Song to Song – Recensione del film di Terrence Malick

C’è un’emozione, negli occhi e nella voce di certi grandi artisti, che ti fa mancare un battito per l’immenso e inafferrabile contenuto di verità che porta con sé. Questo e tanto altro non troverete in Song to Song, il nuovo film di Terrence Malick in uscita oggi nelle sale italiane. La buona notizia è che Ryan Gosling non canta. La brutta è che Malick non è come il vino: invecchiando, peggiora.

Song to Song è ambientato ad Austin, capitale della musica live nel mondo. È una storia d’amore fra due musicisti emergenti, BV (Gosling) e Faye (Rooney Mara). A triangolare la dinamica c’è Cook (Michael Fassbender), produttore, playboy, manipolatore ed esibizionista. Fra le pieghe delle loro certezze s’insinuano, per più o meno tempo, altri personaggi, altri amori (Cate Blanchette, Natalie Portman). Mentre i protagonisti si perdono e si ritrovano, la voce narrante di Mara riflette sulla propria individualità, che pare nutrirsi morbosamente di senso di colpa. Della trama non può essere detto nient’altro, perché non è pervenuta.

Song to Song danza delicato, per due ore e passa, intorno al tema della fama, degli eccessi da rockstar, e della salvezza dai primi due. Vorrebbe essere un film sull’importanza dell’amore e sul significato della felicità. Ed è deludente (per chi s’era illuso) scoprire che un regista del calibro di Malick abbia pensato che – per realizzarlo – bastasse assoldare gli attori più in voga della naif generation hollywodiana, far loro pronunciare frasi che neanche i Baci Perugina, e inserire delle scene con delle icone come Iggy Pop, Patti Smith e Red Hot Chili Peppers.

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“Tieni duro, piccola. Un giorno tutto questo avrà un senso”.

La pellicola di Malick consiste in 130 minuti d’insignificanza, di potenziale inespresso. Un regista di talento che non ha più nulla da dire. Attori di talento che non sanno improvvisare. Tutto quanto li vedrete fare è sussurrarsi, toccarsi, rotolarsi sul letto e sui pavimenti, litigare, guardarsi con occhi di pianto. Insomma, niente che non abbiate già visto fare al vostro gatto.

Ma il problema non è che non ci sia trama, è che ci sono mezzucci narrativi come il papà in stato vegetativo per far vedere Gosling buttar giù qualche lacrima. Né che ci sia la voce narrante, ma che questa dica frasi come “ho giocato con il fuoco della vita“, cristo! Il problema non è che non ci siano dialoghi: ci sono, purtroppo, e di una superficialità sconcertante. Anzi, si potrebbe dire che è sempre lo stesso dialogo (e forse anche la stessa scena) ripetuto come un mantra fino all’esaurimento. Una delle cose buone del film è Patti Smith, la cui grandezza riduce attori come Fassbender al rango di figurine. Le scene in cui c’è lei sono le uniche in cui si assapora qualcosa di genuino. Dovevano puntarle una telecamera addosso e farla parlare per un’ora e mezza. Ecco: quello sarebbe stato un film di gran lunga migliore. Questo qui è un po’ un film come Birdman, ma brutto. E senza jazz!

Non c’è mai un guizzo, mai un’emozione, mai qualcosa che dia un senso. Di musica ce n’è pochissima, il che è strano per un film che s’intitola Song to Song. Se siete musicisti in cerca d’ispirazione, girate al largo. Ma la pellicola potrebbe interessare altre categorie: ad esempio agli architetti. Sì, le case sono bellissime, e tanti gli oggetti di design. E la fotografia di Lubezki…vogliamo parlarne? Spet-ta-co-lo!