Call of Duty: Black Ops 4 Recensione, il ritorno al futuro di Treyarch

Black Ops 4

Quella di Call of Duty è una saga che è entrata di diritto a far parte della storia dei videogiochi negli ultimi dieci anni, e questo, che se ne parli bene o male, è un dato di fatto. Intaccata non tanto dal prepotente ritorno sulle scene degli FPS vecchia scuola, DOOM e Wolfenstein su tutti, quanto da una recente altalena qualitativa che ad un certo punto sembrava poterne minare il predominio sul mercato, la serie primadonna di Activision non è mai davvero morta, anzi, ha continuato a macinare numeri multimilionari anche negli anni di buio, cominciati con l’arrivo di Advanced Warfare, un titolo sperimentale e mai davvero apprezzato dai fan di lungo corso. La rotta non è stata invertita neanche con i capitoli successivi, che, pur mantenendo un buon tenore di vendita, non sono riusciti a cementificare appieno il loro esagerato sistema di movimento nei meandri di un DNA fondato su basi parecchio diverse. Dopo la parentesi (parentesi?) nostalgica di WWII, anche il filone futuristico ritorna con i piedi per terra: a fare da apripista non poteva che essere Call of Duty: Black Ops 4, realizzato da Treyarch. Si, proprio quelli di Black Ops 1 e 2, che a parere di chi vi scrive rientrano fra i più bei Call of Duty boots on the ground mai concepiti. Tornando a quel che sa fare meglio, il team capeggiato da David Vonderhaar ha confezionato un capitolo che recupera diverse caratteristiche dai suoi più amati e lontani predecessori, non rinnega totalmente le nuove idee introdotte con Black Ops 3 e al contempo fa da punto di rottura, portando con sé alcune novità atipiche per il franchise. Insomma, tutto e niente, direte voi. E invece no.

La prima novità che salta all’occhio una volta avviato Black Ops 4 per la prima volta è la totale assenza di una modalità storia, che solitamente accoglie il giocatore alle prime armi e lo invita pian piano ad avvicinarsi al resto dell’esperienza, fungendo da palestra e da contraltare per le modalità online. Benché non certo sottovalutabile, il mancato inserimento di una campagna singleplayer è tutto sommato giustificato, visti gli obiettivi che nel suo complesso il gioco vuole raggiungere e gli sforzi profusi altrove. Lo stesso Black Ops 3, dopotutto, contava su una sequela di missioni abbastanza posticcia e tutto sommato dimenticabile; nulla a che vedere con le pregevoli campagne dei suoi due predecessori, che però avevano già esaurito una vena narrativa non poi così profonda. Meglio lasciare a Sledgehammer il compito di narrare storie, avranno pensato in Treyarch, soprattutto visto quanto fatto con WWII; Black Ops 4 va in tutt’altra direzione, affidando il compito di fare da portabandiera al solido comparto multiplayer, alla modalità Blackout e all’ecosistema zombi, mai così curato e complesso come quest’anno, in una tripartizione che ha il difficile obiettivo di convincere un po’ tutti. Ma, tolti i salti potenziati e le corse sui muri, diranno i nuovi giocatori, avvicinatisi alla serie negli ultimi anni, cosa rimane al comparto online di Call of Duty? La risposta è semplice: tutto. Pensate a un Black Ops 2 con una buona dose di adrenalina, condito con il più frenetico sistema di movimento – se si considera il solo piedi a terra – di Black Ops 3, e andrete molto vicino ad immaginare quello che, nei fatti, è Black Ops 4. Treyarch è riuscita a trovare la chiave di volta che ancora mancava per raggiungere un equilibrio quasi perfetto, senza le esagerazioni dell’immediato predecessore ma senza neanche più l’eccessiva lentezza e goffaggine nei movimenti di qualche anno prima, ormai poco compatibile con il brio e la frenesia acquisiti dalla serie negli ultimi anni. Nelle basi, è stato fatto un passo indietro per poterne fare uno avanti, ripartendo da un sistema che nel suo complesso aveva convinto molto di più e sviluppandolo, ma senza nemmeno rinnegare completamente quanto prodotto tre anni fa: chi ha preferito Black Ops 2, in questo modo, non resterà scontento e percepirà il quarto capitolo come un’evoluzione, mentre chi si è avvicinato alla serie a partire da Black Ops 3 ritroverà la solita azione ritmata e frenetica, che, per la gioia degli appassionati, non ha perso una virgola neppure del suo ormai indissolubile legame con gli eSports. Black Ops 4 è in possesso di tutte le caratteristiche che gli servono per lasciarsi apprezzare, e, pur privo di un elemento chiave del recente passato, convince molto di più.

