C’era una volta a Hollywood Recensione

C'era una volta a Hollywood

C’era una volta a Hollywood Recensione | Quentin Tarantino è uno di quei maestri della Settima Arte che maggiormente ha contrassegnato un arco temporale che va dagli anni ’90 fino ai nostri giorni: con la sua tecnica atipica, particolarmente divisoria nel pubblico, ha creato un modo nuovo e innovativo di fare cinema. Fin dagli esordi, con Le iene (Reservoir Dogs) del 1992, era piuttosto evidente riconoscere elementi molto particolari e tratti distintivi che poi avrebbero caratterizzato i lungometraggi successivi. Una cifra stilistica talmente evidente che è riconoscibilissima in tutte le sue opere: da Pulp Fiction a Django Unchained, da Kill Bill a Bastardi senza Gloria. E finalmente, dopo 4 anni da The Hateful Eight, ci troviamo al cospetto di un altro lavoro del regista e sceneggiatore di Knoxville, partito con pochi soldi in tasca ed arrivato a corteggiare i più grandi interpreti dello star system. Questo è un traguardo importante per l’artista, che con C’era una volta a Hollywood (qui trovate il trailer finale), segna il suo nono film interamente diretto e scritto da lui: e proprio per tale motivo, la sua ultima fatica è forse una delle creature più distanti dagli altri suoi parti filmici del passato. Vediamo quindi come ha saputo reinventarsi l’autore e se effettivamente un cambio così repentino sia lodevole di menzione o un elemento stonato nella sua carriera.

C'era una volta a Hollywood

L’incontro tra Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), Cliff Booth (Brad Pitt) e Marvin Schwarzs (Al Pacino) è importante per l’inizio della storia.

C’era una volta a Hollywood: un amore senza fine per il cinema

L’opera, in tutta la sua potenza artistica, è la più grande dichiarazione d’affetto che poteva rivolgere Tarantino al mondo delle pellicole: dall’inizio alla fine, la realizzazione è sia un tributo gigantesco alle sue opere preferite (con citazioni pazzesche, a livelli maniacali), che, in qualche modo di riflesso, ai suoi precedenti prodotti, in particolare agli ultimi due film ideati dall’uomo. Jerome non ha mai nascosto, infatti, il suo amore incredibile per i cosiddetti spaghetti western, genere reinventato totalmente dai registi italiani, che è sempre stato d’ispirazione per il filmaker statunitense. In aggiunta a quanto detto, i vari personaggi si muovono in una Hollywood dei tempi d’oro magnificamente rappresentata: le sfavillanti luci della ribalta, le rockeggianti musiche anni ’60, le colorate strade di Los Angeles, l’ambientazione è luminosa ed energica, e stupendamente spettacolare. L’estetica, inoltre, non rimane piatta e finta, per così dire, ma è profondamente viva e traboccante di energia, tanto da trasportare tutto l’uditorio, come in un viaggio nel tempo, nel periodo suddetto. La trama poi è quella ciliegina sulla torta che va a completare una narrazione più lineare del solito, ma funzionale alla storia da raccontare: seguiremo quindi, in un viaggio emotivo, l’attore Rick Dalton e la sua controfigura Cliff Booth, ma anche brevemente le vicende di Sharon Tate, moglie del noto Roman Polanski. Se l’artista di turno (Leonardo DiCaprio) vive una fase buia della sua esistenza, il suo compagno stuntman (Brad Pitt) lo supporta come meglio può, dimostrando nel tempo libero il suo fascino e l’innata caparbietà, mentre la giovane interprete (Margot Robbie) vive il suo personale sogno a LA. Il gigantesco cast alle spalle della realizzazione (costituito da molte apparizioni secondarie come quelle di Al Pacino, Bruce Dern, Kurt Russell e molti altri) ma soprattutto dai performer sopracitati, è mostruoso.  Troviamo un DiCaprio in gran spolvero che non finisce mai di stupire per il suo talento, con il quale giostra magistralmente un oceano incredibile di emozioni; una Robbie inedita, dalla fresca e ridente ingenuità (il contrario della modella tentatrice in The Wolf of Wall Street) e un Pitt sagace e spiritoso, la miglior spalla di sempre.

Qualcuno qui ha ordinato crauti flambé?

Il Tarantino che non ti aspetti

Siamo arrivati finalmente a parlare delle tante decantate differenze con gli altri lavori del maestro. È un dato di fatto: l’opera in questione è forse la più estranea alla filosofia di Quentin, che senza ombra di dubbio, ha voluto reinventare il suo stile e mettersi in discussione, con un colpo di mano rischioso. Dire che il lungometraggio non funziona sarebbe un’eresia terribile, ma le profonde difformità che abbiamo menzionato snaturano moltissimo le caratteristiche peculiari che abbiamo imparato ad amare in quasi trent’anni del suo cinema. Non vedrete massicciamente (come di consueto) monologhi di grande costruzione, la sua tipica violenza esagerata ed esplosiva, la sua ironia traboccante e cinica, spesso sconclusionata. Tutto questo ci sarà, ma non sarà l’argomento principale stavolta: i vari aspetti verranno percepiti come echi lontani e l’attenzione si sposta completamente sulla riproduzione gigantesca e un po’ rarefatta della Los Angeles delle vecchie glorie, delle ville imponenti, delle fastose feste dei Vip. L’unico elemento che cozza con la patinata atmosfera è il marciume evocato dalla setta di Manson, colpevole di atroci atti durante quegli anni. Un aspetto totalmente negativo ed estraneo che regala delle scene di pregevole fattura, ma che non si amalgama a sufficienza con il resto dello script, soprattutto nel finale, incredibile e clamoroso come in altri film, ma costituito da una rilettura personale del regista che forse poteva essere gestita meglio. Fermo restando che ci troviamo di fronte ad una pellicola riuscita e brillante nel suo complesso, alcune scelte potrebbero far discutere il suo fedele pubblico, abituato ad una messa in scena in alcuni casi estremamente lontana dal film che abbiamo appena descritto. Per carità, il sapersi rinnovare in generale non è negativo, ma i troppi cambiamenti sono in parte deleteri.

C’era una volta a Hollywood è l’ennesimo titolo di Quentin Tarantino che riesce a trionfare nel vasto mondo cinematografico attuale: regala emozioni, cattura e immerge lo spettatore in uno sfavillante viaggio nella Los Angeles di fine anni ’60, dove, sotto un velo di apparente ricchezza e perfezione, hanno avuto luogo le efferatezze compiute da Charles Manson e dal suo gruppo di devoti. Seguendo le gesta dei principali tre protagonisti, non potremo che rimanere ammaliati da quanto vedremo, perché assisteremo ad una storia credibile, affascinante e verosimile di quel periodo e ne vorremo fare parte anche noi. L’enorme omaggio del re del pulp verso il panorama filmico, dal sapore nostalgico e malinconico, si discosta però incredibilmente dal suo classico repertorio e un po’ di rammarico per queste mancanze si sente parecchio. Tuttavia, non si può non amare lo stacanovismo del cast e dell’autore stesso, che hanno portato avanti un progetto immenso, probabilmente tra i più papabili canditati agli Oscar di quest’anno.

Massimiliano è un amante a tutto tondo dell'intrattenimento, dal cinema e serie tv fino a passare ai videogiochi. Sincero appassionato del mondo Marvel, di Star Wars e della cultura pop, nel tempo libero divora libri e graphic novel di qualsiasi tipo, con la predilezione per Moore e Gaiman. Sogna in futuro di diventare uno scrittore talmente tanto influente, da poter governare la mente dei suoi lettori, e ci sta lavorando con molta costanza!