Le Recensioni di GamesRadar - Pag 5
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Visualizzazione risultati da 61 a 75 di 94

Discussione: Le Recensioni di GamesRadar

Cambio titolo
  1. #61
    Kelvan
    Ospite
    Joy Division - Unknown Pleasures
    Dark wave
    1979



    1. Disorder
    2. Day of the Lords
    3. Candidate
    4. Insight
    5. New Dawn Fades
    6. She's lost control
    7. Shadowplay
    8. Wilderness
    9. Interzone
    10. I Remember Nothing
    Ian Curtis: voce
    Bernard Sumner: chitarra, tastiere
    Peter Hook: basso, seconda voce
    Stephen Morris:
    batteria, percussioni



    1979, l'ondata punk del '77 lascia posto ad un nuovo genere musicale, non omogeneo, ma costituito da gruppi che hanno una caratteristica in comune: la loro diretta discendenza dal punk.
    E' in questo clima che si affermano i Joy Division, una delle band di culto dell'intera new wave. Saranno tra i primi a sperimentare un nuovo tipo di musica, post-punk certo, ma “diverso”, più oscuro e malinconico.
    Nati dalle ceneri dei Warsaw, i Joy Division sfornano, già al primo tentativo, un album fondamentale per l'intera Dark/New wave, Unknown pleasures, prima parte dell'angoscioso cammino di Curtis, che si concluderà con Closer e con il tragico epilogo, il 18 maggio del 1980.
    L'album è scarno e la copertina lo rispecchia pienamente. Non sono solo la voce di Curtis e i testi delle canzoni a rendere l'album spettrale, ma fondamentali sono gli strumenti che accompagnano la voce robotica in un susseguirsi di immagini raggelanti. Il sound è cupo e Curtis sembra parlare dall'aldilà, sembra già sapere il suo destino, forse queste sono le sue ultime confessioni, il suo ultimo tentativo di comunicare al mondo il suo malessere. La chitarra, il basso e la batteria s’intrecciano in ritmi ripetitivi, ora veloci, ipnotici e scarni, ora lenti, distorti e dilatati.

    L’album non ha pause, anche i silenzi sono carichi di tensione, immagini oscure si stampano nella mente dell’ascoltatore e sarà difficile dimenticarle. Fondamentale è il basso, che ora stempera la tensione con semplici melodie, ora l’accentua con ritmi vorticosi e ossessivi.
    Si susseguono capolavori uno dopo l’altro, la velocità di Disorder lascia spazio alla lentezza di Day of the Lords e alle sue immagini inquietanti, i riff freddi e secchi di New dawn fades si contrappongono al suono più elettronico di She’s lost control e tutto scorre inesorabile verso le ultime canzoni, passando per i salti spazio-temporali negli orrori della storia di Wilderness e per la rabbia repressa di Shadowplay.
    L'album si chiude con I remember nothing, la canzone più lenta, le parole sono dilatate, si arriva alla fine affannati, distrutti, ma “contenti” di aver vissuto questa esperienza unica.
    Ma non è finita… quest’album è solo la preparazione a Closer, come se questi due album fossero un unico progetto di Curtis, l'ultimo vano tentativo di esternare il suo dolore, prima della fine.

    In conclusione, Unknown pleasures, come Closer è un album che tutti dovrebbero ascoltare, ma che non molti riusciranno ad apprezzare. E' un album difficile da comprendere, può piacere solo se si coglie la bellezza nel dolore, solo se si allunga la mano a Ian e ci si lascia guidare in questo lungo, stupendo viaggio interiore.

    Ultima modifica di Kelvan; 8-12-2006 alle 21:17:57

  2. #62
    Kelvan
    Ospite
    King Crimson - Red
    Rock Progressivo
    1974






    Robert Fripp -
    chitarra, mellotron
    John Wetton - voce, basso
    Bill Bruford - batteria, percussioni
    David Cross - violino
    (altri musicisti che partecipano appaiono nella recensione)



    Il disco che vado a recensire è il settimo album in studio dei King Crimson, “Red”.
    Si tratta della terza e ultima opera della formazione Fripp, Bruford, Cross, Wetton, a parere del sottoscritto la miglior incarnazione in assoluto del Re Cremisi.
    Tra gli innumerevoli musicisti che hanno affiancato il chitarrista, il trio del periodo '73-'75 è quello che ha mostrato più affiatamento e capacità di assecondare le vibrazioni progressive dell'occhialuto Professore: il violino di Cross accompagna perfettamente il tipico suono sinistro della Les Paul di Fripp; il basso di Wetton colpisce martellante allo stomaco, mentre Bruford dimostra ancora una volta di essere uno dei più grandi batteristi di sempre.
    “Red” non fa eccezione, anzi, la sua grandezza intrinseca è amplificata dal fatto che sia stato composto e registrato quando il gruppo era sul punto di sciogliersi (ad esempio Cross non compare in copertina, nonostante sia presente sul disco).
    Contrariamente a tanta critica, chi scrive crede che “Red” qualitativamente sieda vicino all'opera prima “In the Court of the Crimson King”; magari non avrà l'importanza storica di quest'ultimo, o la ricerca progressiva di “Larks' Tongues in Aspic”, ma a livello compositivo e di impatto sonoro non è niente di meno del fratello maggiore del '69.
    Iniziamo quindi con le canzoni. Si parte con la title-track, ancora gettonatissima nei live: si tratta di uno strumentale in cui domina la chitarra di Fripp, con inquietanti progressioni di accordi accompagnate dal pomposissimo basso di Wetton. Il sound è profetico, secco e aggressivo come nei momenti migliori di “The Power to Believe” e “Thrak”.
    Segue quindi Fallen Angel, ideale sorella di quella meravigliosa canzone che è Exiles in “Larks' Tongues”, ma più rifinita, arricchita dall'oboe di Robin Miller, il sax-contralto della vecchia conoscenza Ian McDonald e da una delle migliori interpretazioni vocali di Wetton.
    Si prosegue con One More Red Nightmare, in cui la band tira fuori dal cilindro un'interpretazione muscolosa e ritmicamente travolgente: la composizione ruota su uno stravolgimento dell'inizio di Red giocato sul dialogo strumentale tra Fripp e Wetton, per poi sfociare in una simil-improvvisazione in cui sono i sax di MacDonald e del sempiterno Mel Collins a farla da padroni.
    Il mood del brano è anomalo per i Crimson, un rock smaccatamente cafone che ogni tanto fa capolino nei loro dischi, quasi per allentare un'atmosfera il più delle volte in perenne tensione (mi riferisco a canzoni come Cat Food e Ladies of the Road); ad ogni modo la performance è eccezionale e godibilissima.
    Providence è uno strumentale figlio delle sperimentazioni di Larks' Tongues in Aspic Part One, con le improvvisazioni del violino di Cross su giri armonici che richiamano le partiture più dissonanti di Bela Bartok; a mano a mano si sovrappongono tutti gli strumenti, per un crescendo dove spicca particolarmente il basso di Wetton. A me sinceramente piace definirlo “l'accordatura” per uno dei punti più alti della storia ultratrentennale dei Crimson.
    A chiudere il disco e la parte più sfolgorante di un gruppo la cui importanza non è mai stata pienamente riconosciuta, arriva Starless, la summa di tutta l'arte e lo stile del Re Cremisi.
    Nella prima parte il gruppo non suona, dipinge, e l'ascoltatore non può fare altro che lasciarsi cadere nel cielo senza stelle più bello che sia mai esistito. L'inconfondibile mellotron apre alla musica emotivamente più intensa mai suonata da Fripp, sulla quale si innesta tutto il gruppo: il sax di McDonald risponde splendidamente alla linea melodica della sei corde del Professore; la batteria di Bruford, dopo aver imperversato nel resto del disco, mantiene una ritmica delicata e discreta.
    Se si dovesse spiegare cos'è il sublime, non servirebbero parole, basterebbero questi quattro minuti.
    All'improvviso, la sferzata: il cielo senza stelle si fa minaccioso, il suono del basso di Wetton e disorientante...arriva la chitarra, in una risalita lancinante ed opprimente...e la batteria, con i suoi ritmi obliqui che conducono ai fraseggi vertiginosi che riportano alla mente la furia di 21st Century Schizoid Man. E poi l'esplosione finale, col sax di McDonald e la cornetta di Marc Charig a riprendere il tema principale in una versione potentissima, col tuonante slapbass di Wetton a farla da padrone.
    In 12 minuti, Starless condensa l'essenza dei Crimson e del progressive stesso, così come Firth of Fifth per i Genesis di Gabriel.
    Concludendo, “Red” è un capolavoro assoluto, che dovrebbe comparire in ogni discografia che si rispetti, a prescindere dall'attitudine prog di ognuno. Ad ascoltarlo oggi, suona ancora attualissimo e sono tantissime le band in cui si può ascoltare il tipico sound di “Red”(gli ultimi Tool, i Godspeed You Black Emperor, i Radiohead stessi in alcuni momenti). Un must indiscutibile, consigliatissimo. Non date retta ai critici che ne sminuiscono il valore, ho ragione io.