Dalla ludografia recente della serie, Treyarch ha ad esempio ripreso la struttura basata sugli Specialisti, ulteriormente rivista e potenziata, fino quasi ad inglobare caratteristiche da hero FPS, alla Overwatch, per capirci. La strada è quella giusta, ma il bilanciamento va in parte rivisto: alcune ultimate, in particolare quella di Nomad (che richiama sul campo un’unità K9 micidiale) sono ancora troppo forti rispetto ad altre molto meno incisive, come quelle di Firebreak o Crash. Perlomeno è stato fatto ordine da questo punto di vista, uniformando tutti i personaggi selezionabili nella struttura e nell’attivazione dei power-up e delle skill, demandate ai tasti dorsali. L’unica in comune fra tutti i personaggi è quella legata al ripristino della salute, che ora va attivata manualmente dopo ogni scontro a fuoco e possiede anch’essa un proprio cooldown, seppur più breve delle altre; a controbilanciare un cambiamento così rilevante giunge la maggior quantità di HP a disposizione e il conseguente aumento del TTK, finalmente utile a premiare l’abilità più che la fortuna. Intendiamoci, non si tratta di elementi che stravolgono l’esperienza, ma la ritmano in modo un po’ differente, dandole più tattica: proprio come la ricarica, ora anche la cura ha acquisito un peso calcolabile all’interno dell’ecosistema di gioco. C’è ancora da lavorare sul bilanciamento, dicevamo, ma i passi in avanti rispetto a Black Ops 3 sono tangibili: ne viene fuori un gunplay che, anche grazie a bocche da fuoco come sempre ben pensate e diversificate, non molla la propria identità di un millimetro ed anzi riesce ad essere meno ingiusto e al contempo più divertente. Anche le mappe fanno il loro, sebbene alcune avrebbero forse potuto essere meglio disegnate e strutturate specie nella loro parte centrale, che diventa spesso terra di nessuno, favorendo così i giocatori più abili e dominatori delle zone periferiche. Ad aumentare – e di tanto – la qualità media giungono quattro fra gli scenari più amati del primo Black Ops, il che lascia pensare ad ulteriori rievocazioni storiche future, aggiunte nel Season Pass. Strutturalmente, invece, il sistema ha funzionato tutto sommato più che bene nel recente passato e non ha quindi richiesto che qualche minima modifica. Le modalità giocabili non contengono chissà quali sorprese rispetto al solito e la creazione delle classi ricalca pedissequamente l’ormai consolidato pick 10, che permette di scegliere dieci elementi a piacimento fra armi ed accessori per personalizzare il proprio equipaggiamento; in particolare, va segnalata la possibilità – opzionale – di rinunciare alla propria skill peculiare per inserire in inventario una granata o un tomahawk, cambiamento comprensibile nell’ottica di un ecosistema sempre più legato agli Specialisti piuttosto che alle classi. Tornano quasi invariati anche prestigi, opzioni estetiche e compagnia cantante, anche se nel momento in cui scriviamo mancano completamente le microtransazioni, che però verranno aggiunte entro qualche giorno, ad evitabile corollario di una lista di cose da fare e oggetti da sbloccare come sempre mastodontica e interminabile.

Quest’anno, però, Call of Duty può contare su un ulteriore asso nella manica per estendere la sua già quasi infinita longevità: la modalità Blackout, con la quale il gioco di Treyarch fa il suo ingresso nel settore dei battle-royale, per provare a distruggere o quantomeno a incrinare il dominio di Fortnite. Pur strutturata in modo molto classico, Blackout si pone un po’ a metà fra il gioco di Epic e Playerunknown’s Battlegrounds, che fanno affidamento l’uno sulla skill e sulla velocità di esecuzione, l’altro sulla tattica e sullo studio della conformazione della mappa. Nel suo complesso, l’esperienza è davvero ben bilanciata: Call of Duty è riuscito a calarsi perfettamente in una struttura da battle-royale senza dover neppure passare attraverso un vistoso lavoro di adattamento, che si è risolto semplicemente con qualche minimo ritocco ai controlli e una leggera selezione delle armi e degli oggetti più adatti alla modalità. Diversi elementi, tra l’altro, donano a quest’ultima ulteriore profondità: la limitata balistica di alcune armi, pensate per le distanze ben più ridotte delle claustrofobiche mappe multiplayer, finisce per simulare una involontaria parvenza di realismo e invita i 100 giocatori (se si gioca a squadre di quattro o due giocatori, altrimenti in solitaria il numero massimo è limitato a 88) ad una spasmodica ricerca dei pochi DMR o fucili di precisione presenti nella mappa, uniche armi in grado di controllare vaste porzioni di territorio. A sua volta lo scenario, percorribile a piedi o con pochi veicoli (barche, quad, camion), è nel suo complesso sufficientemente ampio pur non stabilendo nuovi record dimensionali, anche se la zona calpestabile tende a restringersi un po’ troppo in fretta, caratteristica volta probabilmente a dare un po’ più di brio e rapidità alle partite. Che si stia giocando da soli o in compagnia, Blackout convince e diverte, si dimostra ben più che un piacevole diversivo con cui inframmezzare le proprie sessioni in multiplayer ed è dotata di un sistema di progressione tutto suo, che permette di sbloccare e utilizzare anche le skin degli Specialisti e dei personaggi della modalità zombi. Insomma, promossa – per ora – a pieni voti, con la speranza che non venga abbandonata a sé stessa. Treyarch, dal canto suo, ha promesso un supporto imponente a questa modalità: vedremo se i patti saranno rispettati, e se tra sei mesi sarà ancora giocata come oggi. Forse la carta davvero vincente per rivaleggiare con Fortnite, quella che permetterebbe a Black Ops 4 di competere ad armi pari anche nelle visualizzazioni su Twitch, sarebbe il passaggio della versione base di Blackout, anche priva di eventuali update contenutistici futuri, ad una formula free-to-play.

