non ricordo di averti dato del maschilista, ho semplicemente detto che non conosci quello di cui parli.Rafael
quello che le donne, tutte o alcune "vogliono" riguarda loro stesse, ogni singola donna; quello di cui si parla sono le rivendicazioni del movimento femminista, e oltre a questo il livello di "giustizia" della condizione delle donne, cioè se le donne abbiano o meno gli stessi diritti degli uomini: secondo me no, come dimostrano dati e ricerche.Rafael
"Un'indagine Istat presentata in occasione dell'8 marzo evidenzia come le signore siano discriminate per retribuzioni e qualifiche
Donne, lavorano di più ma guadagnano di meno
E se decidono di mettere su famiglia molte sono costrette a rimanere tra le mura domestiche e abbandonare la carriera
ROMA - Sempre più occupate, e soddisfatte della vita pubblica. Però le donne, che studiano e puntano tempo e soldi sulla propria formazione molto più di "lui", non riescono ancora a raggiungere posizioni e retribuzioni pari a quelle dei maschi. E quando, e se, decidono di mettere su famiglia, fare un figlio, la strada sembra essere ancora la stessa, senza molte alternative: lasciare l'impiego, ritirarsi dentro le mura domestiche, annullare il tempo libero e sopportare tutti i costi della scelta.
Dopo il messaggio ieri del capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, che ha lanciato un appello ad aiutare le donne perché possano conciliare maternità e lavoro e valorizzare il "loro impegno essenziale per il progresso dell'Italia", oggi, in occasione dell'8 marzo, l'Istat ha presentato l'indagine "come cambia la vita delle donne".
E la vita delle donne secondo l'Istituto di statistica è cambiata molto: negli ultimi dieci anni è cresciuta l'occupazione femminile (con ben 1.296.000 nuovi posti di lavoro contro 275 mila di quelli maschili) ma le donne continuano ad essere fortemente svantaggiate rispetto ai colleghi uomini: guadagnano di meno (le diplomate circa 125 euro in meno, le laureate 195 euro) ed entrano più tardi nel mondo del lavoro. Ad esempio, a tre anni dal diploma lavora il 52,7% delle donne contro il 58,7% degli uomini, mentre a tre anni dalla laurea il 69% contro il 79%.
Lo svantaggio femminile nell'entrata al lavoro, è più forte al Sud. Solo il 40% delle diplomate e il 53,7% delle laureate lavorano (contro il 54,8% e il 69,2% degli uomini) a tre anni dal conseguimento del titolo di studio
E quando entrano a lavorare, seppur forti di competenze, vengono discriminate nella retribuzione: i diplomati che svolgono un lavoro continuativo a tempo pieno guadagnano in media 889 euro; le donne circa 125 euro in meno. Se gli uomini che guadagnano al massimo 800 euro al mese sono circa il 37%, per le donne tale quota sale al 55,2%. Nella fascia retributiva più elevata (oltre mille euro) si concentrano quasi il 22% degli uomini ma appena il 10% delle donne.
Eppure le donne sono più istruite degli uomini e investono di più nella formazione. All'università nel 1950-51 si iscriveva il 2,1% delle donne e il 6% degli uomini. Oggi le studentesse universitarie sono 40 su 100 mentre i ragazzi solo 31; erano il 25,5% degli iscritti, sono diventate il 55,6% degli attuali iscritti. Nel 2002 le diplomate erano 77 su 100 contro i 67 dei diplomati; le laureate al 23% a fronte del 17% dei laureati.
Inoltre, ora il 28,7% degli iscritti ad ingegneria è donna, il 59% a medicina, il 45% ad agraria, il 46,9% ad economia. Le donne infine raggiungono più degli uomini la fine degli studi: per il diploma superiore su 100 iscritte 84 arrivano in fondo, gli uomini raggiunge i 73. Per l'università le donne rappresentano il 49,3%, gli uomini il 41,8%.
Oltre alla busta paga, la qualifica: le donne che si inseriscono nelle professioni più prestigiose sono il 42,9% contro il 49,3% degli uomini mentre ben il 15,9% delle laureate (a fronte del 9% maschile) è occupato in professioni esecutive di amministrazione o in altre mansioni non qualificate. In termini di carriera, il differenziale tra i due sessi è pari a 11 punti.
