Nel corso di Milan Games Week, la più grande rassegna nazionale dedicata al videogioco, abbiamo potuto intervistare David Cage, autore di capolavori come Heavy Rain e ovviamente il recente Detroit: Become Human. Ospite della fiera in qualità di Guru, Cage è una vecchia conoscenza di chi scrive, che ha avuto modo di firmare un saggio sulla sua opera assieme al Vice Direttore di GamesVillage Guglielmo De Gregori e alla Vice Direttrice di Fondazione VIGAMUS, Micaela Romanini. Come sempre, Cage si è dimostrato un interlocutore estremamente affascinante e interessante da ascoltare, in virtù delle sue idee all’avanguardia su cosa può e deve essere un Videogioco oggi, che lo pongono come uno dei più grandi innovatori viventi del medium. GamesVillage del resto ha premiato Detroit: Become Human, riconoscendo nel gioco una forte matrice sociale e politica, che è stata proprio al centro della nostra discussione con l’autore francese.
Iniziamo la nostra intervista dicendo che ho avuto modo di finire e recensire Detroit: Become Human, a cui abbiamo assegnato uno dei voti più alti sulla nostra testata, GamesVillage. Lo ritengo uno dei tuoi lavori migliori di sempre e l’ho amato davvero. L’ho finito due volte, prima di scrivere la review, perché volevo provare la strada “violenta” e quella “pacifista”. La mia prima domanda riguarda quindi il post-lancio del gioco, le tue impressioni. Non solo in termini di vendite. Dopo tutto questo lavoro, come vedi il tuo gioco? A volte gli autori hanno la sensazione che gli sarebbe piaciuto poter cambiare questa, o quell’altra cosa…
Non sono quel tipo di persona… Quando qualcosa è finito, è finito. Non ho pentimenti, o niente del genere. Quantic Dream è davvero fiera del gioco, abbiamo avuto la sensazione di aver lavorato a qualcosa di speciale, e quando il gioco è stato pubblicato abbiamo ricevuto una conferma di tutto ciò. Abbiamo avuto un feedback straordinario dai fan di tutto il mondo, è veramente qualcosa di pazzesco. Non abbiamo mai avuto questo tipo di feedback con i nostri giochi, neanche con Heavy Reain o Beyond: Due anime. Si è creata una vera community intorno al gioco. E siamo rimasti sorpresi, perché la gente l’ha davvero compreso, l’ha amato per quello che è e tutte le idee che volevamo trasmettere sono passate. E questa è probabilmente una delle cose che ci ha reso più felici.
Penso che sia davvero forte a livello emotivo. Per esempio, quando l’ho rigiocato ci sono alcune scelte che per me erano davvero impossibile fare… Le ho viste su YouTube, ma non le avrei mai potute fare. Per esempio, quando tradisci la bambina, e rimane abbandonata… Stavo già piangendo solo guardando il video, ma non l’avrei mai potuto fare nel gioco, dove avrei dovuto agire in prima persona.
È curioso che citi questa scena, perché è stata ispirata in effetti da un film italiano, La vita è bella. Sono rimasto così colpito da quel film quando l’ho visto, che mi sono detto: come fai ad andare avanti quando esci da un campo di concentramento? E la fuga dal campo era molto interessante per me, perché mi ha permesso di mettere in dubbio l’empatia del giocatore nei confronti della bambina. Abbiamo cercato di costruirla, momento dopo momento. Ma se raggiungi quel punto e dici semplicemente “Oh, non mi importa, me ne vado”, allora vuol dire che in un certo senso abbiamo fallito, ma fortunatamente non è andata così. Abbiamo scelto di rendere Alice importante, ma anche di dimostrare che si possono provare delle emozioni per un androide… e per il personaggio di un videogioco.
A volte, nell’industria del videogioco non piace l’idea che le opere abbiamo dei messaggi politici o sociali forti, perché i produttori ne hanno paura. Preferiscono abbandonarsi al puro intrattenimento. Ma sono convinto che ci siano profondi significati che vanno oltre il semplice raccontare una storia. Puoi elaborare su questo aspetto?
