Premetto che dalla data questo articolo può sembrarvi vecchio, invece è molto attuale.
Italia, Paese
che non produce più
Dietro il crollo della produzione, dice il banchiere Gianni Tamburi, c'è un profondo malessere del tessuto industriale del Paese e soprattutto le inedite difficoltà dell'export.
di Giuseppe Turani
Da Affari & Finanza (Repubblica) di lunedì 17 febbraio 2003
Milano. "Fra le imprese italiane la crisi c'è ed è terribile. Spesso si tratta anche di crisi senza via di ritorno: le aziende hanno la sola possibilità di uscire dal mercato. E non si tratta di casi isolati, è un fenomeno molto diffuso e generalizzato. I pochi imprenditori che stanno bene, con i conti in ordine, sono assediati da quelli a cui è andata male e che vogliono vendere, naturalmente a prezzi abbastanza stracciati". Gianni Tamburi, banchiere d'affari milanese molto attivo nel campo delle fusioni e acquisizioni, squarcia il velo che copre la crisi delle imprese italiane e rivela una situazione che di rassicurante non ha proprio niente.
Che tipo di cliente bussa alla sua porta di questi tempi?
"Sostanzialmente abbiamo tre categorie: quelli in difficoltà, le multinazionali e i fondi di private equity".
Possiamo cominciare con i clienti del primo tipo, quelli in difficoltà?
"In genere si tratta di piccole e medie aziende. Arrivano e spiegano che hanno accumulato troppi debiti e che quindi non ce la fanno più a tirare avanti. Hanno troppi debiti o perché si sono espansi troppo o perché gli affari vanno male. Tenga conto che in molti settori i fatturati sono scesi in modo drammatico, anche del 20-30 per cento. E, dove il lavoro non è diminuito, spesso hanno dovuto praticare prezzi più bassi. Morale: l'azienda non sta più in piedi. E allora vengono a bussare alla mia porta o a quella di miei colleghi".
E che cosa cercano?
"Qualcuno che li compri. Quasi sempre sono consapevoli di essere in ritardo. Sanno cioè che il momento non è buono. "Abbiamo perso un'occasione anni fa dicono. Ma veda se riusciamo a fare comunque qualcosa". Insomma, cercano qualcuno più forte, più prudente, disposto a rilevarli".
E si trova?
"Non sempre. Anzi, è molto difficile. C'è qualche caso. Magari un altro imprenditore dello stesso settore, che ha soldi di famiglia o la moglie ricca, e che vuole tentare la sorte. Ma è difficile trovare gente disposta a comprare un'altra azienda".
E allora che cosa fate?
"Poiché sono tanti a trovarsi nella stessa situazione, molte volte proponiamo e organizziamo delle fusioni, delle concentrazioni. Creiamo delle aziende più grandi. E questo non è male. Quello che non si è riusciti a fare anni per decisione spontanea, adesso si fa per necessità".
Quali sono i settori che vanno male?
"I tradizionali pilastri della piccola e media industria italiana: meccanica e elettromeccanica. Qui ci sono difficoltà nell'esportazione verso Stati Uniti, Germania e Giappone. Inoltre, più nessuno investe e quindi chi fa macchine utensili e altre apparecchiature si trova davvero messo male".
Altri settori che stanno pagando questa crisi?
"Tutto il settore tessile-abbigliamento, lusso, made in Italy, design. Qui sono due anni di fila che i consumi sono in contrazione. E quindi si può immaginare in che stato sono i conti di queste aziende. Ci sono casi drammatici. Piccole e medie aziende di design o di abbigliamento che fino a due anni fa erano corteggiate da mezzo mondo e che adesso, invece, letteralmente non vuole più nessuno, quasi avessero la peste".
E che cosa fate in questi casi?
"La solita cosa: cerchiamo di organizzare delle fusioni. Cerchiamo di tirare fuori delle aziende che abbiano un senso. In qualche caso, fortunato, si riesce ancora a trovare un compratore".
Che però pagherà poco [85]
"Certo. Se un paio di anni fa un'azienda poteva essere venduta per 100 milioni di euro, oggi ne porta a casa con molte difficoltà 60. Diciamo che i prezzi sono scesi del 40 per cento. In questi periodi di crisi, peraltro, va giù un po' tutto. Anche gli immobili per uffici stanno precipitando, come era logico attendersi".
