È una domenica sera d’agosto. Mia figlia dorme, mia moglie sta lavorando all’uncinetto ed io, con una birra fresca a tenermi compagnia, sono davanti ad un cursore che lampeggia (e campeggia) solingo, sulla distesa bianca di una pagina di Word: più penso a cosa scrivere di Gone Home, meno mi vengono le parole. Eppure è strano, si tratta solo di una semplice avventura grafica in prima persona basata sull’esplorazione, senza dei veri enigmi, che non dura nemmeno il tempo di una partita di pallone e che costa addirittura 19 euro! Roba da matti…
La verità dei fatti è che il fine ultimo di Gone Home non è quello di intrattenere con un gameplay raffinato, quanto quello di raccontare una storia. In molti, là fuori, sostengono che un videogioco che non fa delle meccaniche di azione e reazione la sua ragione d’essere non merita di essere considerato tale. Tuttavia, io sono sempre stato contrario a queste forme di ottusità mentale, ritenendo che il gameplay sia uno strumento molto duttile, che si presta anche a diventare veicolo di un messaggio, di un pensiero personale o di un insegnamento. Ecco: Gone Home è un’esperienza di gioco formativa, non troppo dissimile da quella (passiva) offerta da Il Giovane Holden di J.D. Salinger (1951), giusto per citare il primo romanzo “di formazione” che mi è venuto in mente. Al pari del ben più noto racconto dello scrittore statunitense, Gone Home narra un frammento dell’adolescenza di Samantha, una ragazza cresciuta in una famiglia ordinaria e borghese negli Stati Uniti degli Anni ‘90 (epoca in cui sono ambientati i fatti), facendolo attraverso gli occhi della sorella Katie, rientrata a casa dopo un lungo viaggio in giro per il mondo e inconsapevole di quello che, durante sua assenza, era capitato alla sua famiglia.
Entrare nel merito di quello che accade una volta varcata la soglia di casa significherebbe rovinare, a chi legge, la sorpresa di scoprire personalmente i dettagli anche più grossolani di quella che, come dicevo poco fa, altro non è che una piccola avventura grafica senza particolari enigmi (se escludiamo quello di trovare dei passaggi segreti grazie alla mappa e un paio di chiavi nascoste nella grande villa in cui è ambientato il tutto). È altresì impossibile non sottolineare quanto sia efficace il senso di progressione che gli sviluppatori (ex 2K Marin e autori del DLC Minerva’s Den per BioShock 2) sono riusciti a dare all’intera vicenda.
Dal momento in cui Katie mette piede nell’androne di casa a quello in cui scopre cosa sia accaduto, io sono rimasto con il fiato sospeso, rapito dalla ricchezza di informazioni che stavo raccogliendo e che contribuivano a definire personalità, vizi, debolezze e limiti dei singoli componenti della famiglia. In quei novanta minuti che dura, Gone Home tratteggia i contorni dei personaggi coinvolti, raccontandoli con chiarezza ed esaustività, senza mai scadere in logorroici wall of text biografici (che nel 2013 non avrebbe letto nessuno), sfruttando l’interazione del giocatore con l’ambiente circostante: una tazza con una scritta originale, un libro sul comodino o un cartone della pizza abbandonato sul divano sono tutti elementi che permettono di scoprire particolari e abitudini della persona a essi collegata. La competenza dei ragazzi di The Fullbright Company, però, trova vero compimento nei brani legati alla vicenda di Samantha, che si susseguono con un ritmo incalzante, sicuramente studiato a tavolino, che impedisce l’effetto disorientamento (la casa, come detto, è molto grande).
Gone Home è un videogioco eccezionale, uno di quelli che ti ricordi per le emozioni che ti ha regalato, per la qualità della sceneggiatura e per il tema affrontato. Vero è che il mercato dei videogiochi indie ci ha da tempo abituato a prodotti “scritti” con grande mestiere, capaci di esplicitare stati d’animo peculiari e straordinari stralci di vissuto, ma anche avventure paradossali o incubi da esorcizzare. Penso a The Stanley Parable, a One Change, a Unmanned, a Key of a GameSpace o a Personal Trip to the Moon (ma potrei continuare ancora); mi chiedo, quindi, perché Gone Home abbia avuto una così grande copertura mediatica… senza riuscire a spiegarmelo, se non nei termini in cui i membri del team sono tutti veterani del settore e sono stati abili nel presentare il loro prodotto nel migliore dei modi. Una cosa, però, va detta. I titoli citati, così come gli altri non menzionati, sono tutti freeware, sviluppati per il piacere di “lanciare nel mare una bottiglia” contenente il proprio messaggio. Gone Home, invece, costa 19 euro… e non riesco a capire se in quella pagina di Word che sto per salvare, chiudere e inviare ad AliasGV, io debba consigliarvene l’acquisto, o meno.