In tutta onestà, questa è stata una sorpresa per me. Quando abbiamo lanciato il gioco, ero convinto che avremmo trasmesso principalmente delle idee di stampo umanista. Non è molto politico, è piuttosto un avvertimento sui rischi della tecnologia, e su quello che succede quando ne diventiamo troppo dipendenti. Essa non ci deve rendere più egoisti, ed è per questo che dobbiamo stare attenti alla direzione che prendiamo. Allo stesso tempo, un altro messaggio centrale era: rispettare le persone diverse da noi. Credo che sia un tema universale e largamente accettato nella games industry. E invece no. Il gioco è stato reputato shockante da molte persone nell’industria, e a sua volta questo fatto ci ha stupiti. Come si possono criticare certe idee? In realtà, la faccenda era più complessa. Alcune persone intendevano dire che un videogioco non può parlare di problemi del mondo reale, dev’essere puro intrattenimento, un libero sognare. È folle. Non ha senso. Ed è divertente, perché le persone che affermavano di amare così tanto i videogiochi, sono le stesse che discutevano del fatto che un videogioco non potesse entrare in determinati territori. Sono stato molto sorpreso, e onestamente shockato, dalla polemica legata alla scena della violenza domestica. Avevamo questa scena, dove interpretate Kara e dovete confrontarvi con un uomo…
Ma cosa c’è di male? Il gioco non sta dicendo che è giusto, anzi, è l’esatto contrario!
Mi ha mostrato la confusione che c’è là fuori, tra le persone che guardano Detroit e dicono “Oh, è un videogioco, con tematiche molto delicate… ma un gioco non dovrebbe parlarne”. Sono le stesse persone che magari glorificano la violenza e pensano che alcuni argomenti siano troppo seri per essere ludicizzati. Questa cosa mi ha davvero shockato. Ma poi ci sono state delle vere vittime di violenza domestica che hanno provato Detroit, e hanno potuto rivedere nella mia opera la stessa situazione che hanno vissuto. Abbiamo ricevuto tantissimi messaggi da donne che ci hanno ringraziato per aver affrontato un simile tema, di cui si parla davvero poco e certamente non nei videogiochi. Per me tutto questo è stato davvero caotico, non ho capito da dove sono nate certe reazioni, provenienti perlopiù da alcune frange della stampa… e non certo dai giocatori. L’altro esempio che ho avuto è la scena del bus, all’inizio del gioco, dove Markus va in fondo al bus, appunto. E certe persone hanno detto “O, mio Dio, questo è l’apartheid, ma è solo un gioco con gli androidi, non puoi mostrare certe cose”. Ovvio che è serio, ma questo è un modo per parlarne. E magari alcuni hanno familiarità con il tema dell’apartheid, ma tante altre persone no, e questo è un modo per parlarne, un modo per dire che esistono delle differenze, in base all’etnia, alle origini, all’orientamento sessuale… e questo va bene. Dobbiamo solo accettarlo, e chiamare queste persone esseri umani. E tutto il gioco tratta di questo messaggio, ed è stato davvero strano vedere alcune di queste reazioni, che secondo me non erano affatto legittime o chiare nelle loro intenzioni.
Anche prima del lancio di Heavy Rain, mi ricordo che avevi detto che a volte la parola “gioco” può essere un problema per i videogiochi. Proprio per questo motivo, perché la gente dice che non si può fare un “gioco” sul razzismo, o sulla violenza domestica. È stato essenziale per elaborare anche i nostri studi e l’idea di gioco come esperienza interattiva. È come quando si è cominciato a chiamare i fumetti “graphic novel” per far capire alla gente la loro identità.
È quello che succede a ogni medium. Voglio dire, inizi creando intrattenimento, ma poi gli autori iniziano a voler dire qualcosa alle persone, a comunicare qualcosa che può essere significativo per loro. Poi iniziano a dire qualcosa di significativo per la collettività. E alla fine questa è la strada che porta a diventare arte. Con questo non voglio dire che tutti i videogiochi debbano seguire questo percorso, dico solo che possiamo usare l’interattività per divertirci, e questo è fantastico, ma possiamo usarla anche per dire qualcosa. E non c’è niente di male neanche in questo. È molto impegnativo farlo, perché si tratta ancora di territori inesplorati, ma quando dicevo che è possibile fare videogiochi sul razzismo, lo pensavo davvero. Ma è la stessa cosa che è avvenuta con Heavy Rain, quando ci siamo resi conto che era possibile lavorare con le emozioni in un gioco e creare qualcosa di forte. E ora, 8 anni dopo Heavy Rain, nessuno dice il contrario, tutti vogliono che ci siano le emozioni in un gioco. Ma quando l’abbiamo fatto con Heavy Rain, le persone ci dicevano: “Cosa state facendo? È un videogioco, fate sul serio?”. E adesso è normale. Con Detroit volevo creare un’esperienza significativa, un’esperienza interattiva. Non la prima, né l’unica. Ma l’abbiamo fatto a modo nostro, e sono convinto che vedremo molti altri giochi in futuro che sceglieranno questa via, perché è la più naturale per ogni medium.
Capisco. Quando ho giocato Heavy Rain avevo da poco perso mia figlia, pochi mesi prima dell’uscita del titolo. Heavy Rain fu quindi ancora più importante per me sul piano personale, e il suo impatto su di me fu enorme. Ma il gioco mi aiutò, perché fu un’esperienza davvero forte e mi sentii vicino ai personaggi.
