Berserk and the Band of the Hawk – Recensione

Come descrivere Berserk di Kentaro Miura? Come uno (se non il massimo) esponente del manga dark fantasy giapponese. Un manga che dagli esordi a fine anni Ottanta porta avanti un racconto incentrato sul libero arbitrio, ambizione e destino. Una storia che nei suoi momenti d’oro ha lasciato ben più di una traccia nei lettori. Non c’è quindi da stupirsi di come l’opera di Miura abbia tutt’oggi grande popolarità. Dimostrazioni recenti sono la trilogia cinematografica dell’Epoca d’Oro e la serie animata. Curioso invece come la storia di Guts (o Gatsu) non sia stata mai molto sfruttata a livello videoludico: l’ultimo gioco arrivato in Europa è del Dreamcast. Dieci anni dopo, il compito di una trasposizione pesa sulle spalle di Omega Force. La loro decisione è stata di adattarlo in ciò che viene loro meglio: il mosou.

E’ lui o non è lui? Ma certo che è Bazuso!

Prima e dopo l’eclisse

Tralasciamo le facili ironie sulla lentezza di Miura, e pensiamo per un momento a una cosa: a parte Ken il Guerriero, Berserk è il manga a cui il mosou sta più comodo in assoluto. Abbiamo la vicenda drammatica, un contesto medioevale e fantasy dominato dalla guerra e personaggi memorabili dalla forza sovrumana. In Berserk and the Band of the Hawk c’è esattamente tutto questo. Il gioco ripercorre l’epica di Miura dalle origini fino a praticamente i giorni nostri, una rievocazione che avviene con filmati e dialoghi più o meno statici. Il gameplay vero e proprio passa invece per truculente battaglie dove sbaragliare centinaia di nemici.

La quantità di npc a schermo non manca mai di rendere le battaglie esaltanti.

Concreto e diretto

Per quanto questo appaia come classico, bisogna riconoscere lo sforzo di Omega Force di differenziare Berserk and the Band of the Hawk da tutti gli altri mosou. Se attacchi veloci e potenti rimangono saldamente ai tasti frontali, il salto cambia in uno scatto per gli attacchi non parabili. Al dorsale destro viene invece affidata l’arma secondaria, che fa da supporto (stordisce o rallenta) e può essere sostituita a piacimento. Anche l’attacco Mosou cede il passo a una modalità Frenzy, che quando attivata amplia notevolmente le mosse. Il gameplay diviene quindi leggermente più tecnico del solito, e sarà necessario spendere del tempo nello sviluppo del personaggio. Ugualmente, Berserk and the Band of the Hawk cerca di aggirare la ripetitività del genere cui appartiene riducendo notevolmente la durata dei singoli livelli, che ora si mantengono sui dieci minuti.

Conseguentemente, gli obiettivi da portare a termine divengono più concreti e diretti, per invogliare il giocatore a completare anche i compiti secondari. Questi sono solitamente performativi (nemici uccisi, distruzione di macchine d’assedio entro un tempo limite) e il loro completamento frutta Behelit. L’ottenimento di questi manufatti (assai familiari ai conoscitori del manga) sblocca artwork e illustrazioni. La decisione di rendere i livelli più immediati ha coinvolto anche il loro design. Prima prolissi e labirintici, ora sono lineari e intelligibili sin da subito. Una scelta di design che però si rivela a doppio taglio: anche se navigabili, le ambientazioni risultano per la maggior parte anonime.

Oltre ai personaggi il gioco abbonda di npc unici, talmente tanti che non è illogico aspettarsi che divengano in futuro giocabili.

La Banda dei Falchi

D’altra parte Berserk è incentrato più sui personaggi che sul mondo che li circonda. Omega Force si è accorta anche di questo: tutte le personalità di spicco del manga sono presenti, con caratteristiche e mosse uniche. Ciascun personaggio poi aumenta di livello, ed è personalizzabile equipaggiandogli accessori o con oggetti consumabili. In ogni caso la maggior parte di loro potranno essere selezionati nel Free Mode, mentre la storia è incentrata (come è lecito) sul solo Guts.

Ampio spazio viene dedicato alla vicenda in sé. Vi sono numerosi dialoghi e eventi facoltativi, che portano in scena eventi che per forza di cose non hanno trovato spazio nelle pellicole dell’Epoca d’Oro. Spezzoni di queste ultime vengono poi largamente impiegati come intermezzi. Ma è proprio da questo amalgama che si generano allo stesso tempo il più grande pregio e il più grande difetto del gioco. La storia viene è sì raccontata con fedeltà assoluta, ma l’alternanza tra eventi, cutscene e spezzoni risulta in una narrazione prolissa. Non poche volte l’azione si spezza eccessivamente, inducendo a saltare tutto per passare direttamente al sodo. La mancanza dell’italiano (il gioco è in giapponese con testi in inglese) non aiuta i curiosi che vogliono approfondire di più l’oscuro universo di Miura.

I nemici più forti saranno agganciabili premendo la levetta destra, come indicato dal mirino in basso.

Zodd, vecchio amico!

Abbiamo volutamente per ultimo l’elemento più innovativo (per il genere): le bossfight. È stata data una notevole rilevanza a questi scontri, tanto da inserirli in livelli appositi. Qui il gameplay perde ogni elemento di massa e il combattimento diviene uno contro uno. Dove prima c’erano obiettivi e rapidità d’azione, ora va trovato il giusto ritmo tra colpi e schivate. Il design più tattico è dato anche dalla strutturazione in fasi della lotta. I boss sono infatti assimilabili ai personaggi, pertanto hanno la modalità Frenzy o variano mosse una volta persa troppa salute. Per quanto le routine risultino leggibili dopo un po’, tale approccio più conservativo è una piacevole novità.

Dispiace quindi vedere come il livello di difficoltà sia ancora troppo basso. Ben pochi sono i momenti in grado di impensierire veramente. Visti tutti gli sforzi fatti per rendere il gioco più tecnico, un simile sacrificio in nome dell’accessibilità risulta ancora più un peccato.

Gli equipaggiamenti vengono acquisiti dopo ogni battaglia, insieme ai materiali grezzi con cui migliorarli.

Estetica rispettata

Berserk and the Band of the Hawk è un gioco piacevole da vedere. I personaggi sono modellati in un riuscito cel-shading, che genera contorni netti e colori carichi. Grande cura è dedicata poi alla resa di armature e oggetti metallici, che rifrangono la luce in maniera potente e sono modellati con cura anche nei personaggi secondari o generici. Corpi e corazze si sporcano e distruggono nel corso dei combattimenti, e per quanto i nemici siano sempre spazzabili via con una certa facilità, è evidente come la resa delle battaglie punti a una certa efferatezza. Il sangue abbonda e si nota, ma l’effetto che genera è più coreografico che impressionante. Contando quanto tale estetica sia importante a partire proprio dal manga, non si può che rimanere soddisfatti.

Il castello di pixel

Anche qui, però, Koei non riesce a staccarsi dai suoi soliti limiti tecnici: il pop-up dei nemici è sempre evidente, e la cura dei personaggi contrasta pesantemente con le ambientazioni, che sono spoglie e poco dettagliate. Qualche balzo di qualità, come ricostruzioni eccellenti di luoghi famosi del fumetto, non basta a risollevare il tutto. Certe texture sembrano provenire direttamente dagli anni Novanta, e gli inediti elementi distruttibili appaiono più come un contentino che una reale aggiunta. Assai meglio il comparto audio: il doppiaggio in giapponese usa il cast dei film e della serie animata, mentre la colonna sonora orchestrale ben accompagna l’azione.