BioShock Infinite – Recensione

C’è vita oltre all’hype fra le nuvole di Columbia? Dipende se volete credere al Falso Profeta o meno…

Per guardare la videorecensione, clicca qui.

Che questo sia uno dei giochi più attesi dell’anno è un dato di fatto. Per quanto mi riguarda, BioShock Infinite fa parte di un trittico di titoli che nella mia testa formano, almeno al momento, i possibili GOTY del 2013. A lato di BioShock Infinite ci sono The Last of Us e Beyond: Two Souls, produzioni piuttosto distanti l’una dall’altra in quanto a genere, ma accomunate da una forte componente narrativa. Da sempre ho avuto un debole per i cosiddetti “story driven”, tanto è vero che amo alla follia la saga di Metal Gear Solid, per certi versi il pinnacolo del genere (piaccia o meno).

Potete quindi immaginare che razza di film mi ero fatto per questo ultimo lavoro di Ken Levine, uno che a curriculum si trova robetta come System Shock 2 e, soprattutto, il primo BioShock. Perché diciamocelo, quest’ultimo è stato un vero e proprio apripista per l’attuale generazione di console, con l’elemento dell’acqua non più mero orpello grafico, ma parte integrante del gameplay. La città di Rapture, costruita sul fondo dell’oceano, era un capolavoro di art nouveau e sci-fi, una parafrasi del concetto di uomo/super uomo, la realizzazione dell’ideale utopico di una civiltà perfetta. Quel concetto di tecnologia dell’arte espresso recentemente da Richard Garriott, il quale, pur con una certa spocchia (ma possiamo capirlo), ha messo nero su bianco una realtà che pochi riescono a concretizzare. La giocabilità non deve essere funzionale al tecnicismo, semmai il contrario, altrimenti hai una bellissimo benchmark o poco più.

Levine, quando si è sganciato dall’idea di realizzare un seguito di BioShock, non è andato a coltivare campi di patate, ma si è gettato immediatamente in un progetto ancora più ambizioso. Cinque anni di duro lavoro, buona parte dei quali avvolti nel totale silenzio, fino al momento dell’annuncio ufficiale. Da lì però è stato un continuo inciampo sotto il mero profilo dello sviluppo: a parte i numerosi rinvii, ci sono state non poche defezioni fra le file di Irrational, alcune delle quali tutt’altro che trascurabili; il segno che qualche ingranaggio, a lungo andare, non ha funzionato come previsto. Chi segue questo ambiente da qualche lustro sa bene che in genere simili problematiche sono il sintomo di qualcosa di più grosso e nessuna rassicurazione da PR riesce a tranquillizzare del tutto l’appassionato videogiocatore. Questa lungo preambolo dovrebbe farvi capire che BioShock Infinite non è proprio il capolavoro che era lecito attendersi, e ci sono parecchi motivi a conferma di questa mia affermazione. Dato che la questione è delicata e non vorrei far passare un messaggio troppo negativo, andrò per gradi, analizzando ogni singolo aspetto.

A cosa porterà questa scelta? A voi scoprirlo.

È giusto quindi partire con la trama e, più in generale, il background. Sotto questo aspetto Irrational ha svolto un lavoro sensazionale, creando un mondo, quello di Columbia, davvero strepitoso. La città volante non poteva essere costruita meglio di così, ma quel che stupisce davvero è la direzione artistica, in grado di restituire un’identità architettonica senza eguali. Badate, non è che siamo di fronte a un nuovo Crysis, tutt’altro direi, ma è proprio il classico caso dove l’arte rimpiazza le deficienze tecniche (siam pur sempre di fronte all’Unreal Engine 3) in maniera pregevole, senza cadere nella tentazione di strafare con chissà quale improbabile innovazione grafica (qualcuno ha detto TressFX?).

Ma, al di là del mero aspetto, è il contorno che la fa da padrone. Eventi storici e politici sono fusi con ogni elemento del gioco, dando vita a trame e sottotrame che svelano lentamente dettagli sulla vita dei vari personaggi che gravitano intorno a Columbia. Non voglio addentrarmi in particolari di alcun genere: questo, più di altri, è un titolo da scoprire e assaporare pezzo per pezzo, e ogni dettaglio svelato finirebbe con il sottrarre un qualcosa all’esperienza. Se volete approfondire la questione, abbiamo pubblicato due speciali in merito, uno dedicato a Elizabeth e un altro incentrato sui risvolti sociali e le relative controversie.

Su Elizabeth però tocca tornarci sopra, dato che il suo coinvolgimento nel ruolo di IA permanente ha un peso non da poco sullo svolgimento del gioco. Il rapporto fra Booker e la ragazza appare fin da subito abbastanza contrastato e si evolve nel corso degli eventi in maniera piuttosto interessante. Ciò nonostante, il suo ruolo nel gameplay vero e proprio rimane marginale: la donzella si limita ad aprire qualche serratura usando dei grimaldelli nelle fasi esplorative, mentre nei combattimenti, di tanto in tanto, cercherà di procurarci rifornimenti di vario tipo. È anche in grado di aprire degli squarci nel tessuto spazio-temporale, dai quali richiamare elementi in grado di aiutarci negli scontri (torrette, automi e ganci ai quali appendersi). Nulla di trascendentale, anche perché questi strappi nel continuum sono presenti in posizioni ben precise e non possono essere generati dove ci pare e piace. In genere, comunque, Elizabeth funziona, anche perché il suo essere perennemente fuori dal centro dell’azione aiuta a evitare complicazioni d’ogni genere. Una scelta furba, ma comprensibile.

Elizabeth è un’ottima scassinatrice.

