She’s Gotta Have It 2 Recensione

She's Gotta Have It 2

She’s Gotta Have It 2 | Quando nel 1986 nelle sale cinematografiche americane veniva proiettato per la prima volta Lola Darling il pubblico afro-americano deve essere letteralmente saltato dalla sedia. In un background che in molti definirono Off-Hollywood, in un contesto ancora genuinamente underground, nascevano futuri astri della regia come Michael Moore, Jim Jarmusch e, non ultimo, Spike Lee. Sulla scena americana si apriva quindi uno spiraglio verso un cinema non necessariamente “bianco” e “maschile”, ed in un’atmosfera come questa il giovane Spike sembrava essere l’epigono prediletto per raccontare come si viveva davvero in da ‘hood.  Promessa mantenuta quella del regista di Fa’ la cosa giusta, che nell’ultimo anno – uno dei più duri per le comunità afroamericane – ha firmato un capolavoro come BlackKklansman, ed ha riportato alta l’attenzione su episodi di razzismo come l’attentato di Charlottesville. Con She’s Gotta Have It però le cose sembrano essere andate non proprio secondo i piani, e che ci sia qualcosa che non quadra nel format della serie lo si evince anche nella seconda stagione.

She's Gotta Have It 2

Una scena della seconda stagione

In She’s Gotta Have It 2 la protagonista non sembra cadere mai

Come si diceva prima, Lola Darling deve essere stata una specie di bomba molotov lanciata in un’industria ancora troppo unidirezionale. Quel film raccontava l’emancipazione sessuale di una ragazza di colore con poeticità ed altrettanta consapevolezza civile, facendo della Lola di allora una sorta di personaggio-manifesto di un’intera generazione di ragazze. Allora, in un periodo prepotentemente influenzato dal caso Weinstein e dal conseguente movimento #MeToo, dalle parti di Netflix avranno pensato che rispolverare quella Lola, quei suoi tratti, quella sua voglia di indipendenza, sarebbe stata una mossa editoriale più che vincente (ed anche emotivamente condivisibile). La serie pilota della prima stagione è, difatti, un aggiornamento millennial del film di partenza, che racconta di una Lola alle prese con tre amanti dalle sembianze identiche a quelle del lungometraggio e vive in un quartiere molto più hipster di ciò che si poteva vedere in passato. Superate le peripezie di quei primi 10 episodi, la moderna Lola torna dunque sullo schermo e, in She’s Gotta Have It 2, lancia nuove tematiche di carattere sentimentale affrontando il topic dell’amore omosessuale. Scelta coraggiosa (ma non di certo inedita), trattata con la sensualità e l’erotismo di cui Lee è sempre stato capace, che tanto deve alla bravissima DeWanda Wise nei panni della protagonista. Il problema è che questa nuova Lola seriale, anche stavolta come nella prima stagione, dimostra di avere un problema non indifferente: cade sempre in piedi. Lola è indubbiamente un personaggio che cambia nel corso della sinossi, ma ciò accade senza scossoni davvero brutali, senza che alcun avvenimento sposti più di tanto gli equilibri del suo mondo. Ciò è un problema almeno per due motivi: il primo è che un personaggio che vive comodamente le proprie difficoltà non è un personaggio accattivante, che provoca empatia; il secondo invece è che, se ti chiami Spike Lee, devi saper parlare degli ultimi, di chi si sbuccia le ginocchia per strada e mangia la polvere pur di ricominciare. Non di chi si lancia nel vuoto col paracadute.

She's Gotta Have It 2

DeWanda Wise

Uno Spike Lee senza Blackness

Nel momento in cui la blackness sembra essere tornata alla ribalta grazie ai lavori di Jordan Peele (Scappa – Get Out, Noi), di Tillman Jr. (Il coraggio della verità) e della Ava DuVerney che ha realizzato la serie Netflix When They See Us  in She’s Gotta Have It  manca proprio quel tipo di mordente, che Lee racconta sempre con amestria. Ciò che resta del “cinema del Bronx” non è altro che una serie di prototipi-macchietta messi lì più per soddisfare un dovere morale che per raccontare il disagio.

Ma uno Spike Lee senza blackness è come un film di Tarantino senza violenza o di Nicolas Winding Refn senza luci fluorescenti. Si badi bene, con questo non si vuole dire che un regista deve restare incatenato alle istanze che lo hanno reso celebre. In She’s Gotta Have it ci sono comunque delle intuizioni linguistiche interessanti, come quella di inserire dei frame con la copertina dell’album che ha fatto da colonna sonora alle scene appena concluse. La vera questione però è: c’era davvero il bisogno di tirar fuori una serie di due stagioni da un film ancora così attuale? E, se sì, non era forse il caso di pigiare l’acceleratore nel raccontare situazioni solitamente poco trattate? Peccato, un’occasione persa.

Gianluca la passione per il cinema la scopre a 4 anni, quando decide che il suo supereroe nella vita sarà sempre e solo Fantozzi. 
Poi però di quella passione sembra dimenticarla fin quando, un giorno, decide di vedere uno dietro l’altro La Dolce Vita di Fellini, Accattone di Pasolini e La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Da quel momento non c’è stato verso di farlo smettere di scrivere e parlare di cinema, in radio e su portali online e cartacei. 
Vive a Roma perché più che una città gli sembra un immenso set su cui sono stati girati chilometri e chilometri di pellicola. 
Odia le stampanti.