Project Zero: Maiden of Black Water – Recensione

Quando Project Zero (o Fatal Frame, come è conosciuto in USA) fece il suo ingresso nella popolatissima libreria di videogiochi in esclusiva per Sony PlayStation 2, molti amanti dei survival horror rimasero piacevolmente stupiti dall’indovinata formula escogitata dall’allora Tecmo. Cavalcando la grande fame occidentale di pellicole horror dagli occhi a mandorla, gli sviluppatori della casa di Dead or Alive e Ninja Gaiden portarono sul monolite nero le tipiche atmosfere di grandi classici come Ju-On (The Grudge), Ringu (The Ring) e lungometraggi similari mescolandole ad influenze esoteriche ed elementi di quel caratteristico folklore storico in cui Oni e fantasmi giocano con le vite di sacerdotesse dai lunghi capelli corvini. Malgrado la serie non sia mai riuscita a registrare vendite degne di nota sia in patria che nelle terre dei gaijin, le affascinanti protagoniste e le originali meccaniche di gioco legate all’utilizzo di macchine fotografiche dai poteri misteriosi assicurarono al franchise una certa fama fra gli appassionati di quel genere videoludico fino ad allora rappresentato per lo più dai colossi Resident Evil e Silent Hill. Con l’arrivo di Nintendo Wii, l’azienda di Kyoto capitaneggiata dal compianto Satoru Iwata si interessò alla serie, acquistandone i diritti e decretandone una nuova genesi in esclusiva per la propria console.

Diverse magagne tecniche e burocratiche finirono per cancellare la pubblicazione occidentale di Project Zero 4, una piccola gemma divenuta esclusiva giapponese e resa giocabile in occidentale idioma solamente negli ultimi anni grazie al lavoro di alcuni fan impegnati in una traduzione amatoriale. L’ultima traccia di Project Zero con tanto di marchio PAL sulla copertina risale a circa tre anni fa, quando dal nulla spuntò sul mercato europeo un remake del secondo amatissimo capitolo in esclusiva per Wii. Questo poteva vantare tutte le caratteristiche introdotte nel quarto episodio, una nuova veste grafica e una storia riscritta per risultare attraente anche agli occhi di chi ebbe la fortuna di apprezzarne lo svolgimento su console Sony. Arriviamo quindi a oggi, a questo “Maiden of Black Water” che abbandona la numerazione della serie e si propone come vero e proprio battesimo “Made in Nintendo” su scala mondiale. Che Koei Tecmo e Nintendo brancolassero un po’ nel buio quando si trattava del futuro di questa saga lo si era già intuito dalla mancata pubblicazione di Project Zero 2 Wii Edition in America. Non stupisce quindi sapere che i nostri cugini del Wisconsin debbano ancora una volta subire un trattamento di sfavore, questa volta limitato a una pubblicazione del titolo Wii U in sola edizione digitale.
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MA POI, QUESTO PROJECT ZERO PER WII U… COM’È?

Parlando dell’aderenza dell’ultimo episodio allo spirito storico della serie si dovrebbero aprire diverse parentesi tonde con puntualizzazioni del caso a manetta, ma per tranquillizzare immediatamente gli appassionati mi limiterò a dire che, sì, chi ha già amato Project Zero in passato può tirare un sospiro di sollievo. Il cast di protagonisti è composto come al solito da un vasto numero di bellezze asiatiche – i volti sono ricavati da quelli delle protagoniste di Dead or Alive a ‘sto giro! -, tutte caratterizzate dall’altrettanto caratteristica flemma di chi non ha mai visto un ectoplasma ma rimane del tutto impassibile a una sua apparizione. Esattamente come il quarto episodio, sicuramente l’iterazione più coraggiosa e innovativa del franchise, torna una narrativa corale in cui i sentieri e le storie personali di più eroi si intrecciano in un racconto diviso in episodi sullo sfondo di una misteriosa montagna che si dice attiri a sé le persone che cercano la pace del riposo eterno.

Questa suddivisione della storia in capitoli stagni è di per sé una trovata che alleggerisce la tensione dell’esplorazione in ambientazioni fatiscenti e lugubreggianti, ma che al tempo stesso svilisce leggermente i toni orrorifici dell’avventura, specie quando ci si rende conto che il ritorno a casa corrisponde sempre all’epilogo di una sessione. Anticipando il ritmo della narrazione, Project Zero: Maiden of the Black Water commette un terribile autogol. E neanche un’ambientazione ispirata e ben realizzata può aiutare quando si deve fare i conti con un immaginario visivo e narrativo stantio, specie se si arriva dall’epilogo degli episodi precedenti. È brutto dirlo, ma la mia impressione è che nel caso si avesse già giocato un qualsiasi episodio della serie si potrebbe facilmente anticipare l’arrivo dei nemici sullo schermo. Ed è facile intuire che in un titolo basato sull’atmosfera e l’apparizione improvvisa di fantasmi urlanti da affrontare in ambientazioni strette e impervie, la prevedibilità non giochi assolutamente a favore.