  3. #63
    Kelvan
    Ospite
    Artisti Vari - HALO 2 Original Sound Track Vol.1
    Colonna Sonora
    2004





    1. Halo Theme Mjolnir Mix (Steve Vai)
    2. Blow Me Away (Breaking Benjamin)
    3. Peril (O'Donnel & Salvatori)
    4. Ghosts of Reach (O'Donnel & Salvatori)
    5. Follow (Incubus)
    6. Heretic, Hero (O'Donnel & Salvatori)
    7. Flawed Legacy (O'Donnel & Salvatori)
    8. Impend (O'Donnel & Salvatori)
    9. Never Surrender (Niles Rodgers & Nataraj)
    10. Ancient Machine (O'Donnel & Salvatori)
    11. 2nd Movement of the Odissey (Incubus)
    12. In Amber Clad (O'Donnel & Salvatori)
    13. The Last Spartan (O'Donnel & Salvatori)
    14. Orbit of Glass (O'Donnel & Salvatori)
    15. 3rd Movement of the Odissey (Incubus)
    16. Heavi Price Paid (O'Donnel & Salvatori)
    17. Earth City (O'Donnel & Salvatori)
    18. High Charity (O'Donnel & Salvatori)
    19. 4th Movement of the Odissey (Incubus)
    20. Remembrance (O'Donnel & Salvatori)
    21. Connected (Hoobastank)

    Sentire la nostalgia di un momento particolare della nostra vita è normale. Sentire la mancanza di una persona che non è con noi è altrettanto normale. Ho dubbi invece sul fatto che sia normale sentire la mancanza di un personaggio inventato e costruito per creare un fenomeno commerciale e mediatico in ambito videoludico.
    Non sarà forse normale ma è sicuramente la nostalgia da Master Chief che mi ha spinto ad acquistare ed ascoltare (e recensire) l'album qui trattato.
    Essendo una colonna sonora l'album progredisce attorno al tema principale, una sorta di canto gregoriano che evoca il misticismo religioso per l'anello (Halo appunto) nel tema fondamentale del gioco. Oltre alle dovute atmosfere "da camera" (Ghost of Reach, Peril, The Last Spartan, Orbit of Glass) create da O'Donnel & Salvatori in brani mai banali ed evocativi, la parte del gigante la fanno le chitarre. Chitarre famose, come quella di Steve Vai in Mjiolnir Mix, o quelle di Aron Fink (Breaking Benjamin) nel brano Blow Me Away in riff del più classico dei rock metal. Chitarre doppiate da violini come nella canzone fulcro dell'album Follow (1st Movement of the Odissey) degli Incubus in cui tempi dispari si amalgamo con riff progressive di altissima qualità.
    Tutto l'album in realtà è incentrato sui quattro movimenti dell'odissea, eseguiti dagli Incubus, che fra citazioni di prestigio (l'inizio del 2nd Movement sembra essere uscito dall'album Animals dei Pink Floyd) e commistione di vari generi danno un carattere unico all'album. Il 3rd Movement sospeso tra funk e psichedelica ancora una volta rievoca le atmosfere dei Floyd (dark side of the moon) in cui la sezione basso/batteria la fa decisamente da padrone.
    Heavy Price Paid, Earth City ed High Charity si sviluppano marcando la trama del gioco ed il tema principale in maniera prettamente sinfonica accompagnando l'ascoltatore all'epilogo dell'album con il quarto ed ultimo movimento (4th Movement of the Odissey) brano progressive in cui batteria e chitarra si rincorrono su riff velocissimi. Ancora Pink Floyd (qui la citazione è addirittura imbarazzante) ed atmosfere psichedeliche fino al termine del brano. Finale "facilino" con il rock classico di Connected dei Hoobastank perfetto per i titoli di coda.
    In definitiva questo Halo2 non sarà una pietra miliare nella storia della musica ma è sicuramente al top delle produzioni musicali in ambito videoludico e decisamente evocativo per tutti i fan della saga di Halo.


  4. #64
    Kelvan
    Ospite
    The Police - Synchronicity
    Rock
    1983





    1. Synchronicity I
    2. Walking in Your Footsteps
    3. O My God
    4. Mother
    5. Miss Gradendo
    6. Synchronicity II
    7. Every Breath You Take
    8. King Of Pain
    9. Wrapped Around Your Finger
    10. Tea in The Sahara
    11. Murder By Numbers

    Voce, Basso e Sassofono: Sting
    Chitarre: Andy Summers
    Batteria e percussioni: Stewart Copeland



    Magia. Ci sono momenti in cui la musica può essere veramente definita tale, come nel caso dei Police. Un gruppo capace di fondere insieme generi diversissimi tra loro come Reggae, Punk e Pop, capaci di una discografia composta da perle uniche della musica e da capolavori intramontabili. Synchronicity è forse l’apice di tale magia, il disco dello scioglimento per il gruppo, un disco capace di raggiungere il cuore, non direttamente, ma entrando in punta di piedi, senza far rumore.

