Lettera a John Marston

John Marston

Quando con mia grande gioia ho ricominciato a scrivere di videogiochi il primo articolo che mi venne commissionato fu un’anteprima di Red Dead Redemption 2. Lo presi come una sorta di segno del destino. Come un cenno di saluto dall’altro capo del ponte che unisce due mondi distinti. Oggi che quel gioco si intravede all’orizzonte, travolta da un’onda di immagini e ricordi ho la netta impressione che tocchi a me ricambiare il saluto.

Red Dead RedemptionCiao, Signor Marston. Ti infilo questa lettera sotto al cuscino, piano piano, perché tu possa leggerla quando ti sveglierai. So che ti ricordi di me, so che ti ricordi di noi. Ti chiederai che fine abbiamo fatto, immagino. Ecco, lascia che colga l’occasione per raccontartelo.

Lo sai, Signor Marston? Vorrei ringraziarti.

Mi ci sono voluti tanto tempo e tanta pazienza per capire che tipo di persona fosse mio padre. Grande, forte, non ho mai avuto paura quando lui era con me, ma anche taciturno, un po’ lontano a volte. Me lo ricordo con un libro in mano, gli occhiali da lettura sul naso e uno sguardo rapido quando gli passavo accanto. Nel tempo, abbiamo iniziato a riempire i pomeriggi con il suono delle nostre parole, dei nostri discorsi e delle nostre risate. Ciononostante non riuscivo a coinvolgerlo nei miei hobby. Certo, c’era uno scarto generazionale consistente fra noi e avere interessi in comune poteva risultare meno facile del previsto. Eppure, avevo notato che quando mi dedicavo ad un videogioco, lui si fermava a osservare, a volte si lasciava sfuggire qualche commento o consiglio poco applicabile, tipo: io contro boss che riempiva tutto lo schermo. Il suo commento: “Non puoi sparargli un colpo in testa e farla finita?”.

Se però lo invitavo a farmi compagnia, lui se ne andava subito. “No, no, a me non interessa quella roba lì.”

Ma io avevo capito che, invece, un po’ gli interessava. Era curioso, ma temeva lo scoglio tecnologico.

Poi un giorno, mentre spulciavo gli scaffali di un negozio a caccia di un’occasione, ecco che ti vedo spuntare, Signor Marston. Raccolsi il cofanetto di quel Red Dead Redemption che ti ospitava e lo esaminai attentamente. In quel momento realizzai che avevo trovato quello che cercavo. Nota a ogni membro della mia famiglia era infatti la passione di mio padre per i film western. Lui c’era cresciuto, con quei film, con quegli eroi. I Magnifici Sette, Il Buono il Brutto e il Cattivo, Giù la testa…e adesso avevo tutto questo mondo racchiuso in un blue-ray. Tornai a casa di corsa, e gli raccontai subito dell’acquisto. Lui parve un po’ scettico lì per lì, ma io feci la cosa che sapevo mi avrebbe fruttato almeno un tentativo: tolsi la mappa dell’ambiente di gioco dal cofanetto e la dispiegai intera sul tavolo della sala. Il mio papà ha sempre avuto un senso dell’orientamento invidiabile, quasi infallibile e sapeva leggere bene le mappe. Certo non si aspettava che un videogioco contenesse una cartina, e realistica per di più; si avvicinò e iniziò a scrutarla, mentre io gli spiegavo entusiasta che avremmo potuto scegliere come far comportare il protagonista, esplorare i luoghi, cacciare, assaltare o difendere i treni…mi guardò sottecchi, con quel sopracciglio alzato e il suo classico mezzo sorriso di quando gli veniva un sospetto: “Eh ma io non sono capace, lo sai”. “Non c’è problema” gli risposi “io tengo il pad e tu prendi le decisioni. Proviamo?” Sorrise, scrollando le spalle. “Va bene, stasera ci proviamo.”