Sai qual è la cosa più importante per me, nella mia carriera di scrittore? Abbiamo ricevuto tonnellate di messaggi dai fan, sui social network, via e-mail… alcuni vengono persino nel nostro ufficio. E la cosa davvero incredibile è quando le persone vengono da me e mi dicono: “Hai giocato un ruolo nella mia vita, mi hai aiutato ad accettare o comprendere qualcosa”. Quando inizi a essere uno scrittore scrivi semplicemente le tue storie, e non hai grandi ambizioni, ma quando qualcuno viene da te e ti dice che l’hai aiutato in qualche modo, ne sei incredibilmente fiero. C’era questa donna che mi ha detto di aver lasciato la sua casa, perché vittima di violenza domestica, e il gioco le ha permesso di capire quello che stava vivendo. A quel punto ho pensato che, se anche avessi dovuto fare quel gioco solo per quella persona, ne sarei stato felice.
Penso che tu sia un grande autore, ma anche un grande uomo.
Se in qualche modo riesci a fare qualcosa che aiuta qualcuno, non stai sprecando il tuo tempo.
Una domanda più tecnica sull’uso degli attori nei videogiochi. È una relazione da sempre controversa nei videogiochi, come per esempio quando Chris Roberts usò molti attori famosi per Wing Commander IV: The Price of Freedom. A volte aiuta il gioco, a volte invece è un po’ strano…
Onestamente, nella mia esperienza non aiuta mai il gioco. Ho lavorato con attori incredibili, da David Bowie, a Willem Dafoe, a Ellen Page. Avere qualcuno famoso nel tuo gioco non ti aiuta mai, perché la gente pensa che è stato speso tutto per averli sulla copertina, e quindi sicuramente non si tratta di un gran titolo. È più una questione di marketing. Ma in realtà noi non l’abbiamo mai fatto per ragioni di marketing. Quando abbiamo lavorato con David Bowie, è stato perché lo amavamo, per il suo talento e la sua musica, e quindi la sua presenza è stata un incredibile valore aggiunto per il gioco. Ma le persone pensano sempre che sia marketing, che gli attori lo facciano per pagare le bollette… ma non era quello il caso. Nella mia esperienza quindi no, non aiuta. Questo non mi impedirà di farlo in futuro, ma la priorità è trovare la persona e il talento giusto, se poi è anche famoso… be’, è un effetto collaterale. Quello che mi importa di più è il talento.
Magari le tecnologie moderne permetteranno di integrare la recitazione nei giochi digitali.
Di sicuro. Non devi usare sempre la stessa faccia, poi anche usare Willem Dafoe e cambiare la sua… In fondo è quello che abbiamo fatto, abbiamo creato avatar degli attori, abbiamo scannerizzato il loro corpo e la loro faccia, così potevamo avere le loro vere performance. In questo caso per esempio avevamo Clancy Brown, che intepreta Hank, penso che sia grandioso. È fantastico, un fantastico attore e una fantastica persona. Oppure abbiamo Lance Henricksen [storico interprete dell’androide Bishop nella saga di Alien].
È curioso che Henricksen interpreti un umano in un mondo di androidi!
È stato davvero divertente farlo. È probabilmente uno degli androidi più famosi nella storia del cinema, e ho pensato che sarebbe stato curioso usarlo come umano nel mondo di Detroit.
La mia ultima domanda è sul sesso nei videogiochi. È ancora difficile vedere situazioni o scene sessuali nei videogiochi, mentre la violenza non è un problema solitamente. Mi piacerebbe inoltre avere il tuo parere su quello che sta succedendo a livello globale sull’argomento del sessismo.
Il sesso è qualcosa di difficile da replicare nei videogiochi. Ci abbiamo provato in passato, in Heavy Rain o in Beyond, dove c’erano delle scene d’amore e non c’era niente da scandalizzarsi al riguardo. Ma il videogioco è un medium molto specifico ed è davvero difficile inserire simili scene. Non so perché, forse ci sono delle ragioni storiche, è sempre stata una piattaforma rivolta ai teenager, e per i teenager il sesso è sempre stato qualcosa da vivere personalmente piuttosto che un argomento di cui parlare seriamente. Penso che sia un peccato, non si tratta di mostrare il sesso solo per il gusto di farlo, ma il sesso è una parte della vita. La relazione fisica può essere nobile, può essere arte, può essere sentimento. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, in realtà non credo sia qualcosa di legato specificamente al videogioco, è più qualcosa che stiamo vivendo a livello globale, come la misoginia… è complesso. Nella nostra industria non è più forte che altrove.