Lo ammetto (e mi scuserete se, soltanto per stavolta, vi parlo in prima persona): nell’esatto momento in cui, in un teatro di Colonia, Raoul Barbet e Michael Koch di Dontnod erano in procinto di salire sul palco e svelare per la prima volta alla stampa le prime scene di Life is Strange 2, io non stavo più nella pelle. Malgrado l’eccezionale lavoro svolto da Deck Nine con lo spin-off Before the Storm, come altri attendevo con ansia il ritorno della casa francese, un team dotato di tanti sceneggiatori di talento, fra le braccia della serie che ne ha decretato il successo mondiale e che si è costruita, nel tempo ed anche grazie al passaparola seguìto al rilascio delle controparti retail, una solida e meritata fanbase fra le avventure grafiche moderne. La sfida, in questo caso, era ghiottissima: superare i propri eredi e superare sé stessi, realizzando una seconda stagione in grado di compiere uno step ulteriore verso l’evoluzione della narrativa all’interno di quel medium interattivo che tutti – quasi disgraziatamente, ormai – conosciamo con il nome di videogioco. Decretare se ce l’hanno fatta o meno al primo episodio (sottotitolato Roads) è un bel po’ prematuro, ma possiamo quantomeno iniziare a porci qualche domanda: la seconda stagione di Life is Strange è all’altezza di quelle che l’hanno preceduta? Vuole esserlo, vuole provare a calcare le stesse strade, o ad essere qualcosa di diverso? Ma soprattutto, ha ben chiaro in mente cosa vuole essere? Chissà.
Pronti, via, dunque, con lo spirito di un novello Peter Pan alla ricerca di nuove emozioni. Già, perché il primo episodio di Life is Strange 2 inaugura un nuovo capitolo della storia, aprendo le porte ad uno sviluppo a mo’ di serie antologica e presentandoci un microcosmo che, pur con rimandi tutt’altro che velati all’originale (e ci fermiamo qui per non rovinarvi la sorpresa), prova con tutte le sue forze a spingere i momenti felici vissuti in precedenza nello scatolone dei lieti ricordi da relegare in soffitta. Se avete adorato le storie di Max e Chloe, della Blackwell Academy e di Arcadia Bay, i primi dieci minuti di Life is Strange 2 vi colpiranno con la forza di mille pugni nello stomaco. E non vogliamo mentirvi: fa male. Fatta questa doverosa premessa – assolutamente vitale per non rimanere intontiti come successo a noi, fidatevi – possiamo fare finalmente la conoscenza dei nuovi protagonisti che accompagneremo nel corso dei prossimi mesi, Sean e Daniel Diaz. I due fratelli, di sedici e quasi dieci anni, vivono nei sobborghi di Seattle insieme al padre, trascorrendo le loro giornate in maniera del tutto normale, fra casa, scuola, battibecchi quotidiani e festicciole con gli amici. Il tutto, specie nei primi minuti, è gestito con una naturalezza che quasi sorprende, in particolare nell’innocenza del piccolo Daniel e nel rapporto sincero che lega il maggiore, Sean, alla migliore amica Lyla e al padre Esteban. In queste fasi, il gioco si prende – finalmente! – anche qualche libertà in più nel raccontare temi più intimi, come quando ci mostra un ansioso Sean alle prese con la sua “prima volta”, di lì a qualche ora. Dopo poco, però, e senza tempo ulteriore per approfondire alcunché, il disastro: un evento tragico e imprevisto li obbliga a una rocambolesca fuga da casa, portando con sé null’altro all’infuori di pochi averi raccolti in uno zaino. Da qui, Sean e Daniel intraprendono un lungo viaggio verso sud, dallo stato di Washington verso il confine con il Messico, loro terra di origine. Non c’è più spazio per guardarsi indietro, sembra dire Dontnod ai due giovani così come al giocatore stesso, che viene così indirettamente invitato a seguire e concentrarsi sulle loro vicende, dimenticando il passato.
La storia, anche per poter seguire questo diktat, è narrata in maniera non più circolare, con avvenimenti che nascono e muoiono – letteralmente – negli stessi luoghi, ma lineare: Sean e Daniel, perlomeno nelle battute iniziali della loro storia, vivono una girandola di situazioni, alle quali non fanno neanche in tempo ad abituarsi che già sono di nuovo sulla strada, all’addiaccio e in perenne fuga, convivendo in un contesto per loro del tutto inedito. Dite addio, dunque, alla rete di personaggi che popolavano la Blackwell Academy e i suoi dintorni: qui contano soltanto le poche persone con cui Sean e Daniel interagiscono, l’una dopo l’altra. I ritmi più compassati ci presentano la sequenza di eventi in un modo che teoricamente dovrebbe esaltare ognuno di essi e renderlo più significativo, in modo da legarci maggiormente ai personaggi; sfortunatamente, se escludiamo un paio di momenti, fra cui c’è persino spazio per una denuncia sociale all’America trumpiana, non è mai esattamente così. Si ha la perenne sensazione che siano gli stessi Dontnod a suggerirci quanto i loro nuovi personaggi e le vicende di questi ultimi siano dannatamente interessanti, senza lasciarci neanche per un attimo il tempo di affezionarci a loro. Sean e Daniel non sono di per sé personaggi anonimi, come emerge soprattutto nella loro caratterizzazione iniziale, ma – prologo escluso – finiscono per comportarsi come tali. Il primo episodio, malgrado ci provi con tutte le sue forze – e si vede – non fa molto per aiutarci ad empatizzare con loro, se non nei primi minuti di vita quotidiana a Seattle. E dire che, se si lasciano stare solo per un attimo le vicende e si prova a immedesimarsi nei singoli personaggi, si riesce comunque a scorgere un po’ dello spirito à la Life is Strange perduto, innocente e primordiale, sempre lì in attesa di sbocciare. Il rapporto fra Sean e Daniel rimane però narrato con troppa sufficienza per gran parte delle vicende, iniziando ad evolversi soltanto nelle battute finali dell’episodio e nella scena precedente ai titoli di coda. Bisogna ammettere che non era affatto facile introdurre e strutturare da subito due personalità totalmente nuove, ma, specie in una situazione così difficile, l’unione fraterna dei due ragazzi avrebbe potuto emergere un po’ di più e farsi maggiormente sentire dal punto di vista emotivo, soprattutto considerati i misteriosi poteri telecinetici di cui Daniel è in possesso, che rinnovano la vena soprannaturale propria della serie. I poteri del ragazzo, peraltro, sono al centro di una serie di eventi fondamentali, che tengono insieme la storia e le permettono di evolversi: il tutto, però, rimane in uno stadio poco più che introduttivo e stenta a lasciar intuire i possibili sviluppi futuri dell’intreccio, con buona pace della suspence che aveva permeato la chiusura di Chrysalis, la prima delle cinque parti dell’originale Life is Strange.