A complicare le cose ci sono poi il sistema di controllo, talmente meccanico da far pensare di muovere degli enormi cingolati piuttosto che delle scosciate fanciulle, e una gestione della fotocamera in parte offerta in pasto all’oscilloscopio del sempre meno utilizzato Gamepad di Wii U e in parte affidata allo stick analogico destro. C’è da dire che malgrado sulla carta la cosa risulti indovinata e praticamente ritagliata attorno alle potenzialità del paddone della console Nintendo, l’immersività dell’esperienza è continuamente minata dalla scarsa agilità dei protagonisti e dai sensori di movimento, non sempre in grado di restituire con la giusta precisione i movimenti di chi gioca. Oltre all’utilizzo in battaglia, il pad viene impiegato per la risoluzione di banali(ssimi) enigmi ambientali che salutando senza tanti problemi quelli visti nei primi episodi, preferiscono alleggerire la risoluzione degli eventi con indicatori luminosi ben visibili in ogni momento e una mappa sempre consultabile sullo schermo del paddone, mortificando (e di molto) l’esplorazione, praticamente limitata a una ripetizione dello schema “segui l’indicatore, combatti lo spirito”. Persino rintracciare una chiave o un oggetto vitale alla risoluzione di un breve enigma porta automaticamente alla mappa dove un grosso indicatore ricorda dove è possibile utilizzarlo.
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“UNA MIKO” NELL’OSCURITÀ

Vorrei poter dire che la sensazione di essere in una specie di percorso dell’orrore obbligato è mitigata da altri aspetti, come il rinnovato sistema di battaglia che tiene conto dell’inclinazione del paddone durante lo scatto delle fotografie, la possibilità di vedere il triste passato dei nemici “toccandoli” una volta sconfitti o il fatto che i protagonisti possono bagnarsi i vestiti con sommarsi di malus (appena avvertibili alla difficoltà normale) e un effetto voyeuristico da eroge Illusion Soft, ma la realtà è che mentirei. Sono un grande appassionato della serie, ma ciò che ho avvertito giocando a Project Zero: Maiden of Black Water è stato un senso di déjà-vu continuo in cui le poche novità tangibili a livello ludico non hanno certamente ridefinito l’esperienza di gioco come mi sarei aspettato dal suo debutto su Nintendo Wii U.

Discorso un po’ più semplice per il comparto tecnico della produzione, capace di reggere il confronto con gran parte di ciò che si è visto su Nintendo Wii U negli ultimi anni e comunque impreziosito da ottimi modelli poligonali delle protagoniste femminili. È oltretutto uno dei pochi videogiochi giapponesi usciti di recente in cui il dettaglio grafico delle ambientazioni non è sacrificato sull’altare della piacenza dei protagonisti, eppure inspiegabili rallentamenti spuntano dietro l’angolo, specie sulle battute finali, quando gli scontri si fanno più lunghi e i nemici più numerosi. Ottima, invece, la possibilità di selezionare per la prima volta nella storia occidentale della serie il doppiaggio giapponese, di tutt’altra fattura rispetto alla mediocre e spesso non sincronizzata col labiale traccia anglofona.
Completando l’avventura che si estende per circa 14 capitoli dalla durata di un’oretta circa ciascuno si sbloccano diversi bonus. Oltre alle trivialità estetiche come costumi addizionali e accessori con cui agghindare gli eroi (e, no, niente costumi sexy della versione giapponese, ahinoi!) sono inclusi livelli di difficoltà supplementari (benaccetti, considerando la scarsa sfida offerta dalla modalità normale) e un’avventura con protagonista la violacea ninja della serie picchiaduro Dead or Alive, qui intenta a scappare dai fantasmi alla ricerca di un’amica. Ma dire di più sarebbe un’anticipazione sgradita e vista la scarsa offerta del telefonatissimo impianto narrativo, preferisco non aggiungere nient’altro al riguardo. Solo un appunto: se siete fan della serie aspettatevi degli inattesi ritorni!

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