    Diversissimo dai precedenti lavori del gruppo inglese, il lavoro in questione si apre con una veloce e particolare Synchronicity, arrangiata con sintetizzatori e voci finemente sovrapposte, un inizio che ci anticipa la prima parte del disco, la parte più elettronica e intrisa di contaminazioni musicali (si va dalla semplice “Walking in Your Footseps” alla ritmata “O My God”) che inizia lentamente a svanire con la canzone Miss Gradendo, già più in stile Police, con chitarre pulite e ritmiche semplici.
    La seconda parte del disco (questa divisione non è ufficiale, l’ho fatta io per differenze di arrangiamenti e timbri) riprende (solo) nel nome la canzone che ci aveva fatto da apertura al disco, ovvero Synchronicity (parte seconda), una canzone dalla melodia alienante, ma dal sapore pop, stupendamente arrangiata dalla chitarra di Andy Summers e dipinta dalle fini liriche di Sting. Si arriva al classico dei classici, la canzone più “commerciale dell’album”, ma di sicuro la più famosa: “Every Breath you Take”, riconoscibile sin dalle prime note, canzone semplice e diretta, una bellissima poesia d’amore e di passione che ci trasporta con dolcezza verso la malinconica “King Of Pain”. Essa è una traccia unica, ha l’incredibile capacità di parlarci di un argomento triste e personale come la depressioni in una leggerezza e finezza disarmante, come al solito abbiamo arrangiamenti da manuale, melodie ricercatissime, liriche espressive e strutture mai banali, poche canzoni vi parleranno di tristezza lasciandovi sereni come questa canzone.
    Passando per l’eccezionale “Wrapped Around Your Fingers”, in cui abbiamo la voce di Sting che la fa da padrone in un ritornello che è dei più belli e sentiti nella storia della musica, magistralmente condito dai raffinati cambi di tempo di Copeland e dalle corde di un Andy Summers mai al servizio del virtuosismo, ma unicamente della melodia, troviamo le ultime due canzoni.
    Cala quindi il sipario lievemente, con il calore di “Tea in the Sahara” e “Murder by Numbers”, ma più che un sipario sembra la fine di un viaggio che ci ha portato in posti lontani, in epoche diverse e in mondi stranieri.

    Un disco, quindi, assolutamente da possedere, piacevole all’ascoltatore d’occasione quanto all’amante musicale, un disco che raramente lascerete a prendere polvere e che mai mancherà di emozionarvi e rasserenarvi con le sue dolci note.


  5. #65
    Kelvan
    Ospite
    Dream Theater – Systematic Chaos
    Progressive Metal
    2007






    1. "In the Presence of Enemies Pt. 1" - 9:00
    o I. Prelude
    o II. Resurrection
    2. "Forsaken" - 5:36
    3. "Constant Motion" - 6:55
    4. "The Dark Eternal Night" - 8:51
    5. "Repentance" - 10:43
    o VIII. Regret
    o IX. Restitution
    6. "Prophets of War" - 6:01
    7. "The Ministry of Lost Souls" - 14:57
    8. "In the Presence of Enemies Pt. 2" - 16:38
    o III. Heretic
    o IV. The Slaughter of the Damned
    o V. The Reckoning
    o VI. Salvation

    James LaBrie – Vocals
    John Myung – Bass
    John Petrucci – Guitar, backing vocals
    Mike Portnoy – Drums, percussion and backing vocals
    Jordan Rudess – Keyboards



    Il teatro dei sogni è tornato e ci propone un album molto sopra le aspettative…

    In The Presence Of Enemies Pt. 1:
    L'intro strumentale comincia a suonare e si sente davvero che qualcosa è cambiato dai dischi precedenti..."Metronomo Mike" devasta pelli e le mani del petrucci volano finchè dopo 1 minuto inizia un riff quasi blueseggiante...inoltre signori il basso è tornato a farsi sentire più vivo che mai! John alterna puliti e ultra-distorti in pochi secondi mentre Rudess continua a sorprendermi...
    James si fa espressivo (ma non troppo) e conclude ottimamente quando folate di vento ci trasportano verso la prossima canzone...

    Forsaken:
    Azzeccatissimo l'intro di piano...L'entrata di John è devastante (ottimi armonici artificiali) e tutti lo seguono in quei 30 secondi...torna la calma, ma solo per far entrare un scena Labrie decisamente migliorato dall'ultima canzone...ricomincia la tempesta di suoni e sovra sovra incisioni di chitarra...cambi di tempo e improvvise frenate la fanno da padrona...Un ottimo assolo del Petrucci e il ritornello si fa sentire...la tastiera si rifa sentire solo nell'ending...peccato, secondo il mio parere ci sarebbe voluto un assolo di tastiera del nostro Rudess...

    Constant Motion:
    E va bene lo ammetto...anche secondo me questa traccia non piace troppo...ma andiamo per ordine...Intro decisamente MetallicA dalle mani di Petrucci ...e si arriva alla canzone vera e propria forse troppo presto!!...Mike, che finora se ne stava relegato dietro le pelli ad emozionarci e sporadicamente usciva dalla tana solo per qualche eco, si cimenta cantante (anche bravo) ...tastiera assente finora ! No no...non mi garba e il distorto eccessivo alla voce fa aggrottare le sopracciglia...comincia finalmente un momento di calma dalle mani di Myung (!) e John si cimenta un assolo qui in whawha, qui in sweep, qui in tapping...quando......MIRACOLO...la tastiera si inserisce in un assolo forse migliore di Petrucci...l'uscita è pari all'entrata e sapevo già come andava a finire...l'effetto sorpresa non c'era...peccato...

    The Dark Eternal Night:
    Chitarra a 7 corde per John e si parte! Mi garba...orca vacca se mi garba...mai sentito un Portnoy così!! Il vocale (da entrambi!) è spaventoso così come la canzone e Petrucci spara riff dalla musicman a non finire, ma è Myung che mi fa strabuzzare le orecchie...i suoi accordi sono gli elementi cui passano da strofa a ritornello...inizia la strumentale che più metal non si può...Molta fantasia da parte di tutti!! E la tastiera di Jordan che frena i tempi con mini assoli mi piace...mi chiedevo come riprenderanno il tema dalla strumentale che un assolo velocissimo di petrucci mi dà la risposta...Tecnica a non finire finchè il ritornello torna.......ma ora che fa Petrucci? Uscita Thrash/Heavy su un tappeto di Continuum psichedelico...Complimenti...ma non così come si aspetta un progressive...

    Repetance:
    Mi preparo e faccio partire la prossima canzone ma.....sogno o son desto? è This Dying Soul!!!! "Ma certo" penso "la saga dell'alcolismo di Mike!!" Mi emoziono sentendo l'allungamento effettuato alla sudetta e comincio anch'io a cantare la parte di Labrie e con un sorriso continuo ad ascoltare il resto del brano...fantastico...mi lascio coccolare dalla meravigliosa melodia...l'entrata della distorsione di Petrucci mi riporta alla realtà...meraviglia di note e armonia dalla sua chitarra finchè...è tornata This Dying Soul!...le voci sotto la melodia corrispondono a codesti musicisti: Mikael Akerfeldt, Jon Anderson, David Ellefson, Daniel Gildenlow, Steve Hogarth, Chris Jericho, Neal Morse, Joe Satriani, Corey Taylor, Steve Vai e Steven Wilson!! Non c'è che dire, i Dream le cose le fanno in grande!! Echi e tastiere riempiono l'ambiente secondo il miglior disco dei Pink Floyd...OMG che roba...!

    Prophets Of War:
    Inizio elettrico da parte di Jordan e calda voce di Labrie accompagnano l'intro...l'entrata di Petrucci mi piace un casino ma non è pezzo molto "loro"...qui sono più loro, qui più Muse...Ha un sapore strano questa canzone...avrebbero potuto far di meglio sicuramente...e Portnoy simil-rap è divertente!! ...aspetto solo di vedere i live e il pubblico mentre grida le parole che si sentono...sfuma e lascio passare il pezzo...no, non piace...

