The Seven Deadly Sins: Knights of Britannia – Recensione

The Seven Deadly Sins Knights of Britannia

Benché pensati per un pubblico maschile adolescenziale, i manga shonen sono il genere più conosciuto al mondo di racconti per immagini giapponesi e spesso travalicano i confini demografici tracciati dalle riviste che li ospitano, venendo apprezzati da lettori e lettrici di ogni età: opere come Dragon Ball, One Piece e Naruto hanno dominato per anni le classifiche di vendita e sono stati trasformati in franchise multimilionari che abbracciano molteplici mezzi di comunicazione, come libri illustrati, cinema, serie TV e, per l’appunto, videogiochi. E’ naturale dunque che, periodicamente, le case editrici tentino di spingere qualche nuova proposta ritenuta in grado di rivaleggiare con le bestie sacre del settore in termini di potenziale successo, e The Seven Deadly Sins (traduzione letterale di Nanatsu no Taizai) di Nakaba Suzuki è uno dei cavalli su cui la Kodansha sta puntando dal 2012: con 29 volumi all’attivo e un totale di oltre 20 milioni di copie distribuite, una seconda serie animata attualmente in onda che segue la prima del 2014, entrambe formate da 24 episodi, svariati spin-off su carta e celluloide, un lungometraggio cinematografico in arrivo entro l’estate nonché due tie-in digitali per Nintendo 3DS e smartphone, era solo questione di tempo prima che le gesta di Meliodas e degli altri Peccati Capitali approdassero su sistemi casalinghi un po’ più carrozzati. Questo The Seven Deadly Sins: Knights of Britannia (Britannia no Tabibito, ovvero I Nomadi della Britannia, che rende meglio l’idea della fase esplorativa del gioco), realizzato in esclusiva per PlayStation 4, si appresta per l’appunto a colmare tale lacuna.

The Seven Deadly Sins: Knights of Britannia
La versione gigante di Diane è molto lenta e non può difendersi, ma di contro il suo potere di Creazione le consente di manipolare il terreno in maniera devastante.

Un autentico peccato non può mai essere espiato completamente

La nostra storia ha inizio in una chiassosa taverna nel bel mezzo delle campagne di Britannia, un mondo fantastico nel quale gli esseri umani convivono con altre razze mitologiche come giganti o creature fatate, gestita da un ragazzino biondo e da Hawk, un buffo maiale parlante. L’arrivo di un temibile guerriero fasciato in una corazza arrugginita, che si rivelerà essere una ragazza di nome Elizabeth, scuote le menti degli avventori convinti che i Sette Peccati Capitali siano tornati, un gruppo di cavalieri rinnegati che dieci anni prima avevano ucciso il Gran Cavaliere Sacro Zaratras nel tentativo di usurpare il trono di Liones, una delle nazioni più potenti della Britannia. Elizabeth, figlia del re di quest’ultima, è in realtà alla ricerca dei sette perché consapevole della loro innocenza, poiché il golpe venne orchestrato dagli altri Cavalieri Sacri che ne approfittarono per imporre l’ordine marziale: il taverniere si rivela essere proprio Meliodas, capitano dei Sette Peccati Capitali, che accetta di mettersi in viaggio assieme alla ragazza per raggiungere gli altri compagni dispersi e porre fine all’oppressione dei presunti protettori del regno. La trama alla base di The Seven Deadly Sins viene riassunta in una nutrita serie di sequenze non interattive che fungono da intermezzi per la modalità avventura, la prima delle due disponibili: all’interno della stessa, dovremo girovagare su e giù per Britannia a bordo di Mama Hawk, il colossale suino color smeraldo sulla testa del quale il succitato Meliodas ha costruito la sua osteria, fermandoci nei pressi delle città o dei luoghi più significativi per svolgere diverse missioni che, perlopiù, ci vedono impegnati a menare le mani contro guardie, mostri o altri personaggi della saga. La sintesi, a dire il vero, non è delle più esaustive e fornisce soltanto un modo per rivivere una selezione arbitraria di alcuni passaggi rilevanti, lasciando fuori molti dettagli necessari per comprendere appieno il susseguirsi degli eventi e le motivazioni di protagonisti e comprimari, perciò i neofiti intrigati dalle atmosfere del gioco farebbero bene a recuperare gli episodi dell’anime o, ancora meglio, il fumetto originale perché i primi sono già una trasposizione molto condensata del secondo. Le vicende abbracciano i capitoli relativi alla guerra tra i Sette Peccati Capitali e i Cavalieri Sacri di Britannia, più una buona parte degli archi narrativi tuttora in corso di svolgimento che giustificano la presenza di qualche personaggio aggiuntivo, con alcuni inevitabili anacronismi come certi personaggi da subito in possesso di armi o tecniche speciali che acquisiscono molto più in là.