Il numero delle imprenditrici, nel decennio considerato, è quasi triplicato. Nel 1993 su 100 imprenditori le donne erano 15, oggi sono 22. Le libere professioniste sono più che raddoppiate, da 120 mila a 288 mila. Le dirigenti sono aumentate del 65% (da 48 mila a 79 mila). Le donne occupate tra i direttivi e quadri sono aumentate da 234 mila a 374 mila. Aumentano anche le impiegate, più 33%.
Resta comunque bassa la presenza femminile nei luoghi decisionali economici e politici. Tra i ministri economici, non è presente alcuna donna e tra i viceministri e sottosegretari solo 2 su 17. Nelle prime 50 imprese del paese, solo l'1,3% dei consiglieri di amministrazione è donna. Nelle organizzazioni imprenditoriali c'è appena il 3,2% di donne; nei sindacati confederali la metà al femminile raggiunge il 23,6%.
Rispetto alle professioni, l'Istat fa sapere che le magistrate hanno progredito notevolmente: tra i magistrati di tribunale le donne sono il 52%. Nei ministeri (dove le donne sono il 48%) tra i dirigenti di prima fascia le donne sono il 16,6% rispetto al 4,7% del 1993. Il comparto della ricerca è l'unico che ha registrato un decremento delle donne: nel 1993 i dirigenti donne erano il 16,5% nel 2002 è sceso al 14,6%.
Ma una delle "ferite" sottolineata dall'indagine Istat, quella che si crea quando le donne cercano di conciliare lavoro e famiglia. Considerando le donne di 35-44 anni, nel 2003 le single presentano tassi di occupazione più alti (86,5%), seguite da quelle che vivono in coppia senza figli (71,9%) e da quelle con figli (51,5%). Tra queste, le donne che hanno un figlio hanno un tasso di occupazione pari al 63,8%, chi ne ha tre o più del 35,5%. Inoltre il 20,1% delle madri occupate al momento della gravidanza non lavora più dopo la nascita del figlio.
Tra le occupate, 78,6 su cento riferiscono di essere molto o abbastanza soddisfatte del proprio lavoro, e comunque più soddisfatte delle casalinghe (solo il 60,2% di queste ultime è contento della propria condizione). E anche sul tempo libero, le madri che lavorano esprimono apprezzamento su come lo trascorrono (59,5%) più delle madri casalinghe: solo il 49,7% lo giudica soddisfacente"
http://www.repubblica.it/2004/c/sezi...oroetempo.html
tu hai scritto "sinceramente,al giorno d'oggi,portare il femminismo all'esasperazione(come molte donne fanno)è una cosa non solo inutile ed assurda,ma anche patetica.", ecco io non credo tu conosca le rivendicazioni del movimento femminista, quello attuale come quello storico(assai variegati al loro interno), ma in compenso ti sei divertito a bollare queste rivendicazioni come "patetiche", basandoti sull'unico elemento che conoscevi, cioè la storia del parrucchiere. pertanto auspico che la prossima volta, prima di dare del patetico alle rivendicazioni di qualcuno ti infomi su quale siano.
Infine si, io sono femminista. Ho letto diversi articoli in merito e un paio di libri: che è poco, pochissimo, ma parlo con un minimo di cognizione di causa.
questa presa di posizione, che posso riassumere con "le rivendizazioni del passato erano giuste, ma gli obbiettivi del femminismo storico sono stati raggiunti quindi non ha più motivo di esistere", ha una premessa molto chiara il fatto che gli obbiettivi del passato, la pari dignità della donna in tutti gli ambiti umani, che tu stesso definisci "utili" siano stati raggiunti. ma è una premessa falsa. si sono indubbiamente fatti passi avanti(soprattutto nei paesi democratici) ma ancora la differenza di trattamento permane ed è pressante, come dimostrano i dati che ho riportato sopra, e di cui ti riporo il commento:gardos
Così il nostro welfare costringe a decidere tra lavoro e carriera
Scarseggiano asili nido e servizi per gli anziani
Il Paese delle donne dimezzate
La difficile scelta tra figli e lavoro
di GIANCARLO MOLA
ROMA - Il tempo delle scelte dolorose arriva dopo i vent'anni, al termine degli studi liceali o universitari. È il momento in cui il sogno giovanile delle ragazze - famiglia e carriera - entra in rotta di collisione con la realtà. Ben diversa: famiglia o carriera. C'è tutta l'anomalia italiana, in quel cambio di congiunzione. C'è il peso di decenni di ritardo culturale e pigrizia politica. Ma soprattutto l'insostenibile leggerezza di un welfare incapace di conciliare maternità e lavoro, realizzazione nella vita privata e pari opportunità nello spazio pubblico.