    The Ministry Of Lost Souls:
    Capolovoro, nient'altro...ma andiamo con ordine...una melodia mai sentita di archi ci accompagna mentre Petrucci la segue con ottimi riff!! Chitarra acustica e mezza lacrimuccia per uno dei pezzi migliori dei Dream!!! Ricorda vagamente ACOS e Octavarium (la canzone...) ...Labrie è spettacolo solo nel sentirlo cantare...accordi distorti di petrucci e voce spettacolare ci porta a un ponte di chitarra assurdamente bella...Myung convince...e le parti di piano sono azzeccatissime...Questo è PROG cacchio!!! Chiudo gli occhi e seguo la melodia, sono sicuro che finirò per canticchiarla parecchie volte...il pezzo si fà movimentato e Portnoy si incacchia dietro la batteria...riff distorti di Petrucci si alternano a parti di tastiere molto Scenes From a Memory...!! Assolo di Petrucci inaspettato, lungo, accurato e a tratti sovrainciso!!
    Attendo l'assolo di tastiera e.....eccola!! Maestosa melodia...e stiamo per tornare al motivo iniziale...il cuore batte ma so che non è finita...si ferma la melodia solo per un secondo e tutto torna come nei primi 3 minuti ma più vivace...sento la melodia sfumare implorandola di tornare...l'unica pecca della canzone e che...vorresti non finisse mai...

    In The Presence Of Enemies Pt. 2:
    Tastiera sepocrale e voce inquieta di James compongono questo intro...chitarre acustiche e batteria ci portano nella canzone vera e propria, il basso di myung regge da solo la struttura del brano finchè la chitarra distorta di John ci fa capire che questo brano in 16 minuti non potrà che riservarci sorprese...riff orientaleggiante e falsetto di James continuano ad accompagnarci in "presenza del nemico" mentre la batteria scandisce ottimamente il tempo...Urca come mi prende questa canzone!...all'improvviso ecco una folla che urla "Ehi"...il brano accelera e tutti danno il meglio di sè...sono incazzati fino al midollo e mi piace! ...La tastiera di Jordan finalmente sfonda il muro sonoro parti melodiche si alternano...e...Flauti!!! WOW! Sembra che nessuno dei componenti si voglia più fermare da tutto ciò...cominciò ad annusare la melodia in attesa dell'assolo...Eccolo...John vortica su TUTTA la tastiera ed ecco che passa la palla a Jordan che non fa rimpiangere la lunga attesa...Inferno di note a metronomo avanzato quand'ecco che si può riprendere dalla melodia centrale scandita dalla tastiera...questo è proprio il genere di brano adatto a chiudere un album dei Dream Theater!! Sento Labrie dopo la parte strumentale ed è magnifico...la canzone si chiude con uscita di batteria e accordo finale...


    Un album ricco di sfaccettature tutte diverse, dal metal più duro all’elettropop senza dimenticare il prog metal più puro…sono sicuro che le attese saranno state premiate...un album che dopo Images and Words, Scenes From a Memory e Train of Thought ogni amante dei Dream deve avere nella sua libreria…specialmente in edizione speciale!


  6. #66
    Kelvan
    Ospite
    Dredg - Catch Without Arms
    Rock Progressivo/Psichedelico
    2005






    1. Ode to the Sun
    2. Bug Eyes
    3. Catch Without Arms
    4. Not That Simple
    5. Zebraskin
    6. The Tanbark Is Hot Lava
    7. Sang Real
    8. Planting Seeds
    9. Spitshine
    10. Jamais Vu
    11. Hung Over on a Tuesday
    12. Matroshka (The Ornament)
    13. Uplifting News (Bonus Track)

    Gavin Hayes: voce e chitarra
    Mark Engles: chitarra
    Drew Roulette: basso
    Dino Campanella: batteria



    L.A. California: mare, surf, gnocca e la patria del punk adolescenziale.
    Fortunatamente però la principale particolarità dell'essere umano è la varietà. Ebbene, ringraziando di non vivere in un mondo di luogo comuni, in questo bel quadretto americano si collocano anche i Dredg, gruppo di Santa Cruz (ok, non è L.A. ma tutta la zona è praticamente un blocco unico) appunto completamente diverso da quanto già detto. E non ci vuole tanto per riconoscere delle persone diverse dallo stereotipo californiano: a dire la verità loro sembrano molto più Messicani che Statunitensi, ma ovviamente si parla di aspetto.
    Gruppo ormai affermato da quelle parti, i Dredg escono da un album chiamato "El Cielo" che sinceramente avrei dubitato potesse essere battuto da un altro album suonato sulle stesse coordinate. Insomma, i Dredg non sono il primo gruppo che passa ma neanche tanto esperti da poter essere chiamati veterani. Quindi? Geni? Naaa è troppo, ma dire che sono gente in gamba, soprattutto per chi ha creato un 2° e 3° disco di carriera simili, credo sia la definizione più giusta.
    Ma passiamo al disco. Per quanto mi dispiaccia non poter collegarmi al precedente El Cielo che ripeto, nonostante manchi una recensione, si tratta di un album straordinario per il genere (suonato i giorni nostri), i collegamenti sono chiari ma anche l'evoluzione del gruppo stesso. Sono passati da un semplice rock-post-grunge grezzo di Leitmotif, al nuovo stadio indefinibile a mio parere di El Cielo per poi colpire duramente con questo nuovo Catch Without Arms. Se proprio devo dare una definizione stilistica, direi che il già annunciato rock psichedelico/progressivo si adatti perfettamente. Non vengono negate le chiare ispirazioni prese da Radiohead o dai vecchi Pink Floyd, ma nessuno si permetterebbe mai di accostarli ad uno dei due. E sarebbe effettivamente impossibile.
    Il disco si apre con Ode To The Sun, una vera e propria ode che si identifica con il vecchio sound Dredg: un pezzo chiaro, diretto che fa capire immediatamente chi siano questi 4 ragazzi. Con la seguente Bug Eyes c'è poco da fare: è una vera perla, questa però in perfetto stile Dredg lento. Sì, perchè i Dredg hanno una doppia anima: ovviamente quella prog e quella psichedelica. In El Cielo la differenza è forse più netta, ma CWA non viene risparmiato anche perchè il lavoro è eccelso e molto meglio lavorato rispetto al precedente. Il suono è chiaro e tra strumenti e voce (il piano è un pò basso) si percepisce tutto.
    Catch Without Arms, che da il nome al disco, segue la precedente e aprirà la parte quasi pop dell'album. Forse un pò più giù di tono rispetto alle altre, rimane comunque originale e non un semplice copia-copia di vecchie idee. Così anche per le successive: la bellissima e "infinita" Not That Simple e la quasi chillout Zebraskin. La seconda è una vera è nuova scoperta del gruppo visto che nel resto della produzione non c'era una canzone simile, ma la prima citata incarna esattamente il termine che ho appena usato: infinita; ma non mi riferisco alla durata. Immaginate di trovarvi nel deserto: cosa vi passerebbe per la testa? Ecco, ciò che esprimono è proprio quel senso di infinito e di perdersi in esso che sinceramente non sono riuscito a trovare in nessun altro. Ovviamente la sensazione è giostrabile per quanto le lyrics non siano proprio allegre. La storia non cambia però: l'ascoltatore ha la piena libertà di ricezione di un testo come la stessa Not That Simple. Personalmente adoro questo pezzo come quasi tutto l'album.
    Segue The Tanbark Is Hot Lava, un pò una spintarella dopo la lenta Zebraskin. Ed è subito ex stile Dredg a farla vinta. Per niente fastidioso all'interno dell'album, attenzione eh. Oltre al fatto di non essere la classica canzone di rock alternativo sparato è molto ben studiata con intermezzi di registrazioni più lente. A tutto va aggiunta l'incantevole voce di Gavin Hayes: profonda e, come già deto per la musica, "infinita". E' sicuramente uno dei punti chiave di tutto il gruppo anche perchè è quella che rende possibile questa sensazione assoluta.
    Sang Real e Planting Seeds ritornano sulle note appena lasciate con Not That Simple e Zebraskin: l'ordine è inverso ma il risultato è lo stesso; due pezzi di pregiata qualità marchiati perfettamente Dredg sound.
    Il disco presegue con molta calma, forse troppa però e Spitshine e Jamais Vu sono forse l'unica parte in cui ci si può chiedere se il disco non è anche un minimo pesante all'ascolto. Effettivamente Jamais Vu è forse il punto d'incontro più chiaro con il lavoro precedente, ma fortunatamente non ne rapresenta un plagio. Hung Over on a Tuesday arriva come una bella sveglia la mattina: niente di più azzeccato, soprattutto dopo due pezzi abbastanza lenti. Così come per The Tanbark Is Hot Lava si tratta di un bel pezzo veloce perfettamente inserito dal ritornello facile che si pianterà in testa e non ne uscirà più. Da notare la batteria nel pezzo che segue un tempo quasi scoordinato. Inutile dire che non si tratta di un errore ma della follia del batterista stesso che, avendolo visto dal vivo, posso assicurare che "ce sa fa". Per tutto l'album comunque fa un ottimo lavoro. Questo solo per sottolineare il valore artistico del gruppo che meriterebbe molto di più, nella speranza di non fare la fine di gente come i Muse, ormai eclissati dalla monotonia.
    Matroshka chiude l'album con un pezzo simil allegro. Niente di speciale ma un ottimo "a presto" che personalmente accolgo con molto piacere visto che, sia El Cielo che questo Catch Without Arms, si confermano due album di molto sopra la media attuale dei normali gruppi rock in circolazione.
    Da segnalare la bonus track Uplifting News, della quale però non posso assicurare la presenza su una versione Europea del disco visto cha la mia copia è d'importazione.