Anche nella struttura non siamo di fronte a chissà quale evoluzione, ma sono stati compiuti alcuni passi avanti verso un’esperienza più gradevole e naturale: Sean, l’unico del duo ad essere direttamente controllabile, può ad esempio tenere traccia di obiettivi multipli nel suo diario, opzione, mutuata da Captain Spirit, che contribuisce a rendere la progressione un po’ più snella, ma al contempo svilisce un po’ (solo un po’) quel senso di scoperta e intima meraviglia che a tratti cadenzava l’avventura di tre anni fa. In aggiunta, Sean può dare vere e proprie lezioni di vita al fratellino, parlando con lui a più riprese di ciò che si para loro davanti, ad esempio insegnandogli a non rubare: questa è solo una delle piccolezze che possono essere esplorate – noi stessi abbiamo avuto la netta sensazione di non averle scovate tutte – e che contribuiscono, più delle stesse conversazioni nei momenti topici, a rafforzare il loro legame, unico, vero faro (colto il riferimento?) che ne guida le vicissitudini. Se non altro, la linearità della storia – sviluppo che speriamo non sia soltanto illusorio, ma che al contrario venga portato avanti con maggior convinzione – ha anche un tratto positivo: permette di ponderare con più attenzione le proprie scelte e di tendere a empatizzare coi personaggi secondari (uno in particolare), dispiacendosi quando poi se ne vanno per sempre per la loro strada. Per il resto, non vogliamo mentirvi: gli appigli davvero positivi da cui partire per elogiare le vicende di questo primo episodio sono davvero pochi; il racconto, malgrado i suoi buoni spunti in alcuni momenti, finisce per avere il sapore di un’occasione un po’ persa per strada nell’introdurre degnamente un nuovo mondo e gli elementi che lo popolano. Un vero peccato, specie ripensando – e credeteci, non avremmo mai voluto attaccarci a certe frasi – ad un passato che, col senno di poi, comincia in maniera preoccupante a diventare ancor più glorioso. Le uniche note a non avere un sapore tristemente agrodolce stanno nel comparto tecnico e in quello sonoro: nel primo caso, dimenticato Unity, che pure aveva mosso degnamente Before the Storm, si torna all’Unreal Engine, mantenendo sostanzialmente inalterata la ben nota, malinconica identità visiva del capitolo originale, anzi, arricchendola di uno spettro di colori completamente nuovo. Ad accompagnare Sean e Daniel sulla loro strada, poi, ritornano le note di Jonathan Morali, leader dei Syd Matters: garanzia, anche da questo punto di vista, di qualità assoluta, sebbene ancora manchino brani davvero memorabili.
Roads, il proemio introduttivo di Life is Strange 2, si presenta come un cocktail bellissimo e anche guarnito con cura, ma disgraziatamente fin troppo insipido nel sapore, soprattutto pensando alla pesante eredità che si porta dietro. Il nuovo microcosmo messo in piedi da Dontnod Entertainment all’interno dello stesso universo, pur tutto sommato ben pensato, resta – almeno per ora – monco di qualcosa, nella convinzione e negli intenti, per emergere in maniera davvero forte e poderosa. L’originale Life is Strange esplodeva prorompente fin dal primo episodio, che aveva una chiusura emotivamente degna di un film hollywoodiano; la seconda stagione, malgrado voglia provare a ripartire dagli stessi dogmi registici e di scrittura, mettendoli al servizio di una storia del tutto nuova, finisce invece per cominciare con un boccone ancora troppo acerbo. Se dovessi azzardare un paragone ludico, non potrei negare che giocando il primo episodio ho in parte provato le stesse sensazioni avute con Unravel Two, se paragonato al memorabile e commovente platform che segnava l’esordio nell’industria di Coldwood Interactive. Life is Strange si è evoluto, ma deve aver perduto per strada, da qualche parte, un pezzo della propria anima. Ci auguriamo che, nel loro lungo viaggio, Sean e Daniel Diaz riescano a ritrovarla.