Resident Evil ha inventato un genere e in questa recensione scopriremo se è ancora degno della propria fama.
I giorni in cui siamo saltati sulla sedia per colpa di un dobermann zombie sono lontani, molto lontani. Il mondo è cambiato, parecchio, in tutti i sensi. Senza addentrarci troppo in considerazioni sulla vita odierna, la precarietà dell’esistenza e il futuro sempre più incerto, possiamo affermare senza ombra di smentita che persino nel nostro piccolo, grande mondo dei videogiochi abbiamo assistito a mutazioni epocali (o giù di lì). Le produzioni si sono fatte sempre più estese e complesse, i team di sviluppo hanno raggiunto proporzioni inaudite e, nel contempo, sono giunte sul mercato piattaforme alternative il cui successo spaventa e affascina.
Resident Evil, dal canto suo, è quasi l’emblema di tale inevitabile metamorfosi: da survival horror ingessato ma intrigante, con i suoi enigmi per nulla banali (ma talvolta irritanti), si è gradualmente trasformato in una sorta di sparatutto in terza persona sempre meno inquietante e sempre più dinamico. Le modifiche apportate al gameplay fin dal quarto capitolo hanno generato discussioni infinite fra gli appassionati, creando una frattura insanabile nei fan della prima ora, che di certo non hanno ritrovato le atmosfere di un tempo nel quinto episodio, ancora più votato all’azione.
E ora Capcom, che in questa generazione di hardware ha più volte detto la sua, intende chiudere la faccenda con questo sesto Resident Evil, orfano del villain per eccellenza, Albert Wesker, sostituito da una rediviva Neo-Umbrella e da tutta una serie di personaggi alquanto ambigui, guidati dal desiderio di trasformare l’umanità intera in famelici zombie.
Il colosso giapponese ha investito una quantità esorbitante di risorse per realizzare questa vera e propria opera a base di morti viventi. Con qualcosa come 600 persone impegnate a più livelli, non è difficile immaginare quanto tempo-uomo e quanti soldi devono essere stati investiti nel progetto in questione. Era dai tempi di Resident Evil 2 che non ci veniva raccontata una storia da più punti di vista, ma in questo caso le dimensioni e le proporzioni risultano infinitamente superiori. Abbiamo un totale di quattro campagne, di cui tre immediatamente accessibili e una giocabile, invece, solo dopo aver completo le altre. Si prosegue in coppia, proprio come in RE5, quindi in perenne co-op, anche se in alcuni frangenti ci si ritrova a condividere dei passaggi con tre o quattro personaggi contemporaneamente.
Le coppie, come abbiamo sottolineato nell’anteprima pubblicata nelle scorse settimane, sono formate da Chris Redfield e Piers Nivans, Leon Kenneky e Helena Harper, Jake Muller e Sherry Birkin (dritta dritta da RE2). Su Ada Wong non voglio dire nulla per non rovinarvi la sorpresa, ma sappiate che c’è un motivo ben preciso per il quale le sue missioni devo essere giocate per ultime. In ogni caso, se la fa un po’ con tutti (ehm…), quindi non ha un compagno di merende fisso.
Le differenze fra i vari personaggi sono comunque meno marcate di quanto era logico sperare; a parte gli HUD personalizzati, ciò che li caratterizza è fondamentalmente la tipologia degli strumenti d’offesa che possono portarsi dietro. Leon è polivalente, usa tanto la pistola quanto il fucile a pompa, mentre Chris è esperto in armi pesanti. Jack, di contro, preferisce revolver o fucili da cecchino, ma dovrebbe in compenso menare come un fabbro. Purtroppo, però, non ha più mosse dei suoi amichetti, scelta onestamente discutibile.
Le immancabili manovelle di Resident Evil…
Come è noto, ogni coppia ha la sua bella campagna individuale, anche se finiranno tutte con l’incrociarsi prima o poi, fra l’Edonia (un’inesistente repubblica dell’Est Europa) e la Cina, cosa che oltretutto ha permesso ai game designer di riciclare qualche sezione. Già, non è tutto oro quello che luccica. Del resto, siamo di fronte a un gioco che sfonda le 20 ore senza problemi e da qualche parte l’inghippo ci doveva essere. Fortunatamente, non sono troppe le sequenze che si ripetono, ma è difficile non accorgersene. È comunque interessante notare le differenze fra le varie campagne, dato che Capcom ha cercato di rendere le missioni quanto più in linea con lo stile della coppia utilizzata. Con Leon e Ada ci sono sezioni un filo più cervellotiche (robetta, eh, tipo trovare statue e colpire campane…), mentre Chris e Jack tendono decisamente all’azione. Con Redfield sembra proprio di giocare a un TPS fatto e finito.
Qualche sforzo è stato fatto anche in merito alle abilità attivabili, sorta di perk che possono essere inseriti nei tre slot disponibili. Si tratta di potenziamenti di vario genere, che comprendo caricatori più capienti, maggiore efficacia delle armi, resistenza ai colpi, precisione e via discorrendo. Per fortuna, questi upgrade sono condivisibili con qualunque personaggio, anche perché il gioco è abbastanza avido in merito ai punti, che poi non sono altro che drop sganciati da mostri e zombie assortiti dopo la loro eliminazione.
A completare il tutto, si trovano gli immancabili dobloni nascosti, armi supplementari e le solite piantine da miscelare. Nulla di nuovo sotto questo aspetto, se non per una barra aggiuntiva che permette di utilizzare i cosiddetti “colpi letali”, in grado di uccidere con una singola, scenografica mossa.
Di tanto in tanto, capita anche di salire su qualche mezzo per affrontare determinate sezioni. Abbiamo, quindi, Chris e Piers a bordo di un Harrier o Leon e Helena che se la devono vedere con l’ennesimo carrellino in una miniera abbandonata. Si tratta di momenti non troppo ispirati, quasi tappabuchi, che non aggiungono nulla al gioco.
In generale, la sensazione che si prova dopo qualche ora è di un continuo déjà vu: d’innovazioni, in realtà, ce ne sono poche e se non fosse per la facoltà di muoversi e sparare liberamente, si farebbe fatica a distinguere RE6 dagli ultimi due capitoli (in particolare dal quinto). Capcom si è concentrata sulla spettacolarizzazione oltre ogni ragionevole dubbio, senza risparmiarsi sequenze al limite dell’assurdo (tipo saltare da un elicottero all’altro), mettendo i protagonisti in situazioni sempre più esagerate e impossibili, nonché scriptate fino al midollo. Questa tendenza è così esasperata che non di rado i filmati d’intermezzo finiscono per spezzare l’azione, proponendo soluzioni alla storia un po’ raffazzonate. Forse, i vari Uncharted ci hanno abituati troppo bene, ma è altrettanto vero che Resident Evil sembra,
ancora una volta, bloccato nei soliti schemi. Non c’è dubbio che il tutto sia volutamente esagerato e degno dei film di Paul W. S. Anderson, ma ogni tanto è difficile non esclamare: “Si vabbeh, e poi?”. Occorre farsene una ragione, Resident Evil non è più un survival horror: è un gioco d’azione, longevo e piuttosto divertente, specie se affrontato con un amico (la I.A. lascia spesso a desiderare), ma che non spaventerebbe una mosca, ormai distante milioni di chilometri dai suoi esordi. Se volete trasalire a ogni passo, Resident Evil 6 non è il gioco che fa per voi, ma rimane pur sempre un’esperienza adrenalinica e priva quasi totalmente di tempi morti.