    Insomma, in definitiva un must per tutti gli ascoltatori di rock, antico e moderno. Un album in cui rispecchiarsi e che va preso col suo fratellino El Cielo. Tanti, ma tanti auguri per un gruppo che merita di non passare inosservato in questa società di cliché, musicali ovviamente.


  7. #67
    Kelvan
    Ospite
    Lostprophets - Liberation Transmission
    Emo/Punk
    2006






    Ian Watkins: voce
    Mike Lewis: chitarra
    Lee Gaze: chitarra
    Stuart Richardson: basso
    Ilan Rubin: batteria
    Jamie Olivier: DJ, tastiere


    Liberation Transmission costituisce il coronamento di quella svolta operata dai Lostprophets in direzione emo/punk, a partire dal precedente album Start Something, in cui già si intravedeva un distacco, seppur non netto, dalle sonorità nu metal che invece contraddistinguevano il primo lavoro, The fake sound of progress, quest'ultimo comunque innovativo nel suo genere, ma in ultima istanza fedele agli stilemi del generis. Ora, la bontà o meno di tale cambiamento, sostanziatosi anche esteticamente - i 'Profeti Smarriti' non hanno resistito alla moda della frangia asimmetrica - è oggetto di dibattito: i fan più sanguigni, i puristi del nu, hanno gridato delusi alla commercialata, mentre la cosiddetta "MTV generation" ha accolto favorevolmente il nuovo sound, effettivamente accessibile a un pubblico di più ampia portata.
    Tuttavia, con questo non intendo dire che Liberation Transmission sia un cd banale o scontato, una cresta dell'onda emo alla My Chemical Romance per intenderci, tutt'altro: i ritmi incalzanti e travolgenti, per i quali dobbiamo ringraziare il sapiente uso della batteria da parte della new entry Ilaan Rubin, che ha rilevato Mike Chiplin - forse poco convinto dal nuovo progetto -, conferiscono ritmo e grinta hardcore ai dodici pezzi, tutti adattissimi alla pubblicazione radiofonica e televisiva per via dell'abbordabilità di cui sopra, che comunque non fa di questo album una merce senz'anima. Le uniche tracce che si avvicinano, seppur lontanamente, alla classica accezione del nu metal, e quindi alle origini, sono l'apristrada Everyday Combat e l'accorata For All These Times Son, For All These Times, entrambe dotate di eccezionale intensità grazie ad una batteria incalzante e ad un uso centellinato ma azzeccato dello scream.
    Quanto alla tracklist, oltre ai due brani precedentemente citati, meritano una nota di riguardo la melodicissima Rooftops (A Liberation Broadcast), in cui non è folle intravedere contaminazioni dai Good Charlotte degli ultimi tempi, la ritmata Broken Hearts, Torn Up Letters And The Story Of a Lonely Girl, che raggiunge il culmine della malinconia al grido di and there's no destiny when everyone's your enemy, e la struggente Always All Ways (Apologies, Glances And Messed Up Chances), anche se a ben vedere è difficile registrare passi falsi in Liberation Transmission, fatto salvo forse per la sola Heaven For The Weather, Hell For The Company, che manca d'intensità ed ispirazione e per questo pare tirata fuori per forza. Per il resto, ci troviamo di fronte un album sicuramente pregevole, che vi trascinerà nel suo ascolto dall'inizio alla fine.

    Sarà vero, non è fottutamente "duro", ma la morbidezza sonora assume in questo frangente un alto valore stilistico, che va ben oltre il mero impatto commerciale.


  8. #68
    Kelvan
    Ospite
    Verve - Urban Hymns
    Rock
    1997





    1) Bitter Sweet Symphony
    2) Sonnet
    3) The rolling people
    4) The drugs don't work
    5) Catching the butterfly
    6) Neon wilderness
    7) Space and time
    8) Weeping willow
    9) Lucky Man
    10) One day
    11) This time
    12) Velvet morning
    13) Come on

    Richard Ashcroft: Voce
    Simon Tong: Chitarra
    Simon Jones: Basso
    Peter Salisbury: Batteria



    I Verve si formano nel 1989 a Wygan in Inghilterra, e dopo essersi distinti con due album di discreto successo arrivano al terzo album Urban Hymns che poi sarà anche il capolinea della band a causa dell'instabilità interna.
    L'album parte subito alla grande con la celebre Bittersweet Symphony chebasata su un campionamento "rubato agli Stones si rivelerà il passaporto ufficiale per la band per sfondare, un ritornello che si imprime nella mente al primo ascolto.
    Si prosegue con un altro singolo Sonnet che conferma un alleggerimento dei toni complessivi rispetto agli album precedenti e che diventa per la band un ulteriore successo. La terza traccia Rolling People assomiglia invece maggiormente a quanto fatto dai contemporanei Oasis e avvicina decisamente la band al panorama Brit-Pop dell'epoca.
    Si continua con una toccante The drugs don't work che mostra come la band complice anche la voce dismessa di Richard riesca bene a emozionare, il brano non a caso sarà il loro più celebre dopo la già citata Bitter sweet symphony.
    Si proseguecon Catching the butterfly eNeon wilderness mostrano sonorità ambient inedite per la band e con una Space and time dotata di un eccellente ritornello.
    Eche dire di Lucky Man?A parere del sottoscritto il migliore brano mai scritto dalla band, un crescendo epico di chitarre ed archi fino ad arrivare al travolgente ritornello, un'ennesima dimostrazione della maestria della band nello giocare con certe sonorità.
    Gli ultimi brani dell album One day sembrano invece voler anticipare lo stile del Richard Ashcroft solista e sono mediamente più distese quasi a voler chiudere l'album

    Urban Hymns é sicuramente uno dei capolavori degli anni '90 da riscoprire, forse anche solo per convincersi che come disse una volta Luttazzi "lo scioglimento dei Verve é stata una delle tragedie del Rock contemporaneo, avevano potenzialità enormi"