Oltre a fornirci una scusa per demolire i variegati fondali e gli avversari che osano fronteggiarci, le missioni consentono di accumulare cristalli magici e sostanze particolari utili per sbloccare dei potenziamenti, oggetti speciali le cui proprietà garantiscono un certo numero di vantaggi applicabili sia in single player che in Duello, la componente multigiocatore del titolo, nella quale è possibile selezionare qualsiasi mescolanza di lottatori e power up per impegnarli in duelli senza esclusione di colpi, a patto che siano stati già abilitati nel corso dell’avventura. Il rovescio della medaglia insito nella campagna in solitaria consiste infatti nella sua imprescindibilità, dato che non ci è permesso utilizzare miglioramenti e personaggi se non abbiamo completato gli incarichi propedeutici alla loro fruizione, e ciò significa che non è raro incontrare giocatori online che possono usufruire di vantaggi (marginali ma pur sempre sostanziosi, come bonus di attacco o di resistenza) a noi inaccessibili se decidiamo di saggiare le acque degli scontri online prima di portare a termine l’avventura. Per fortuna, la lunghezza della stessa non è eccessiva, anche se la monotonia dell’andirivieni per le località con cui possiamo interagire sulla mappa, suddivisa in zone distinte, inizia a farsi sentire molto presto: ciascuna mansione richiede il completamento di un obiettivo a tempo, spesso con eroi e antagonisti prefissati, e viene valutata a seconda della bontà delle nostre performance sulle quali, di solito, influisce la frequenza di tecniche speciali e finali impiegate. Più è alto il giudizio, che comunque è sempre possibile migliorare in un secondo momento, maggiore è la percentuale di chiacchiericcio che i frequentatori del Boar Hat generano riguardo gli ultimi avvenimenti nella regione, abilitando di conseguenza nuove missioni principali e secondarie. Nel tentativo di spezzare la routine delle regolari zuffe, gli sviluppatori hanno provato ad inserire alcune varianti, come Elizabeth impegnata nella raccolta di ingredienti preziosi con il solo Hawk schierato in suo aiuto oppure l’assalto di creature gigantesche che non è possibile affrontare a mani nude: purtroppo, la mediocrità dei controlli implementati in questi casi rende tali diversivi più frustranti che gradevoli, considerato che il completamento di tali sezioni resta comunque imperativo.

The Seven Deadly Sins: Knights of Britannia
La mappa sulla quale ci spostiamo nel corso dell’avventura è incredibilmente dettagliata e ricca di particolari, tanto da fare invidia a quelle di molti RPG veri e propri.

Anche se tu dovessi morire, io manterrei la promessa che ti ho fatto!

