PlayerUnknown’s Battlegrounds e il voyeurismo videoludico

PUBG

Io guardo la finestra attraverso il mirino 4x del mio fucile d’assalto. Lei, sul divano, da pochi centimetri, guarda me. Sono passati 22 minuti di grinding oculato, corse tra i campi, una sola kill. Siamo rimasti in 11, dice il contatore. Sento dei passi a sinistra, la porta che si apre. Mi giro, sparo. Ma lui, l’altro, spara meglio di me. “Ecco, sei un cretino, io te l’avevo detto”. Torno alla lobby e mi preparo ad un’altra partita di PlayerUnknown’s Battlegrounds.

PlayerUnknown’s Battlegrounds

Giochi di coppia

A mia moglie piace guardare. Meglio, le piace guardarmi mentre gioco con altri. Prima ancora del fenomeno Twitch e dei numeri milionari degli streamer più famosi, c’eravamo già io e mi a moglie. Pochi mesi dopo il nostro fidanzamento, eravamo già sul divano nella più classica delle posizioni. Io, letteralmente, con il pad in mano. Lei, a sinistra, a guardarmi giocare. Siamo partiti con i giochi Nintendo, ché – pensavo – sono la migliore delle porte di ingresso per chi, ai videogiochi, non ha mai dedicato tempo. Le piace guardarmi, appunto. Le piace comandarmi. Se con Yoshi’s Woolly World abbiamo imparato a conoscerci, con The Witcher 3 ci siamo innamorati. “Ok, puoi andare da Triss, ma ricordati che hai preso un impegno con Yen”, mi ricordava. Poi, tre anni, una bambina e decine di giochi condivisi sul solito divano, ci siamo ritrovati davanti a PlayerUnknown’s Battlegrounds. Quasi a voler contraddire la teoria dell’evoluzione. Della specie, e pure ludica. Maledetta l’anteprima assegnatami di una vecchia e scassata build, giocata nel silenzio delle cuffie.  Maledetta, invece, quella domanda, cui non avrei dovuto dare risposta. “Che gioco strano, di che si tratta?”. Maledetta la mia risposta.

PlayerUnknown’s Battlegrounds

Fenomeni paranormali

Giocare PUBG è come guardare Sanremo. Nessuno ci gioca, ma poi ci giocano tutti. Nato su PC da una costola di Arma II e poi sbarcato su Xbox One, il gioco arriva ora su Playstation 4 con un’opinione pubblica, quella degli intenditori e dei filosofi, che lo identifica come il male dell’industria. Senza PUBG, d’altro canto, non esisterebbe Fortnite. Senza PUBG, forse, Black Ops 4 avrebbe avuto una campagna single player. Senza PUBG, un sacco di altre cose non sarebbero accadute e altre ne sarebbero successe. Non basta, però, trasformare una comunità nella versione tarocca del MOIGE per nascondere i meriti del titolo. Sì, anche quelli ludici. Dietro a PlayerUnknown’s Battlegrounds e derivati, ruotano, infatti, istinti primordiali capaci di stimolare parti del cervello spesso a riposo. Il concetto stesso di Battle Royale, così tanto criticato, provoca dipendenza, ma anche eccitazione mista a paura e tensione. Lo avverte il giocatore, lo avverte, pure, chi guarda. Si crea, tra utente attivo e passivo, una sorta di rapporto simbiotico, alle volte persino interattivo. Il fenomeno, quello vero, è nato così. Dalla bellezza di guardare e giocare qualcosa di brutto, eppure irresistibile. PUBG non è stato il primo gioco a farlo, ma il primo a farlo capire. Il primo, appunto, a dare vita ad una nuova perversione legata al videogioco. In fondo, non criticavano pure i Beatles? Troppo pop, diceva qualcuno. Dureranno pochi mesi, diceva qualcun altro. Eppure, sono ancora lì. E non è detto che PUBG, stagione dopo stagione, non riesca a mantenere negli anni il suo status di gioco “brutto ma bello”. Woody Allen, sul tema, ci ha costruito una carriera.

“Dovresti proprio paracadutarti in quel punto”, mi ripete lei. Quasi che, da solo, non sia capace di decidere. Seguo, ancora una volta, i suoi consigli, mirati alla sopravvivenza piuttosto che all’attacco. Sono fortunato, perché la mappa di gioco si restringe proprio attorno a me, accovacciato in uno stanzino sudicio ad est di Sanhok. Uccido il primo, uccido il secondo, mi ammazzano alle spalle, mentre il contatore mi dice che sono rimasti solo in 3.  C’ero davvero vicino, stavolta. “Ecco, sei stato bravo”, mi dice. Poi ci alziamo dal divano e andiamo a letto.

Michele Iurlaro è iscritto all'albo dei giornalisti pubblicisti e dei praticanti professionisti. Scrive molto. Scrive troppo. Da troppo tempo