È proprio il modello di stato sociale a fare dell'Italia il fanalino di coda in Europa sia per occupazione femminile sia per natalità (le due questioni poste dal presidente Ciampi). È la scarsezza di asili nido e servizi per gli anziani a costringere le donne all'opzione secca: rinunciare al lavoro o rinunciare alla famiglia. Per capirlo basta incrociare le statistiche. Lo fa, per esempio, una ricerca recente Iref-Acli, che mette sotto la lente d'ingrandimento il livello di welfare nelle regioni italiani. Ecco i risultati: nelle aree più ricche del paese (quelle del Nord) il tasso di occupazione delle donne fra i 20 e i 34 anni supera abbondantemente il 60 per cento, nelle zone più povere (il mezzogiorno) la percentuale di donne lavoratrici precipita al 24,8 per cento.
Una forbice spropositata, che si restringe enormemente prendendo in esame il tasso di occupazione maschile nelle stesse aree. E che si spiega analizzando il livello dei servizi a disposizione delle famiglie. Nel primo gruppo di regioni settentrionali, dieci bimbi con meno di due anni su cento possono contare su un posto in asilo nido, nel secondo gruppo la percentuale scende al 3,3 per cento. Il discorso non cambia se si guarda il numero di posti letto in case di riposo ogni cento anziani ultrasessantenni: 4,9 dall'Emilia Romagna in su, 1,5 dall'Abruzzo in giù.
"Una donna che non sa dove tenere il figlio appena nato o a chi affidare il padre malato spesso non ha altra scelta, deve rinunciare a cercare un lavoro o abbandonare quello che ha trovato", dice Cristiano Caltabiano, sociologo e autore della ricerca Iref-Acli. Una considerazione confermata dai numeri: una donna su cinque si ritira dalla professione o dall'impiego fra i 21 e i 30 anni, dopo la nascita del primo figlio. È anche una questione economica. Il costo dei servizi si aggiunge alla loro scarsezza.
Lo stipendio di una donna (più basso del 25 per cento, in media, rispetto a quello di un uomo) rischia di non essere sufficiente a pagare baby sitter o badante. E allora rimanere a casa ad accudire la famiglia diventa addirittura conveniente.
Eppure, alle donne, la voglia di mettersi in gioco, affermarsi nel lavoro non manca. Non a caso affrontano con più assiduità e con più successo gli studi: il 73,4 per cento delle giovani fra i 20 e i 24 anni ha oggi in mano almeno un diploma di scuola media superiore (un livello analogo a quello delle ragazze tedesche e inferiore di appena tre punti alla media Ue). Fra i ragazzi, la percentuale di diplomati o laureati scende al 66,4 per cento (in Germania - per mantenere il paragone - è al 72,6 per cento): in questi casi la media europea è lontana di cinque punti.
Le speranze lasciano dunque il posto alla delusione e alla frustrazione. I tentativi di tenere insieme famiglia e lavoro si caricano di stress. E allora si torna indietro.
È accaduto, di recente, anche nel mondo dell'imprenditoria: secondo la Camera di commercio di Milano, nel secondo semestre del 2003 si sono perse per strada - complessivamente - 16.400 aziende al femminile (quelle al maschile sono aumentate più o meno nella stessa misura). Se poi si considera il lavoro dipendente, la situazione non migliora. I progressi sono lentissimi. Il tasso di occupazione femminile in Italia è il peggiore d'Europa (il 42 per cento nel 2002, era il 35,8 per cento nel 1993). Ebbene, nello stesso periodo la Spagna ha fatto un balzo enorme, passando dal 30,7 per cento al 44,1.
Non c'è da stupirsi, quindi, che manchi l'ottimismo, che a nutrire sfiducia per il futuro siano proprio le donne. "La giovani famiglie di oggi - conclude Caltabiano - sono diverse da quelle di vent'anni fa. Allora almeno c'era un reddito sicuro: era il perno del welfare all'italiana che abbiamo ereditato. Adesso non c'è più nemmeno quello. Il lavoro flessibile può anche essere un'opportunità. Ma a condizione che aumenti il sostegno alle famiglie, che cresca il livello dei servizi. Non è con un assegno di mille euro che si risolve il problema".
http://www.repubblica.it/2004/c/sezi...eltadonne.html
a questo punto la conclusione è semplice e logica: il femminismo continuerà ad avere senso fino a quando le donne non saranno trattate nella società umana ad un livello di pari dignità in tutti i campi in tutto il mondo.