Dead Cells Recensione, il “roguevania” di Motion Twin approda su console

Dead Cells

Quello del metroidvania è un genere che è tornato parecchio di moda negli ultimi tempi: diversi progetti, soprattutto indipendenti, hanno restituito gran parte della dignità e del valore perduto a questi mai troppo apprezzati videogiochi in 2D, costruiti quasi del tutto attorno al level design e all’esplorazione e con una struttura non sempre lineare, con continue sfide dietro ogni angolo. Come la storia insegna, però, il passo fra il tornare – meritatamente – a far parlare di sé e il cedere al trito e ritrito è spesso fin troppo breve, ed è per questo motivo che i moderni esponenti del genere, per evitare di abbandonarsi a meccaniche eccessivamente derivative, hanno spesso dovuto trovare diversi metodi per potersi reinventare, talvolta dandosi all’ibridazione e facendolo anche in maniera piuttosto intelligente. Uno fra questi è Dead Cells, stuzzicante roguevania dal sapore action-platform giunto lo scorso anno in accesso anticipato su PC ed ora in procinto di sbarcare anche su console. Noi lo abbiamo provato, su Nintendo Switch, nella sua versione finale, rifinita e completa di tutti gli aggiustamenti apportati nel corso dei mesi, ed ora, insieme a voi e una volta per tutte, proviamo a capire se la sua formula di gioco ce la può davvero fare.

A primissimo impatto, Dead Cells potrebbe sembrare un comunissimo metroidvania, come tanti visti negli scorsi anni. Guai a farsi ingannare dalle apparenze, però: pur cavalcando la travolgente ondata di popolarità che ha di recente investito l’intero (o quasi) panorama dei videogiochi in due dimensioni, il progetto dei francesi Motion Twin non si limita a riproporre in maniera facilona una struttura già ben nota e ormai giunta fin quasi al suo massimo apice, grazie a Ori and the Blind Forest e al recente (e meraviglioso) Hollow Knight. Cerca, al contrario, di divincolarsi con tutte le sue forze da ogni possibile parentela, puntando con decisione sul gameplay come vero e proprio punto cardine dell’esperienza, più che, ad esempio, sull’estetica o sulla narrativa. La sua caratteristica chiave è la forte componente roguelike che lo permea dall’inizio alla fine e che, incastrata nello scheletro del gioco, contribuisce a farlo somigliare vagamente ad una sorta di ibrido fra un qualsiasi Castlevania e un Dark Souls in due dimensioni, ma sopratutto gli permette di combattere su un terreno diverso rispetto a quello calcato dai recenti e più noti cugini menzionati a inizio paragrafo. L’assunto che costituisce le fondamenta dell’avventura è piuttosto semplice: muori, impara, ripeti. Ai comandi di un innominato prigioniero con una strana fiamma viola al posto della testa – scordatevi, è bene ribadirlo da subito, una trama complessa – dovremo cercare di fuggire da un’isola irta di pericoli, dove praticamente ogni cosa che si muove ci vuole morti. Il gioco è caratterizzato da una progressione fortemente non lineare: morendo, si viene riportati sempre nella propria cella, obbligati a ricominciare daccapo. Ogni dipartita, però, non è assimilabile ad un nuovo inizio, bensì ad una vera e propria ripartenza da un checkpoint: run dopo run, infatti, il protagonista può sbloccare alcuni potenziamenti permanenti, fra cui diversi, preziosissimi progetti, che andranno scovati nei più remoti anfratti delle mappe e che gli consentono di rafforzarsi prima di ripartire, in modo da affrontare la successiva partita in maniera leggermente più semplice e procedere così fino alla fine del gioco.

Fin qui, a pensarci bene, nulla di davvero diverso, né di già visto su altri lidi. Come dicevamo poc’anzi, però, Dead Cells è anche un roguelike (o meglio, roguelite), e come tale è indissolubilmente legato alla generazione procedurale, mettendo ogni volta il giocatore di fronte a mappe completamente diverse e obbligandolo a muoversi con cautela in un ambiente che ogni volta deve imparare a conoscere di nuovo. Insomma, più che essere accompagnati alla fine, scalino dopo scalino, vi vengono messi in mano alcuni strumenti via via più potenti per affrontare in scioltezza le fasi più avanzate, ma la possibilità di sopravvivere ad ogni scontro e andare ogni volta un filo più in là è lasciata in mano a voi e alla vostra abilità. Se vi date al button mashing sfrenato, morirete prima di quanto possiate immaginare: quello degli sviluppatori d’oltralpe è un videogioco che – almeno all’inizio – non fa sconti a nessuno, provare per credere. Se non altro, potrete spostarvi fra le mappe già esplorate tramite un comodo sistema di teletrasporti, che rendono meno frustrante l’impatto iniziale e limitano il backtracking in alcune zone – il quale, malgrado la struttura stessa del gioco, non dà mai la sensazione di essere troppo invasivo – o, ancora, evitano di dover compiere di nuovo alcuni salti piuttosto complicati. Già, perché nel compendio di generi a cui si appoggia, Dead Cells è anche un platform: ogni tanto, in perfetto stile Super Mario Bros, potreste dover evitare pericolose pozzanghere tossiche, aste roteanti ed altri pericoli, posti ad intralciare il cammino fra una piattaforma e l’altra. L’anima esplorativa di ogni metroidvania che si rispetti non viene però sacrificata in favore di una progressione il più possibile rapida e orientata alla mera sopravvivenza, anzi: per poter andare avanti e scovare ogni segreto, è necessario accumulare quanto più denaro e cellule possibili. Se la prima valuta di gioco ci permette di acquistare armi ed equipaggiamenti perlopiù temporanei dai mercanti, la seconda, ottenibile come drop casuale, è il vero cuore di Dead Cells: raggiungere determinate safe room alla fine di ogni porzione di livello significa poter mettere al sicuro tutti i sudati globi blu, azione che rappresenta il segnale più importante di un’ effettiva e graduale progressione.