  9. #69
    Kelvan
    Ospite
    Duran Duran - Astronaut
    Pop
    2004





    1) Reach up for the sunrise
    2) Want you more!
    3) What happens tomorrow
    4) Astronaut
    5) Bedroom toys
    6) Nice
    7) Taste the summer
    8) Finest hour
    9) Chains
    10) One of these days
    11) Points of no return
    12) Still breathing

    Simon Le Bon: Voce
    Andy Taylor: Chitarra
    John Taylor: Basso
    Nick Rhodes: Tastiera
    Roger Taylor: Batteria


    I Duran Duran si formano a Birmingham nel 1978 e nonostante fasi alterne della loro carriera (sia come ispirazione che come vendite) sono tuttora una delle cult-band inglesi.
    Astronaut uscito nel 2004 ha segnato il ritorno della formazione alla line-up originale scioltasi nel 1985 e anche il ritorno del gruppo in cima alle classifiche dopo un periodo decisamente fiacco.
    L'album si apre (furbamente diranno alcuni) con il singolo Reach up for the sunrise, un autentico tormentone che praticamente tutti hanno canticchiato almeno una volta ma che mostra senz'altro come alla soglia dei 50 anni Le Bon e compagni abbiano un intuito Pop non comune.
    Si prosegue con Want you more! che a fronte di un buon ritornello non riesce a decollare a causa probabilmente della produzione eccessiva del pezzo.
    Ottima invece What happens tomorrow, ballata tipicamente Duraniana come il gruppo non ne sciveva da tempo, non a caso scelta ai tempi come secondo singolo.
    Trascurabile Astronaut, per tutto l'ascolto si ha la netta impressione che trattandolo per ciò che é (un discreto brano acustico) si sarebbero ottenuti risultati migliori al posto di cercare forzatamente di "modernizzarla". Da segnalare Bedroom Toys in cui l'elettronica é comunque presente ma viene sfruttata in modo più discreto, il risultato finale é gradevole e sicuramente tra i brani contaminati dell'album questa é la migliore.
    Il resto dell'album varia tra momenti più o meno superflui tra cui é d'obbligo segnalare Finest hour un'altra ballata Duraniana che piacerà sicuramente ai fan di vecchia data.

    Giudicare Astronaut é sicuramente difficile, da una parte sembra che la band sia finalmente tornata in forma, dall'altra invece l'intento di tornare al Top é evidente e spesso la band si dà la zappa sui piedi da sola, curiosamente é più probabile che lasci perplessi i vecchi fan della band


  10. #70
    Kelvan
    Ospite
    Nirvana - Nevermind
    Grunge
    1991





    1) Smells like teen spirit
    2) In bloom
    3) Come as you are
    4) Breed
    5) Lithium
    6) Polly
    7) Territorial pissings
    8) Drain you
    9) Lounge act
    10) Stay away
    11) On a plain
    12) Something in the way
    Traccia nascosta: Endless nameless

    Kurt Cobain: Voce e chitarra
    Chris Novoselic: Basso
    Dave Grohl: Batteria


    Dei Nirvana guidati da Kurt Cobain si é detto e scritto più o meno tutto, sicuramente Cobain fà parte di quei miti controversi del Rock di cui si continuerà a parlare negli anni a venire.
    Il modo migliore per testare questo gruppo é però ancora di inserire i loro album nel loro stereo e di ascoltarli, tra di questi sicuramente Nevermind é il più rappresentativo, già a partire dalla celebre copertina.
    Uscito il 24 Settembre 1991 l'album fù uno spartiacque fondamentale, uno di quegli album che fece epoca.
    Già la prima traccia Smells like teen spirit, che della cosiddetta Generazione X fù l'inno, a prescindere da questo però é uno di quei pezzi come se ne scrivono pochi nella storia del Rock é ha una carica inesauribile.
    Si prosegue con una In Bloom che pur avendo un'atmosfera generale meno intossicata e più "solare" (per quanto questo aggettivo possa essere applicato alla musica dei Nirvana ovvio...) continua comunque in bellezza offrendo chitarre che fanno parecchio "effetto Grunge".
    Il Terzo brano é la ballad elettrica Come as you are che con le sue atmosfere a tratti inquietanti e quel ritornello devastante é a parere di chi scrive il miglior pezzo della banda e mostra con che semplicità Cobain scrivesse cose geniali. Si continua con Breed, brano che sembra voler mostrare il lato più Punk della band ma che forse in mezzo a tanto splendore impallidisce un pò.
    Il quinto brano Lithium é un'altro dei classici della band é mostra una progressione e un cambio di atmosfere che all'epoca la resero uno dei cavalli di battaglia della band, sicuramente più orecchiabile ma non meno potente. Da segnalare anche Polly, brano che può sembrare un pò fuori posto ma che invece mostra il secondo lato dei Nirvana quello che molti conobbero solo con l'Unplugged 2 anni dopo, un brano di una semplicità struggente.
    E così si potrebbe proseguire a lungo, che dire della furia cieca di Territorial Pissings e della traccia nascosta Endless Nameless?O magari della struggente e conclusiva Something in the way? Forse che se si dovesse dire tutto di Nevermind lo spazio non basterebbe mai

    Alla fine Nevermind é riuscito in ciò in cui pochi sono riusciti, trovare un perfetto equilibrio tra un sound potente e un sound immediato ed é riuscito nel contempo a parlare ad un'intera generazione pur essendo di una semplicità a tratti disarmante. Abbastanza per entrare nella leggenda


  11. #71
    Kelvan
    Ospite
    Tears For Fears - Songs From The Big Chair
    Pop/New Wave
    1985





    1) Shout
    2) The working hour
    3) Everybody wants to rule the world
    4) Mothers talk
    5) I believe
    6) Broken
    7) Head over heels\broken (live)
    8) Listen

    Roland Orzabal: Chitarra
    Curt Smith: Basso
    Manny Elias: Batteria
    Ian Staley: Tastiere


    I Tears for Fears nascono ufficialmente nel 1981 da Roland Orzabal e Curt Smith che conosciutisi da adolescenti decidono di fondare un gruppo, all'inizio chiamato The Graduate ma che dopo vari cambi di denominazione divenne Tears for Fears, al duo si aggiunsero presto Ian Staley alle tastiere e Manny Elias alla batteria.
    I Tears for Fears furono dappima inclusi nel filone New-Romantic ma proprio con questo album si spostarono verso sonorità più Pop e riuscirono ad agguantare un successo planetario.
    Songs from the big chair si apre con Shout, uno dei brani più conosciuti del duo, il brano, il più Rock dell'album si segnala per i vari cambi di atmosfera e di ritmo cosa che sopperisce almeno in parte alla ripetitività del testo.
    Si prosegue con The working hour, che mostra il lato del gruppo più vicino alla sperimentazione New Wave, salta subito all'orecchio il lungo intro strumentale (circa 2 minuti) che dà modo alla band di mostrare la propria creatività e il volto meno immediato della loro musica.
    Cambia completamente il registro con la successiva Everybody wants to rule the world che all'epoca volò direttamente al numero 1 in America e che mostra il lato più Pop della band, sicuramente il loro pezzo più celebre e la punta di diamante dell'album.
    Successivamente l'album prosegue con Mothers talk e i suoi tocchi funk-disco, con il soul malinconico di I believe e con Broken che accosta nuovamente il gruppo alla New Wave inglese, a chiudere l'album due pezzi live di buona fattura.

    Giudizio:

    Alla fine ciò che stupisce di Songs from the big chair é che nonostante tanta varietà l'album non perde mai compattezza, mica una cosa da poco.