Arriviamo quindi al fulcro di The Seven Deadly Sins: Knights of Britannia, ossia il suo sistema di combattimento: il gioco è in sostanza un arena fighter, un classico picchiaduro tridimensionale con i personaggi che possono muoversi liberamente all’interno dei confini invisibili e più o meno generosi di un ring. Gli appassionati di Ultimate Ninja Storm o Xenoverse troveranno immediatamente una certa familiarità con i comandi, ed i cristalli che attivano effetti particolari sul campo richiamano quanto accade nei vari Dissidia, anche se le competenze di Natsume-Atari in materia non sono paragonabili a quelle di Dimps o CyberConnect2 e dunque gli scontri soffrono di un certo grado di approssimazione che non conferisce a colpi e movenze la giusta “fisicità”. Lo schema di controllo è identico per ogni lottatore, che dispone di attacchi veloci e pesanti, tre tipi di colpi speciali dipendenti da una barra di energia magica che si ricarica nel tempo e una mossa finale usufruibile solo dopo aver riempito un secondo indicatore tramite la concatenazione di attacchi o la sopportazione di danni non letali, dunque va da sé che la differenza risiede tutta nella portata delle singole mosse. La categoria cui appartengono i personaggi incide sul loro comportamento in battaglia: quelli veloci possono spostarsi rapidamente e inanellare fendenti rapidi ma poco incisivi; quanti si avvalgono della loro potenza sono tanto lenti quanto inesorabili nell’attimo in cui riescono a connettere i loro colpi; i praticanti di magia, infine, sono in grado di volare e possiedono incantesimi devastanti ma, una volta esaurite le “batterie”, non possono far altro che fuggire e difendersi dagli assalti nemici in attesa che si rigenerino. La possibilità di cimentarsi in furiose dispute due contro due aggiunge uno strato di intensità supplementare alle battaglie, che non mostrano segni di incertezza nemmeno durante le mischie più concitate con gli spettacolari poteri dei contendenti che generano caos e devastazione in contemporanea sullo schermo.

The Seven Deadly Sins: Knights of Britannia
Gli attacchi speciali sono riprodotti con piccole scenette introduttive ed ampio utilizzo di effetti luminosi e particellari, come dimostra questo Revenge Counter di Meliodas.

I modelli poligonali dei personaggi sono estremamente fedeli alle loro controparti, e l’abbondanza di dettagli che ne incorniciano i gesti fanno la felicità degli amanti del manga e della serie animata. I fondali sono in egual modo ricchi di particolari e, soprattutto, di elementi da demolire, che spesso liberano l’accesso a porzioni di scenario altrimenti irraggiungibili. La verticalità degli scontri è lodevole e dà vita di frequente a caroselli di incursioni e schivate al fulmicotone sia a terra che a mezz’aria, anche se i dislivelli provocano talvolta seccanti errori di calibrazione e impediscono di chiudere a dovere certe combinazioni. Il lavoro svolto da Natsume-Atari è sicuramente derivativo, ma riesce ad amalgamare le parti migliori di molti altri picchiaduro dello stesso genere ben più blasonati in maniera fluida e scorrevole, tanto che il risultato finale è decisamente superiore alla somma delle sue singole parti. Il “peccato” più grande di Knights of Britannia è una mancanza generale di rifinitura che gli impedisce di distinguersi dalla massa dei tie-in pensati esclusivamente per quanti apprezzano l’originale, perché i fanatici di picchiaduro in generale non troveranno spunti di interesse sufficienti a motivarne l’acquisto, soprattutto a causa di un single player troppo vincolante e dell’assenza di ulteriori modalità di gioco a parte le sfide online o locali. Resta comunque un buon passo nella giusta direzione, che speriamo venga migliorato con un possibile sequel o con qualche altra licenza che adotti la medesima formula, magari smussata degli aspetti un po’ più frustranti.

Gioca da quando ha messo per la prima volta gli occhi sul suo Commodore 64 e da allora fa poco altro, nonostante porti avanti un lavoro di facciata per procurarsi il cibo. Per lui i giochi si dividono in due grandi categorie: belli e brutti. Prima che iniziasse a sfogliare le riviste del settore erano tutti belli, in realtà, poi gli è stato insegnato che non poteva divertirsi anche con certe ciofeche invereconde. A quel punto, ha smesso di leggere.