A chiudere il pacchetto giunge infine la modalità zombi, ormai una garanzia dai tempi di World at War ed evolutasi a livelli che dieci anni fa sarebbero stati quasi impensabili. Parliamo comunque di una formula che funziona da anni e che, al netto di aggiustamenti e migliorie, è riuscita sempre a rimanere sulla cresta dell’onda. Quella di Black Ops 4, senza troppi giri di parole, è la sua miglior versione di sempre, ed è suddivisa in due tipologie: la prima classica, a tutti gli effetti una sorta di sostituto della campagna, pensata per chi vuole principalmente seguire l’intricata storia e la lore, che si dipana nell’arco di diversi anni, e poi la modalità assalto, più difficile, per i giocatori competitivi che badano subito al sodo. Entrambe sono riservate a un massimo di quattro giocatori e si svolgono nelle medesime quattro mappe (con altre attese nel corso del tempo come contenuti a pagamento). Vista l’assenza di una storia – ma anche in Black Ops 3 era così, dopotutto – è nella modalità zombi che il gioco raggiunge il suo massimo spessore narrativo, anche se la sua sola presenza non basta a convincere appieno chi mastica gli FPS cooperativi più che quelli competitivi. Forse, a ben vedere, uno dei maggiori punti di forza e insieme dei problemi più grandi di Black Ops 4 sta proprio nell’offrire ai giocatori tre esperienze molto differenti (multiplayer, battle-royale, zombi) in una: valutarne un futuro scorporo, che permetta di proporle in forma stand-alone e indipendenti l’una dall’altra non è affatto sbagliato, anzi. Prima di giungere alle conclusioni è d’obbligo qualche nota sul comparto tecnico: visivamente il gioco poggia sullo stesso, solido motore di sempre, evolutosi nel corso del tempo e in grado di garantire i 60 fps senza tentennamenti anche in Blackout (perlomeno su PC e Xbox One X). Black Ops 4, però, soffre di un tick rate piuttosto basso, che fa si che molte volte si abbia una percezione di poca fluidità anche quando i fotogrammi rimangono stabili. Si tratta di un problema inaccettabile per una produzione di tale caratura e che da anni punta tutto sulla fluidità d’azione, anche se Treyarch ha già promesso di essere al lavoro per alzare tale valore e intervenire per migliorare il netcode, uno dei pochissimi aggiustamenti ancora necessari per far si che Call of Duty torni davvero grande, come e forse persino più dei suoi giorni migliori. A Black Ops 4 manca davvero un pelo per riuscirci, anche perché si parla di problemi risolvibili nell’arco di un paio di update successivi al lancio: vedremo se di qui a poche settimane l’obiettivo potrà dirsi centrato.

Call of Duty: Black Ops 4 è a tutti gli effetti il miglior capitolo della serie dai tempi di Modern Warfare 3 e Black Ops 2, ossia da 6-7 anni a questa parte. Il periodo intercorso dal 2013 allo scorso anno sembra solo un lontano e brutto ricordo; tornando con i piedi per terra, in tutti i sensi, Treyarch ha ricordato al mondo intero come si sviluppa un Call of Duty degno di questo nome, anche agli stessi colleghi di Infinity Ward, al lavoro insieme a loro sul franchise (e chissà che, a proposito, dall’anno prossimo la competizione fra i due studi non torni ai leggendari livelli pre-Ghosts). La modalità Blackout convince, zombi è ormai una garanzia, il multiplayer ha raggiunto un livello di solidità impressionante: trovare dei difetti in tutto questo non è mai stato così difficile negli ultimi tempi, e anche l’assenza di una campagna sembra quasi un pregio, visto il livello raggiunto da altre parti. Tolti i problemi legati al netcode, che però dovrebbero essere risolti in poco tempo, e il lieve sbilanciamento di alcune armi e abilità nel multiplayer, arginabile a suon di update, l’unico appunto vero e proprio che ci sentiremmo di muovere non sta tanto nel titolo in sé, quanto nella scelta di Activision di distribuirlo come pacchetto completo a 70 euro, senza dividere le tre parti che lo compongono e consentire ai giocatori di assemblarle a mo’ di puzzle nel modo a loro più congeniale. I tempi stanno cambiando: anche un mostro sacro come Call of Duty, dai prossimi anni, dovrebbe rendersene conto.

Nato nello scorso millennio con una console fra le mani e rimasto per molti anni confinato nel mondo distopico della Los Angeles del 2019, ha infine deciso di uscirne per divulgare al mondo intero le sue più grandi passioni: il videogioco in tutte le sue forme, il cinema (quello vero) e Dylan Dog.