  12. #72
    Kelvan
    Ospite
    Coldplay - Parachutes
    Rock
    2000





    1) Don't panic
    2) Shiver
    3) Spies
    4) Sparks
    5) Yellow
    6) Trouble
    7) Parachutes
    8) High speed
    9) We never change
    10) Everything's not lost

    Chris Martin: Voce e pianoforte
    Johnny Buckland: Chitarra
    Guy Berryman: Basso
    Will Champion: Batteria



    Inizio da perfetti nerd per i Coldplay, Chris e Johnny si conoscono a una festa nel 1996 e dopo aver fatto amicizia decidono di fondare un gruppo che ben presto si allarga assumendo la line up definitiva.
    Dopo una serie di piccoli concerti la band riesce a farsi notare, ad avere un contratto e ad arrivare al disco del debutto.
    A un primo ascolto Parachutes sembra un album ben poco "stile Coldplay", non perché sia stato realizzato nel 2000, ma perché nel frattempo la band si é avventurata in territori musicali completamente diversi.
    Dimenticatevi pure i Coldplay epici e talvolta pomposi degli ultimi anni, in questo album a prevalere sono sonorità rarefatte e malinconiche che richiamano spesso alla mente i Radiohead, influenza indiscussa della band, toni cupi e scuri come la copertina (per una volta davvero perfetta per rappresentare l'album)
    E così già la prima traccia, Don't panic é un pò un manifesto d'intenti, e sulla stessa riga si prosegue con brani come Spies (forse il migliore dell'album), Trouble e High speed, con le atmosfere malinconiche tipiche del gruppo interrotte solo da pochi momenti "solari" come Shiver e Yellow.
    In tutto l'album prevale una vena essenziale senza troppi barocchismi, ma proprio questo lo differenzia e alla lunga lo fà preferire agli album successivi, mai più i Coldplay saranno così essenziali, inglobati dal mainstream, dal gossip e dall'impegno sociale di Chris preferiranno scegliere una strada da Cult Band sicuramente prodiga di successi ma molto meno di sensazioni,.
    Le opinioni su quale sia il loro album migliore possono variare, ma volendo scegliere un album "vero" che li rappresenti al meglio allora questo é senza dubbio Parachutes

    Parachutes é per molti versi un album fatto da un'altra band, di questi Coldplay rimane poco o niente ma proprio per questo é forse il loro album migliore, da riscoprire.


  13. #73
    Kelvan
    Ospite
    Trivium - The Crusade
    Thrash Metal
    2006





    1. "Ignition" - 3:54
    2. "Detonation" - 4:28
    3. "Entrance of the Conflagration" - 4:34
    4. "Anthem (We are the Fire)" - 4:03
    5. "Unrepentant" - 4:51
    6. "And Sadness Will Sear" - 3:34
    7. "Becoming the Dragon" - 4:43
    8. "To the Rats" - 3:42
    9. "This World Can't Tear Us Apart" - 3:30
    10. "Tread the Floods" - 3:33
    11. "Contempt Breeds Contamination" - 4:28
    12. "The Rising" - 3:44
    13. "The Crusade" - 8:18

    I Trivium sono nel bene e nel male, il gruppo che ha dato la scossa finale ad una bestia addormentata, non hanno risvegliato o reinventato il Thrash Metal ma hanno dato una spinta significativa a rilanciare definitivamente questo genere come uno dei più adorati dai giovani Headnabgers di oggi, che non può essere contestata dai tanti che criticano Heafy e soci come dei cloni troppo melodici dei Metallica.

    Partiti come gruppo Metal-core, i 4 ragazzi di Orlando ne hanno fatta di strada,hanno tutti raggiunto una tecnica invidiosa creando un sound tutto loro, fatto di chitarre dure e precise e caratterizzato dalla voce del cantante/chitarrista Matt Heafy, molto simile alle migliori prestazioni di James Hetfield, ma non per questo un clone.

    The Crusade ha superato le 100.000 copie vendute nella sola Inghilterra lanciando i Trivium sulle bocche di tutti, chi li adora, chi li odia.
    Sta di fatto che la loro ultima creatura è un concentrato di Thrash metal moderno che s'ispira ai fiorenti anni 80.
    Ignition e Detonation conducono l'ascoltatore nei nuovi vestiti dei Trivium, il Growl dei lavori Metal-core è sparito e finalmente le maglie dei Metallica ed Anthrax(che per tanti anni sono stati il più grande punto di forza dei loro nemici) assumono un significato...Thrash!Thrash!Thrash! buone canzoni che però non riescono a fare ciò che Entrance of the Conflagration fà, spaccare lo stereo con assoli monumentali e dare il via ad un Headbanging sfrenato, che purtroppo viene fermato dalla canzone sucessiva, Anthem (We are the Fire) che un Anthem certo non è, non dico che sia una canzone brutta ma le ritmiche non soddisfano e ,anche se il ritornello è da urlare a squarciagola, la prestazione offerta dalla batteria è decisamente sottotono.
    Unrepentant e And Sadness Will Sear fanno rimuovere la testa in su e giù, la prima frenetica e coronata dal migliore assolo del disco, la seconda rallenta ma dispone di un ritornello studiato nei minimi particolari, molto bello.
    Becoming The Dragon e To The Rats si fanno ascoltare ma non riescono a spriggionare al meglio la loro energia.
    This World Can't Tear Us Apart è il titolo di una canzone che farà la gioia di tutte le metallare ed Emo,tiratissima e con un testo fatto e finito per il pubblico femminile, fatto stà che diverra nel tempo un vero Anthem per le ragazze amante dei Trivium.
    Arriviamo così al duo Tread the Floods e Contempt Breeds Contamination che mostrano un Thrash moderno e solo in parte riconducibile al Old School anni 80, i ritornelli sono da urlare, tecnicamente presentano riff ed assoli complessi e trascinanti che portano ai due capolavori del disco.
    The Rising è sinceramente la mia canzone preferita dei Trivium, lavoro di chitarre eccellente assoli grandiosi, basso sempre presente e monumentale, la batteria dà qui la sua miglior prestazione, da coronare insomma.
    Arriviamo alla fine di questo viaggio con The Crusade la strumentale che chiude nel migliore dei modi il disco, non dirò niente, ascoltatela e pensate che la media dei 4 ragazzi è di 21 anni.
    Come è The Crusade?
    è un bellissimo album Thrash, che non viene rovinato da due-tre canzoni sotto la media e che farà felici migliaia di Metalheads.
    Il pubblico, l'età e le capacità sono dalla loro parte, e quindi perche non iniziare a vederli come uno dei gruppi più interessanti dell'odierno panorama Metal?


  14. #74
    Kelvan
    Ospite
    Metallica - St. Anger
    Thrash Metal
    2003





    1. Frantic
    2. St. Anger
    3. Some Kind Of Monster
    4. Dirty Window
    5. Invisible Kid
    6. My Word
    7. Shoot Me Again
    8. Sweet Amber
    9. The Unnamed Feeling
    10. Purify
    11. All Within My Hands


    Come sono i Metallica del nuovo millennio,cosa cavolo hanno per la testa?
    Sono queste le due domande che milioni di Metalheads dopo aver ascoltato St.Anger, ultima fatica del gruppo che ha inventato e mostrato la via del Thrash Metal, si pongono.