Poi c'è il secondo tipo di cliente: le multinazionali. Sono in crisi anche loro?
"In un certo senso sì. I conti non sono più quelli di una volta, e allora decidono di dimagrire e di concentrarsi sul core business. E allora vengono da me e dai miei colleghi per piazzare sul mercato l'aziendina che magari avevano comprato qualche anno fa e che contavano di sviluppare, ma che oggi non interessa più. Insomma, tirano i remi in barca e ci sono tante cose che rimangono fuori dalla barca".
E voi a chi le date queste aziendine dimesse dalle multinazionali?
"Ci sono due strade. Prima di tutto cerchiamo qualche imprenditore del ramo, dello stesso settore, che abbia i conti in ordine e che abbia ancora voglia di scommettere e di crescere. Non sempre, ma qualche volta questa ricerca riesce e allora si costruisce un'azienda più grande, che poi potrà affrontare la ripresa da posizioni migliori".
E quando la ricerca fallisce?
"C'è l'ultima possibilità, e riguarda i clienti del terzo tipo: i fondi di private equity. Questi sono fondi che hanno dei capitali e investono nella maggioranza delle imprese. Acquistano cioè la maggioranza di aziende, le fanno funzionare (magari le fondono c on altre aziende dello stesso settore) e dopo qualche anno, se le cose sono andate bene, le rivendono, con un certo guadagno ovviamente. In pratica si sostituiscono all'imprenditore che ormai è troppo indebitato e che non ha i mezzi finanziari per risollevarsi da solo".
In Italia ci sono tanti fondi di private equity?
"Tantissimi e con montagne di denaro a disposizione: almeno dieci mila miliardi di euro, in questo momento. Però non sono molto coraggiosi".
In che senso?
"Comprano poco, tengono i soldi in cassa. Potrebbero fare molto di più".
Mi tolga una curiosità. Se non si trova un compratore e se non c'è un fondo di private equity disposto a intervenire, ma l'azienda è soffocata dai debiti, che cosa si fa?
"Un classico del nostro mestiere: una bella riunione per la ristrutturazione del debito. Si mettono intorno a un tavolo le banche creditrici e l'imprenditore in difficoltà. Le banche possono farlo morire subito, ancora prima di bere il caffè che di solito si offre in queste riunioni, oppure possono accettare di discutere un piano di ristrutturazione del debito".
In che cosa consiste? I debiti sono debiti, se uno non ce la fa a pagare, non ce la fa, che altro si può inventare? Anche perché la strada della quotazione in Borsa mi sembra che non esista più.
"Con il tempo siamo diventati tutti molto creativi. E si possono fare molte cose. Il concetto di base è uno, però. Poiché questo imprenditore non riesce a pagare gli interessi sui suoi debiti, facciamo in modo che adesso non debba pagarli (o debba pagarli in misura minore), pagherà di più fra qualche anno quando, si spera, le cose andranno meglio. Questo comporta dure contrattazioni fra le parti, garanzie, ecc., ma a volte funziona. In sostanza, le banche si accontentano per un po' di incassare meno interessi con la speranza di farsi ripagare dopo".
In tutta questa crisi la new economy come è messa?
"Malissimo, salvo qualche rara eccezione. Sta andando un po' tutto a rotoli".
E che cosa si fa?
"Vedo che poco a poco le aziende di new economy che hanno un senso finiscono integrate dentro aziende di old economy più solide. Questo, d'altra parte, mi sembra essere il loro destino".
Quale è l'aspetto più negativo di questa situazione?
"Non vedo più compratori strategici. Salvo qualche eccezione, chi ha un'impresa fa già fatica a tirare avanti da solo e quindi non è molto interessato a comprarsi quelle confinanti per crescere. A comprare sono, soprattutto, i fondi di private equity, quando pensano che dalla cosa si possa ricavare un guadagno. Insomma, vedo solo operazioni finanziarie o difensive. Salvo qualche buona fusione che si riesce, di quando in quando, a combinare".
Lei vede tutti i giorni aziende piccole e medie, legge i loro conti, parla con i loro managers e proprietari, ci sono segni, anche deboli, di ripresa, di un'inversione di tendenza?
"No, zero".
(17 febbraio 2003)
Ho evidenziato le cose che rispecchiano il mio parere.