Il grosso del lavoro, l’avrete capito, tocca ovviamente a Booker. Il protagonista parlante di BioShock Infinite non è esattamente uno stinco di santo, e nemmeno il battesimo iniziale lo assolve un granché dai suoi peccati. Del resto si trova a Columbia non certo per un atto di fede: trovatosi in guai seri con persone poco raccomandabili, ha accettato l’incarico suicida di rapire Elizabeth in cambio dell’azzeramento di un pesante debito. Per portare a termine questo sporco lavoro dovrà confrontarsi con un pericoloso antagonista, Zachary Comstock, alias il Profeta: fanatico religioso, xenofobo e razzista, incarna il peggio dell’americanità di inizio secolo scorso, spinta ai suoi eccessi. Non di meno, a guardia della giovine vi è pur
e un essere spaventoso e apparentemente inarrestabile, il Songbird, praticamente ossessionato dal suo ruolo di protettore e carceriere. C’è da dire che, dopo tutto il ciarlare intorno a questa creatura, mi sarei immaginato un ruolo più centrale negli eventi del gioco. E qua mi fermo, ché ho già detto troppo.

Booker comunque non è uno sprovveduto. Da bravo ex-militare sa imbracciare praticamente ogni tipologia di arma, dalle pistole ai lanciarazzi. Ciò detto, saranno ben altri gli strumenti offensivi a sua disposizione: parliamo dei Vigor, a tutti gli effetti una versione alternativa (ma non troppo) dei Plasmidi di BioShock. L’utilizzo, del resto, è il medesimo e si basa proprio sulla possibilità di lanciare attacchi più o meno efficaci, come sfere infuocate, fulmini, uno stormo di corvi e via discorrendo. Nulla di trascendentale, e di certo chi ha percorso le claustrofobiche ambientazioni di Rapture troverà fin troppo familiari questi poteri. Una sensazione di déjà vu che permane per buona parte del gioco, a partire dalle meccaniche di base, come il dover guardare in ogni baule, barile, cassa ecc., per recuperare soldi, proiettili ed energia di vario genere (oltre a quella vitale e ai Vigor, esiste uno scudo in grado di proteggerci ulteriormente). Non mancano neppure i distributori per acquistare upgrade relativi ad armi e Vigor, mentre come novità troviamo dei capi di abbigliamento (che in realtà non vediamo mai) in grado di alterare parzialmente abilità e statistiche, seppur molto alla larga.

Il problema più grosso di BioShock Infinite, del resto, è proprio la sua estrema somiglianza con i suoi illustri predecessori. Bella forza, direte voi, fa parte del titolo! E avete ragione, ma, dopo tutto questo tempo e il martellamento di Levine, trovarsi di fronte alla copia volante di Rapture mi ha un po’ spiazzato, lo ammetto. L’impressione che ho avuto, durante le undici ore di gioco che mi hanno portato ai titoli di coda, è che, dopo mille discussioni e divergenze, Irrational abbia optato per un ritorno alle origini, tagliando con l’accetta le poche innovazione introdotte. Parlo, ad esempio, degli squarci, utilizzati proprio al minimo sindacale e, ancora peggio, dei movimenti sui binari. Considerando quanto è stata pompata questa meccanica fin dai primissimi trailer, mi sarei aspettato di trovarla implementata in maniera più efficace e continuativa; invece, alla fine, trova applicazione giusto in qualche combattimento, risultando utile più che tutto per levarsi di mezzo giusto il tempo per recuperare un po’ di energia.

E questi due chi sono? Non ve lo potete proprio immaginare…

Certo, la libertà di movimento e le dimensioni degli ambienti fanno la loro bella differenza, ma rimane il fatto che Columbia è a tutti gli effetti una città a compartimenti stagni, con tanto di caricamenti a separare le varie zone. Non aspettatevi la libertà di movimento dei Batman firmati Rocksteady: questo non è un sandbox game e le scelte sono tutte piuttosto guidate. Per fortuna sono presenti delle variabili: di tanto in tanto si può decidere se esplorare un’area piuttosto che un’altra, e non mancano neppure porte apribili solo grazie a un certo numero di grimaldelli. Manca, tuttavia, quella componente inquietante che si respirava a Rapture, quell’aria malsana di una civiltà ormai decaduta, che non trova altrettanta forza fra la popolazione razzista e bigotta che anima Columbia. Nemmeno la contrapposizione fra i Fondatori e i Vox Populi convince del tutto, anche perché la storia, per quanto interessante e particolare, tende a diventare alquanto convulsa, sovrapponendo dimensioni alternative ed eventi vari in maniera non proprio limpidissima.

Un plauso invece lo merita la scelta dei brani per la colonna sonora, che spaziano da rarissime composizioni di inizio ‘900 a pezzi ben più moderni, suonati però con gli strumenti di un secolo fa. Mi è capitato di udire una Girl Just Want to Have Fun rifatta con l’organetto, anche se i momenti musicalmente più importanti sono riservati all’immancabile classica, a cominciare dal Requiem di Mozart. Ottimo anche l’adattamento in italiano, che presenta una localizzazione delle voci particolarmente riuscita, anche se il lip-synch di tanto in tanto non è così preciso. D’altro canto, la recitazione, fondamentale per un titolo del genere, si mantiene sempre su ottimi livelli.

L’opera summa di Ken Levine è in definitiva un prodotto controverso fin nel profondo, a partire dalle sue difficili tematiche, fino alla scelta di ritornare a un gameplay in tutto e per tutto simile al primo BioShock. Nulla, però, sembra essere giunto al suo reale compimento e l’odore di compromesso permane nell’aria di Columbia per tutto il tempo. Un vero peccato, che nemmeno il battesimo di Padre Comstock riuscirebbe a mondare.