Una recensione de Gli Spietati con cui mi trovo d'accordissimo (occhio che per chi non l'ha visto c'è qualche spoiler):
Spoiler:
Il maturo illusionista scettico contro la giovane medium che “sente” le vibrazioni. Prima Stanley/Firth è uno scentista che non crede al sovrannaturale, un sarcastico che respinge l’invisibile, sia il mondo degli spiriti che quello dei sentimenti. Poi (primo rovesciamento) egli non trova alcun trucco, si convince e “apre” all’immateriale: Sophie/Stone prova a insinuarsi nel cambiamento e coltivare l’ipotesi di una relazione. Rivelato l’inganno (secondo rovesciamento), Stanley torna sulla terra a archivia il mondo di sopra, ma (terzo rovesciamento) realizza un nuovo terreno impalpabile in cui credere, quello dell’Amore. Lo schema di Allen si ri-produce automatico, i rovesciamenti avvengono meccanici: le caratteristiche dei protagonisti si ribaltano più volte (non credere/credere, respingere/amare) ma la sostanza non cambia, impaginata in traccia comedy su sfondo romantico. Il soggetto è un’opposizione di prammatica, i punti di svolta tutti archetipici (il guasto al motore, la notte all’osservatorio, il bagno a mare), la regia elementare e sbrigativa, la fotografia sbiadita e incolore, gli attori macchiette sottotono (Firth gigioneggia, la Stone non dà spessore, invisibili gli altri).


Disarmante la scrittura delle figure di contorno, breve riassunto di caratteri for dummies: il rampollo sciapo che suona l’ukulele; la madre credulona che abbraccia lo spiritismo; la zia mentore, custode del romantico contro il pensiero razionale. Il simbolo è trasposto di peso dal solito “simbolario”, il titolo rende il topos uno slogan (una magia alla luce della luna come due ragazze a Barcellona, una mezzanotte a Parigi, a Roma con amore). A una seconda lettura, poi, la magia è la commedia e per metonimia il cinema alleniano (meglio: la capacità di ottenere un parto creativo, la costruzione di una storia). Sophie/Woody sembra esercitare una magia autentica, ma in realtà il trucco c’è e vuole essere smascherato: Stanley/Woody è il razionalista che smonta l’inganno. Allen è sia lo scettico che il credente, oscilla tra entrambi: vuole ingannare con l’illusione di fare un film, ma vuole anche essere scoperto. E Allen è, soprattutto, la soluzione comoda che questo contrasto produce: l’amore è l’unica magia, che supera sia il trucco sia il suo svelamento, compone gli opposti nel bisogno di credere (e far credere), sfiducia le posizioni del pensiero a favore del sentimento.


Dopo Londra, Barcellona, Parigi e Roma, Allen filma un’altra puntata nella serie di se stesso: un serial fuori tempo, lontano dalla serialità 2014, che ricorda i telefilm con il case of the week per la riproposizione continua della stessa puntata, con sole variazioni di tempo e luogo, come applicando la riconoscibilità prima serata a un ex cinema d’autore. Procedural potenzialmente infinito che, a scelta, può fermarsi o proseguire, svanire col regista Allen o continuare ripetuto dalla sua troupe in catena di montaggio. Un modulo più che un brand, quindi, che si ripete prestampato per essere duplicato ovunque: per questo Magic in the Moonlight è un film di genere, dove il genere è “film di Woody Allen”, è un post film d’autore che diventa blockbuster, caso unico nella storia del cinema (ci prova anche Tim Burton), e si riproduce identico a sé. In questo senso, nella spietata auto-esposizione dei resti del proprio linguaggio, è un caso quasi “interessante”: Allen vuole farci credere di credere, ma non convince perché suona insincero, in fondo (forse) non ci crede neanche lui. Si prenda, per tutte, la stanca battuta di Stanley/Firth sulla Morte: «Speriamo tutti che arrivi qualcuno dotato di superpoteri, ma l’unico superpotere certo brandisce una falce» (in italiano) che, nella sua svogliata medietà, umilia in un colpo la lunga “parodia della fine” disseminata nell’antica filmografia alleniana. A proposito di incredibilità, non a caso l’intreccio si chiude col bacio tra un illusionista e un’imbrogliona: un bacio che arriva lentamente, in posa, chiaramente non attendibile, contatto freddo tra marionette prima di annerire lo schermo. E la formalità dei titolo di coda alleniani è continuazione di quel finto bacio.


Al contrario dei cineasti consapevoli, che ricercano pioneristicamente nel linguaggio, Allen non crede alle sue copie ma semplicemente le espone. Una sequenza chiave lo dimostra: Stanley “spacca” la scena sentimentale all’osservatorio e si addormenta. Egli perde i sensi e apre a un’altra dimensione, la zona del sonno che oscura lo spazio della realtà. Il calco oggi è così inverosimile che tanto vale smettere di guardare: quella pausa dalla ragione, il breve stop di Woody davanti al codice ripetuto, confessa un’impotenza e diventa l’unica “scena vera” del film, quella più sincera e sconsolata. Chiudere gli occhi è l’addio definitivo al proprio linguaggio.
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