Dove la formula di gioco va un po’ a perdersi è forse nelle non studiatissime possibilità di approccio, che limitano un po’ le possibilità di sperimentazione e alla fine si riducono prevalentemente a due scelte: il classico combattimento melée, o, per i giocatori più abili e furbi, a distanza. A nostra disposizione abbiamo un sistema di movimento degno di un ninja, con doppi salti e capriole, e un rudimentale complesso di attacchi all’arma bianca, con la possibilità di deflettere i proiettili nemici tramite uno scudo o di eliminare ogni minaccia da lontano con un arco. Il gioco stesso pare suggerire questo doppio percorso, proponendo inizialmente la scelta fra guerriero armato di spada e scudo o arciere. Progredendo ci si può però “specializzare” anche come una sorta di ingegneri, dispiegando trappole e torrette sputafuoco sul campo di battaglia e lasciando che siano loro a fare la gran parte del lavoro. Queste ultime, insieme a qualche altro oggetto d’alto rango, facilitano forse un po’ troppo il compito sulla lunga distanza, specie se si riesce a entrare in possesso delle versioni con i migliori bonus. I pattern dei nemici, boss compresi, sono infatti sempre piuttosto prevedibili e in diversi casi – non tutti – basta schierare un paio di postazioni fisse e limitarsi a schivare gli attacchi per avere la meglio. Tutte le armi e gli equipaggiamenti disponibili si inseriscono all’interno di un vero e proprio loot system con oggetti suddivisi per tipologia e potenza, ma, se si escludono quelli realizzati tramite progetti, in gran parte destinati ad essere sempre persi in seguito ad una morte (in stile The Binding of Isaac, per capirci). Se siete fra quelli che tendono ad affezionarsi al proprio equipaggiamento, beh… pensateci due volte prima di farlo. Non è sbagliato, dicevamo, definire Dead Cells come un The Binding of Isaac in formato metroidvania. In maniera simile a quest’ultimo, la proceduralità non è un vero problema, anzi: le mappe, più che costruite attorno alla loro struttura generale, sono pensate per mantenere sempre fissi una serie di elementi familiari che fanno in modo di non sacrificarne eccessivamente il design. Gli scenari randomici, comunque, non arrivano mai ad avere chissà quale livello di complessità ed anzi permettono un avanzamento piuttosto spedito, con al massimo qualche semplice enigma da risolvere, fra interruttori per aprire porte vicine, e così via. Scopo del gioco, del resto, non è quello di farvi rimanere bloccati per ore a scervellarvi sullo stesso punto, ma piuttosto cercare, diventando sempre più forti, di arrivare quanto prima a padroneggiare il quadro generale, sacrificando i singoli obiettivi (e le singole morti). Gli elementi di originalità proseguono anche nello stile grafico, che propone ambientazioni realizzate in pixel art e trasudanti stile e ispirazione da tutti i pori. Certo, le vette raggiunte da uno Hollow Knight – non ci stancheremmo mai di menzionarlo – sono comunque lontane, ma, se non altro, anche sotto questo aspetto Dead Cells riesce a dire la sua.

Tirando un attimo le somme, c’è poco da girarci attorno: i talentuosi Motion Twin hanno fatto centro su quasi tutta la linea. Dead Cells è un progetto fresco e divertente, che riesce a distinguersi e a proporre un’alchimia tutta sua in un genere dominato da produzioni che puntano normalmente ad altri obiettivi. La semplicità apparente di alcune sezioni, se paragonate a concorrenti più noti e blasonati, non deve spaventarvi: più procederete, più il traguardo che il gioco punta a farvi raggiungere vi apparirà chiaro. La sua peculiare filosofia vi porterà a giocare una partita dopo l’altra, incapaci di smettere e desiderosi di potenziarvi sempre più per poter avere ragione di qualsiasi avversità, in un ciclo continuo molto simile a quello innescato da The Binding of Isaac. Comincerete quasi per caso e poi non vorrete più smettere. Ah, un consiglio: se potete, giocatelo su Switch. E senza pensarci troppo.

Nato nello scorso millennio con una console fra le mani e rimasto per molti anni confinato nel mondo distopico della Los Angeles del 2019, ha infine deciso di uscirne per divulgare al mondo intero le sue più grandi passioni: il videogioco in tutte le sue forme, il cinema (quello vero) e Dylan Dog.

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