Fallout 76: l’ultimo degli MMO Single Player

Fallout 76

MMO si, MMO no. Il mondo dei videogiocatori un tempo, si divideva in queste due semplici categorie. Oggi, viviamo costantemente online: connessi in ogni secondo della nostra vita ad occhi aperti (e forse presto anche ad occhi chiusi). Pensateci: dal vostro smartphone, al vostro televisore. Dalla stampante nel vostro ufficio, alla vostra automobile. La grande rete è ovunque e oggi si guardano insieme film online, connessi su Skype o altre sistemi di videochiamate, con i nostri amici o fidanzati/te del caso in collegamento dall’altro capo del mondo. Questo stato di essere, ha modificato la nostra società a 360° e con essa, anche il modo di “videogiocare”.

Un modo di videogiocare costantemente condiviso; un enorme hub dove persino mentre si è impegnati davanti a un match dell’ultima versione di FIFA, ci si ritrova a chiacchierare amabilmente con quell’amico dannatamente letale con qualsiasi personaggio di Tekken. E non è forse questa, l’ultima e più evoluta espressione del termine “Massive Multiplayer Online”? Penso di essermene reso realmente conto, della chiara e cristallina realtà in cui verte il videogioco moderno, davanti a Destiny: uno sparatutto online con i vestiti dell’FPS da lupo solitario (DOOM?). Dove nessuno realmente sente le storie raccontate da maestosi filmati pre-renderizzati, o legge tonnellate di informazioni disperse su pianeti e ambientazioni che sembrano prese a piè pari dagli ultimi volumi di Blame!, perché tutti troppo impegnati a raccontarsi a vicenda la giornata passata al lavoro o a scuola. Tanto, basterà fare una corsa insieme fino al segno giallo sulla mappa lasciando scie di cadaveri alle nostre spalle, no?

In realtà, non basterà ogni volta. Ma è la nuova evoluzione dell’MMO, del gioco condiviso, della pallida imitazione e ombra del World of Warcraft che cambiò un tempo il nostro concetto di giocare. E sebbene oggigiorno tutta questa condivisione sembri rassicurare psicologi e giornalisti generalisti del caso, perché così il gioco unisce invece che isolare in scantinati (vorrei far vedere a questi signori filmati d’epoca di pomeriggio passati a pane, nutella, e split-screen), non rassicura a quanto pare neanche la maggior parte della popolazione videogiocatrice, almeno a guardare la media del 3,0 affibbiata dall’utenza a Fallout 76. I commenti sono chiari e condannano, oltre agli inevitabili bug a cui ci ha da sempre abituato Bethesda (e che non rappresentano per il sottoscritto il reale problema della questione), la mancanza di Storia, di Personaggi. Di missioni degne di nota oltre il porta l’oggetto X nel punto Y, o salva tutti ribelli sotto assedio. Dove le più lunghe battute di testo saranno quelle dei vostri amici che riecheggiano nelle vostre cuffie.

Fallout 76 Cover

Quindi cosa fare? A parte con tutta probabilità saltare a piè pari questo “esperimento” in casa Fallout? La cosa più triste che mi viene da dire sull’intera faccenda è che si raccoglie sempre ciò che si semina: finché esperienze del genere riscuoteranno successi e piogge di soldi che vadano ben oltre i loro reali meriti (Fortnite?), questa sarà la minestra che ci ritroveremo in tavola. Almeno, la maggior parte delle nostre fredde serate. Perché se Fallout 76 cambiasse nome, adesso, con un generico e poco fantasioso “Atomic Worlds”, riceverebbe ben altri commenti nella rete. E anche, ne sono convinto, dagli stessi giornalisti incaricati di giudicarlo. Se me lo chiedete, però, tutto questo non è affatto sbagliato. Tutto questo è dannatamente giusto. Utilizzare un nome di un brand, che vale centinaia di milioni di dollari, per lanciare un gioco che la sua community non ha mai chiesto e che mai potrebbe volere, dati i suoi gusti, la sua età media e il suo reale tempo libero a disposizione, non è affatto corretto.

Fallout 76

Tuttavia, questa shit-storm che sta invadendo ogni spazio, questo odio così feroce, da essere quasi ingiustificato in alcuni casi, nei confronti di Fallout 76, mi ha scosso nel profondo perché segnale, inconfondibile, di un evento inevitabile e terribile: la fine dell’esperienza Single Player come gli over-30 possono ancora ricordare, con piacere e ben presto soltanto nei loro più rosei sogni. Che poi sia possibile rendere elevata, commerciale e godibile, una “esperienza da single player condivisa online”, come ultimo baluardo di un genere che fu… è tutto ancora da constatare.

E nel dubbio, io continuerò la mia personale manutenzione di tutte quelle console che proprio a quelle esperienze, su quei pomeriggi e quelle notti da lupo solitario, devono il loro successo nell’immaginario videoludico di tutti noi.

Comincia la sua carriera di videogiocatore nel lontano 1985, quasi in fasce, grazie alla passione del padre per il cabinato di Space Invaders. Da quel momento, ha votato la sua vita al videogioco: prima come redattore di riviste specializzate, poi come marketing manager di Fondazione VIGAMUS, su i progetti VIGAMUS & VIGAMUS Academy,. E sì, "Revolver" è in onore dell'inossidabile Ocelot di Metal Gear Solid. Quello di un tempo, almeno.