sé”, delle proprie capacità e del proprio io – attraverso la fornitura degli strumenti e necessari.
Ruolo centrale in questo caso lo dovrebbe svolgere la “storia”, anche se in realtà è più il danno procurato che tutto il resto.
Passiamo infatti la nostra giovinezza non cercando di costruirci un’identità, non cercando di capire chi è l’uomo “contemporaneo” confrontando il nostro vissuto col vissuto con quello dei nostri simili in epoche passate, ma immergendoci interamente in altre epoche, in altre società, sviscerandone i bisogni, gli usi ed i costumi, i travagli ideologici: ci caliamo nelle loro profondità troppo frettolosamente ed apponendo sempre troppe poche premesse per rendere questa “immedesimazione” utile – perdiamo appunto il contatto con la nostra realtà, dimentichiamo di decontestualizzare le vicende del passato per ricavarne insegnamenti più “universali”, riutilizzabili anche dal nostro presente “io”. Abbiamo trasformato la storia in un insensato formulario che non comprendiamo più.
Da questa esperienza non ne usciamo quindi come esseri “omogenei” e sereni, ma come ibridi, intimamente insoddisfatti: sia perché ci rendiamo conto di aver speso anni della nostra vita senza crescere in maniera significativa, continuando a vedere nello specchio l’immagine di uno sconosciuto, sia perché costretti - essenzialmente controvoglia visto che ciò conferisce un carattere esplicitamente precario a quello che già possediamo - a continuare a cambiare abito di costume.
E niente meglio della storia può fungere da guardaroba: in questo sembriamo vedere la sua utilità, ovvero nell'immensa mole d'informazioni utili soltanto per essere alternativamente fatte nostre senza una cosciente e costruttiva rielaborazione personale. Viviamo in un eterno carnevale – come affermava un famoso filosofo tedesco di fine ottocento del quale sappiamo tutti il nome, ovvero Nietzsche –, nel quale ora ci nascondiamo dietro una morale, ora dietro un’altra, ieri un’incrollabile fede, domani un’irreprensibile ateismo.
[Fine Parte 2]
E questo è quanto.
Cosa ne Pensate?