    Dopo 8 anni di attesa (le canzoni comparse su Re-load erano state registrate durante le session di Load) cosa ci hanno dato i Metallica?
    St.Anger è un disco mediocre, il peggiore dei Metallica (dopo re-Load a chi sembrava possibile?) che nasconde in un Thrash violento una carenza di idee paurosa.
    Potrei finire la recensione dicendo che l'album è privo di assoli (Kirk poteva rimanere a casa), la voce di Hetfield è un gurguglio insensato che canta testi imbarazzanti (bocciato) e che la batteria pare un cassonetto dell'immondizia.
    Potete dire tutto quello che volete, ma se mi criticate dicendo <St.Anger &#232; il ritorno dei veri Metallica. re del Thrash> perder&#242; la voglia di vivere.
    Chi sono i Metallica di oggi?
    Sono delle copie imbarazzanti di un gruppo che ci ha regalato capolavori come Kill'em All, Ride The Lightening, Master of Puppets,...And Justice for All e, pur essendo schivo ai prodotti troppo commerciali,Metallica.
    I Riff sono rubacchiati dal Nu Metal, i padri hanno copiato i figli insomma.
    Un solo consiglio, se cercate Thrash e musica buona, spendete i 20 euro del mese per un altro disco, se invece volete rovinarvi definitivamente un mito..siete liberi di farlo.


  15. #75
    Kelvan
    Ospite
    Radiohead – In Rainbows
    Rock
    2007






    1. 15 Step
    2. Bodysnatchers
    3. Nude
    4. Weird Fishes/Arpeggi
    5. All I Need
    6. Faust Arp
    7. Reckoner
    8. House of Cards
    9. Jigsaw Falling Into Place
    10. Videotape
    Thom Yorke: voce, chitarra acustica, piano
    Jonny Greenwood: chitarra elettrica, computer, macchinari
    Ed O'Brien: chitarra, voce
    Colin Greenwood: basso
    Phil Selway: batteria, percussioni



    Che cosa distingue un capolavoro da una pietra miliare (passatemi questa definizione da “ondarocker”)? Cosa deve avere un disco per rimanere? In quali casi uno o più artisti si possono definire “influenti”?
    Sono tutti interrogativi che vengono posti ogniqualvolta un nuovo disco dei Radiohead è in commercio, per cui oggi li riporto in ballo.
    Dunque, rieccoci dopo quattro anni di silenzio pressoché totale. Dopo HTTT e relativo Tour, i Radiohead si sono presi una lunga pausa: Thom Yorke si è dedicato a tempo pieno al mestiere più duro, quello di padre, e l'anno scorso ha sfornato una godibilissima opera prima da solista, The Eraser. Jonny Greenwood, la variabile impazzita dei RH, ha curato alcuni progetti musicali autonomi e diverse colonne sonore, tra le quali quella del film-documentario “Bodysong”.
    Scaduto il contratto con la major EMI, i RH hanno provato a battere nuove strade, come d'altronde è nella loro indole, affidandosi ancora una volta al fido Nigel Godrich, dopo che molte voci avevano affermato il contrario. Troppo importante l'impronta del produttore, a tutti gli effetti un membro del gruppo; i RH non possono più fare a meno della sua duttilità, confermata ancora una volta con la produzione del disco solista di Yorke, così diverso dalle sonorità tipiche dei RH, e nello stesso tempo così familiare.
    Ma si parlava di capolavori e pietre miliari, se non sbaglio. Un capolavoro è un'opera d'arte che, volenti o nolenti, si impone a noi, la si ama o la si odia senza mezze misure, se ne discute per anni, si cita come termine di paragone, se ne scopre sempre una parte che prima non si era colta.
    E arrivo subito al dunque (“subito” per modo di dire, ho già scritto quasi una pagina): In Rainbows non è un capolavoro, e senza dubbio non si tratta del miglior lavoro del quintetto oxfordiano. Sebbene la favolosa “15 Step” (che entra di diritto in un ipotetico “best of” dei RH), incipit del disco, sia devastante come ci hanno abituato Thom e soci, il resto del disco alterna momenti notevoli ad altri meno riusciti. Se le tracce 2 e 3, rispettivamente l'incazzatissima “Bodysnatchers” (la parente più prossima delle sonorità di OK Computer) e la magica “Nude” (in assoluto un “traditional” live dei RH, risalente a prima di Kid A, quando si chiamava ancora “Big Ideas”) sono ancora di altissimo livello, un gradino sotto sono l'insipida “Weird Fishes/Arpeggi”, gli echi Cure di “Reckoner” e lo scontro frontale tra le sonorità di HTTT(per fortuna mondate delle velleità politiche che da alcuni anni a questa parte sembrano diventate obbligatorie per sentirsi “artisti impegnati”) e dei Subsonica se questi ultimi avessero un cantante degno di esser definito in tal modo: la canzone di cui sto parlando ovviamente è “Jigsaw Falling Into Place”. Per non parlare poi del simil-reggae digitale abbastanza squallidino di “House of Cards”, che stona anche in questo disco che è sì un album pop (come giustamente sottolineava $more$, il quale, se è stato internato per questo, propongo una petizione per liberarlo), ma pop “à la RH”, cioè di altissima qualità.
    Menzionati il meglio e il peggio dell'album, cito volentieri le rimanenti canzoni, cioè “All I Need”, che mostra il lato più post-romantico dei RH, il sapore mediorientale dei ritmi sghembi e degli archi straziati “made in Greenwood” di “Faust Arp”(unico, vero brano del tutto inedito del disco) e la delicata quanto inquietante chiusura di “Videotape”, sul cui tipico piano singhiozzante di Thom si innesta un sospetto ritmo marziale della batteria di Phil Selway (in assoluto il RH più in evidenza in questo disco, con la sezione ritmica predominante per tutto l'album).
    Ma si parlava anche di “pietre miliari”, che molte volte coincidono con i capolavori, ma che sono cose nettamente diverse: una pietra miliare è un'opera d'arte che definisce qualcosa di nuovo, che si tratti di una sonorità, un genere (ma ha ancora senso parlare di generi come compartimenti stagni? O meglio, ha mai avuto senso parlarne?), un'idea, un modo di fare le cose, e che segna una nuova partenza, una strada nuova da percorrere (funzione che avevano appunto le pietre miliari secoli fa).
    Ed in questo senso In Rainbows è una pietra miliare importantissima, che segna un modo nuovo di concepire la produzione musicale e il mercato discografico. Questo disco, in quanto messo a disposizione a prezzo arbitrario dell'acquirente, dimostra che la musica può fare a meno dell'industria musicale, in modo semplice, ma potentissimo. E' la prova che fortunatamente l'arte può ancora essere indipendente dal dio denaro.
    Che poi i RH siano già multimilionari, e che di sole royalties dei dischi precedenti e introiti derivanti dal prossimo tour incasseranno ancora tonnellate di quattrini, mi sembra una realtà indiscutibile. Ma il messaggio che lanciano Yorke e compagni è un messaggio di speranza, di incoraggiamento verso i ragazzini cui si illuminano gli occhi quando il padre gli regala la loro prima chitarra, verso quelli che imbracciando il loro strumento per scrivere una canzone o davanti a un pubblico (che sia Wembley o un paio amici in riva al mare) sentono ancora dentro una gioia infantile e potente verso la musica, verso l'arte.
    Ancora una volta i RH arrivano prima degli altri e aprono la strada, come fecero sette anni fa con la svolta di Kid A che spiazzò il mondo. Ma se allora il muro che abbattevano era “solo” di natura musicale, il muro che cade oggi è molto più spesso e resistente. E' il muro dello sfruttamento artistico.
    Certo, la strada che si profila oltre questo muro è tutta in salita e molto impervia, ma l'oasi che si vede in lontananza è dannatamente invitante. I RH si sono già messi in cammino, i Nine Inch Nails di Trent Reznor sono ai blocchi di partenza. Chi viene con noi?


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