Bentornati cari amici!
Purtroppo dobbiamo tornare a parlare di terrorismo e attentati. QUesta volta è toccato a Londra, ma i prossimi siamo noi.
Aldilà della singola strage e dei morti, è il clima che si sta venendo a creare in europa (e in particolar modo a Londra) a destabilizzare l'assetto geopolitico mondiale. E a voler cambiare certe abitudini della massa.
La normalità in pericolo
di
Sergio Romano
I «seri incidenti di Londra», come sono stati provvisoriamente definiti dalla polizia britannica, dimostrano che gli attentati del 7 luglio sono in realtà l’equivalente di un forte investimento, destinato a generare profitti e interessi per un lungo periodo. Dopo quanto è accaduto due settimane fa non è necessario che le bombe abbiano la stessa capacità distruttiva. Bastano piccoli ordigni per risvegliare il ricordo degli attacchi precedenti, seminare paura e costringere i servizi di sicurezza ad agire come di fronte a una catastrofe.
Pochi gesti dimostrativi sono sufficienti per paralizzare la città, monopolizzare l’attenzione dei mezzi d’informazione, cancellare dagli schermi televisivi qualsiasi altro avvenimento, obbligare il Primo ministro a interrompere i suoi colloqui con un collega del Commonwealth per partecipare a una riunione di emergenza e convocare una conferenza stampa nel corso della quale ha potuto dare soltanto informazioni generiche.
Comprendiamo meglio la strategia dei terroristi. Vogliono uccidere e distruggere, ma il loro vero bersaglio è la normalità. Vincono nel momento in cui riescono a impedire il normale corso della vita e degli affari in una grande capitale dell’Occidente. E vincerebbero ancora più clamorosamente se costringessero i governi dei Paesi minacciati ad adottare draconiane misure di emergenza: la città blindata, perquisizioni e intercettazioni a tappeto, misure di particolare sorveglianza per le persone appartenenti a gruppi etnici «sospetti», interruzione di alcuni trasporti pubblici, coprifuoco.
Con quali conseguenze sulla vita della città? Nel corso di una conferenza stampa il sindaco di Londra, Ken Livingstone, rispondendo alla domanda di un giornalista, ha ricordato che l’applicazione ai trasporti urbani delle misure di sicurezza adottate negli aeroporti coinvolgerebbe 3 milioni di persone e produrrebbe colossali rallentamenti nei loro viaggi giornalieri da casa al lavoro.
Blair ne è consapevole e ha camminato, durante la sua conferenza stampa, su una corda tesa. Non poteva drammatizzare l’avvenimento, anche perché le informazioni in suo possesso non lo consentivano. Ma non poteva neppure trattare la vicenda alla leggera e considerarla puramente dimostrativa. È questa la porta stretta attraverso la quale dovrà continuare a passare nei prossimi mesi il Primo ministro di un Paese che ha puntato sul multiculturalismo e cerca di isolare i terroristi appellandosi alla solidarietà nazionale delle comunità islamiche.
Se Blair cedesse alla tentazione dello «stato d’assedio », le misure colpirebbero inevitabilmente, anzitutto, i musulmani del Regno Unito. Nulla farebbe tanto piacere ai fondamentalisti islamici quanto l’abbandono della strategia che il governo britannico ha perseguito in questi anni. La loro capacità di reclutamento ne sarebbe straordinariamente favorita e altri «ragazzi di Leeds» si sentirebbero incoraggiati a scegliere la strada del terrore.
Il problema non è soltanto britannico. La situazione cambia da Paese a Paese, ma il nodo della questione, per tutti, è in ultima analisi quello dell’equilibrio fra normalità e sicurezza, tra vigilanza e democrazia, tra le esigenze della polizia e quelle della convivenza civile. Quando il Consiglio dei ministri italiano si riunirà oggi per esaminare il «pacchetto Pisanu», sarà questo il primo punto all’ordine del giorno.