The end of the f***ing world – Recensione

Perché The end of the f***ing world è stato il mio primo binge watching? È successo tutto così in fretta, io neanche volevo cominciarlo. Dopo il fastidioso chiasso dell’anno scorso all’uscita di Tredici (Thirteen reasons why) ho pensato: “Una ragazzina e un ragazzino molto diversi che trovano nel disagio il punto molle del loro affetto reciproco? No grazie”. Ma è partito il play e, mentre una voce dice “Mi chiamo James, ho 17 anni e credo proprio di essere uno psicopatico”, davanti a me s’imbandisce una tavola bianca di animali morti – uccisi da James che crede di essere uno psicopatico.

Decido di proseguire. Alyssa (Jessica Barden) sta mangiando a mensa con le sue amiche che però comunicano solo tramite social network. Nel timore che mi parta il pippone sui “giovani che non comunicano più”, alzo il sopracciglio. Alyssa – infastidita dalle amiche – si dirige verso lo strambo della scuola, James (Alex Lawther). La voce narrante torna sul ragazzo: “Pensai fosse interessante da uccidere, così feci finta di amarla”. (Bum! Sono stata conquistata)

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La storia va avanti molto velocemente, tutti i miei timori sulle serie adolescenziali vengono disattesi e il ritmo accelera dove generalmente ci buttano i filler, dimezzando così la durata di ogni puntata (venti minuti circa). Perciò, se l’atteggiamento irriverente e intollerante di Alyssa riscontra anche i caratteri sani della responsabilità e dell’affettività, puoi anche solo mostrarmi una donna bianca, bionda e perfetta con due gemelli neonati e con un nuovo compagno fighetto che non ha alcuna intenzione di fare il padre. E se la sociopatia di James non nasconde affatto l’effettiva speranza di aperture future (più o meno drastiche), basta accertarsi che il ragazzo vive solo con un padre che mal cela la sua incapacità psico-affettiva in goffi motti di spirito. Tutto il resto sarebbe stato fuffa.

Si arriva presto al punto di svolta verso il loro percorso di crescita, ma nulla lasci credere che da lì in poi tutto sia prevedibile. Non che The end of the f***ing world punti sull’originalità narrativa, eh, ma non mancano certamente potenziali storie laterali, alcune che insistono sul lato dark della commedia e altre – come quella che riguarda le due poliziotte – che rimangono tutto sommato fuori dal focus principale e che hanno perciò l’effetto di piccole boccate d’aria dal faticoso percorso dei due giovani protagonisti.

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The end of the f***ing world è una serie decisamente convincente, rapida, ma non superficiale, e ancora coinvolgente. Sarà la credibilità di Alex Lawther che già nel terzo episodio della terza stagione di Black Mirror (Shut up and dance) aveva dato prova di saper dare spessore ai personaggi con problemi di disfunzionalità psicoaffettive, sarà per la regia delle due menti di Jonathan Entwistle e di Lucy Tcherniak che sanno leggere nell’emozionalità senza appesantirla, The end of the f***ing world ha meritato quello che è risultato essere il percorso inverso di Black Mirror: non andare a buon fine la prima volta (l’anno scorso su Channel 4 della tv britannica) e diventare un successo mondiale su Netflix.

Per il mio primo binge watching, allora, non mi rimane che sperare in ulteriori stagioni che magari aprano la strada a quel vago sentore di piccoli Natural Born Killers (parental advisory).

Pigra isolana, amante della bella stagione e cinefila in pantofole nel resto dell'anno. Attualmente nella capitale si ritrova, come l'Andreuccio, a fare esperienza con una realtà nuova e sfaccettata. Se fra i morbidi pendii delle sue montagne sul mare osservava silenziosa il mondo che la circondava si riscopre adesso un fiume in piena di parole. A subirne le conseguenze è anzitutto il cinema.