Fu di parola. Caricammo il gioco e l’incipit lo colpì positivamente, i personaggi e soprattutto tu, Signor Marston, come iniziammo a chiamarti, con quel carattere e quel viso segnato da anni di scelte sbagliate, ma con negli occhi la luce di chi non ha smesso di sperare che prima o poi, di scelta, ne farà almeno una giusta; e poi l’ambientazione e le missioni…prevedibilmente mio padre scelse di fare di te un uomo rispettabile, incaricandosi di decidere cosa fare, mentre io nelle fasi sparatutto, pad stretto tra le mani, ce la mettevo tutta per non farti uccidere male. Quante volte sei stato azzannato dai lupi per colpa mia, che sparavo nel buio in panico e ti facevo sprecare un sacco di proiettili? Dead Eye, vero? Lo so, Signor Marston, quando andavo nel panico proprio me ne scordavo e tu ci rimettevi. E mio papà, che soprintendeva ai lavori, dalla poltrona ridacchiava scuotendo la testa. Sospetto che lui si fosse già arreso molto tempo prima all’idea che sua figlia non sarebbe diventata una provetta pistolera del West, nemmeno per finta. Per non parlare delle scommesse! Sicuramente ti ricordi di quella volta: servivano soldi e subito per fare acquisti, e grazie alla mia eccezionale coordinazione occhio-mano ti ritrovasti ad accoltellarti tutte le dita da solo in rapida sequenza. Lui rideva, lui, da dietro gli occhiali da lettura che gli servivano per mettere meglio a fuoco i sottotitoli. Poi, sempre con quel sorriso divertito: “Magari è meglio che proviamo a domare un cavallo o due al posto di fargli perdere la mano, no?”. Ti ricordi che precisione aveva nello scandagliare l’ambiente attorno a te? Che fosse giorno o notte, che piovesse oppure no, che ti trovassi in campo aperto o meno…se giorni prima ci capitava di trovare quegli schizzi che suggerivano dove avremmo potuto trovare un tesoro, lui si ricordava. “Guarda quella roccia là..no, non quella, l’altra. Mi sembra la stessa di uno di quei disegni”…e lo era. Lo era anche se la pseudo-mappa del tesoro l’avevamo trovata tre giorni prima e guardata solo una volta, per non più di qualche secondo, prima di riporla nell’inventario. Lo era, anche se a me quelle rocce sembravano tutte dannatamente uguali.

Ci siamo divertiti tanto tutti e tre, nonostante tutti gli infortuni a me imputabili ti sei divertito anche tu, Signor Marston, non negarlo. Era tutto bello, era tutto come speravo che fosse, lui si appassionava alla vicenda, io miglioravo e tu morivi meno spesso. Poi però, una sera come tutte le altre, ti mettemmo a dormire come al solito per salvare la partita e spegnere la console. Stavo giusto riponendo il cofanetto al suo posto, quando senza sapere da dove o perché venisse, mi ritrovai a fare un pensiero che mi fece gelare, con la forza di quei presentimenti brutti che puzzano di stupido e ti tolgono almeno un respiro da quelli che ti sono stati assegnati:

è proprio bello, questo gioco. Chissà se riusciremo a finirlo.

Rimasi immobile per un istante, con il braccio ancora alzato verso lo scaffale e le dita sul bordo della confezione di plastica, interdetta. Poi mi scossi: “ma che cavolo vado a pensare?”.

Ancora adesso, Signor Marston, non ho la benché minima idea del perché mi venne quel pensiero in quella sera. Mi piace pensare che avere un legame con qualcuno è come camminare in gruppo tenendosi per mano e quindi se uno inciampa fa traballare anche chi gli sta vicino, e che quel pensiero altro non fosse se non la propagazione di uno sbilanciamento. O forse, più semplicemente fu solo una sciocca coincidenza e in tal caso mi permetterei di insultare il nume addetto alle coincidenze per essere stato così cinico con me.

Dopo qualche tempo, infatti, al mio papà venne diagnosticato quell’orribile mostro che se lo è portato via e che continuo a odiare con tutta me stessa, anche se capisco che è perfettamente inutile prima ancora che sciocco.

E tu, Signor Marston, da allora dormi, non hai mai smesso; non ho più voluto venire a svegliarti, non da sola. Perché la tua avventura era la nostra avventura, e non abbiamo mai visto come andava a finire. Non lo vedrò da sola, né adesso né in futuro. E mi chiedo, ora che tra mille applausi è stata confermata la data di una nuova avventura dedicata (anche) a te e al mondo che ti circonda, mi chiedo se avrò il coraggio di salire in sella di nuovo, cavalcare per quelle terre sconfinate di nuovo, vedere di nuovo il tuo viso con dipinta sopra tutta la vita che ti porti dietro. Tornare nel selvaggio West che tanto piaceva a lui, in quel Videogioco che tanto piace a me, sorprendente punto d’incontro di due vite così legate e quanto mai diverse. Volermi voltare per chiedere un’opinione o fare un commento e non vedere nessuno, se non quella poltrona vuota ormai buona solo per appoggiarci i cuscini.

Sono onesta: non so se ci riuscirò.

Ma come dicevo in apertura, questa lettera te la scrivo in primis perché, dopo aver rivissuto questi momenti con il pensiero nei giorni dell’importante annuncio del tuo ritorno, vorrei ringraziarti. Perché quando si perde una persona cara quel che ci resta sono i ricordi. Ogni momento condiviso si cristallizza mutandosi in una gemma e per quante ce ne siano, non sono mai abbastanza. Sono felice di aver fatto in tempo a condividere con lui almeno un po’ di quella che è una delle mie passioni più intense. Di avere infilate nella collana della memoria alcune perle in cui brilliamo insieme tu, io e il mio caro papà. Non te ne sei reso conto, ma mi hai fatto un gran regalo.

E quindi grazie Signor Marston, grazie di cuore.

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