Mindhunter Stagione 2 Recensione

Mindhunter

Mindhunter Stagione 2 Recensione |La mente dei serial killer è un labirinto oscuro e particolarmente intricato, eppure l’agente Holden Ford (Jonathan Groff), protagonista della serie Netflix Mindhunter è convinto di poterla decifrare e anticipare. La sua convinzione si basa sugli esperimenti in forma di dialogo che sono stati tema ricorrente della prima stagione della serie prodotta da David Fincher e Charlize Theron. Se li si ha avuto modo di conoscere le nuove teorie nascenti riguardo l’identificazione di un serial killer, in questa seconda stagione vediamo quanto appreso essere messo alla prova. Dal dialogo con alcuni dei più temuti serial killer della storia americana, tra cui il famigerato Charles Manson, ci si ritroverà dritti nel cuore dei terribili omicidi di Atlanta, dove tra il 1979 e il 1981 furono rapiti e ritrovati morti 28 adolescenti di colore. Il risultato di questa seconda stagione è un perfetto seguito a quanto realizzato con i primi dieci episodi del 2017, e  che anzi supera in qualità narrativa e registica quanto precedentemente visto, addentrandosi sempre più nelle oscurità della mente criminale.

Mindhunter Stagione 2

Oscurità e simbolismo.

Mindhunter Stagione 2: narrare, non mostrare

Tra le cose che più colpiscono di Mindhunter, vi è il suo appartenere al genere crime senza tuttavia mostrare neanche una sola goccia di sangue. Non vi è violenza in questa serie, non mostrata almeno. Contravvenendo ad una delle teorie più celebri del cinema e dell’audiovisivo in generale, alla parola è affidato il ruolo di protagonista. È attraverso lunghe e intense conversazioni, condotte dagli agenti Ford e Bill Tench (Holt McCallany), si verrà costretti ad ascoltare i più minimi particolari di atroci omicidi, con il risultato che quanto non direttamente visto viene tuttavia perfettamente immaginato. Non ci si poteva attendere altro da una serie che punta ad entrare direttamente nella mente dello spettatore, costringendolo a fare i conti con quanto di più perverso ci possa essere. Questa seconda stagione non è da meno, anzi prosegue il discorso arrivando sempre più a stilare un profilo del serial killer tipo, attraverso cui è possibile individuare personalità ad esso corrispondenti, cercando di prevenirne le mosse. Per una narrazione basata su questi principi occorre naturalmente una regia in grado di sfruttare al massimo il potenziale della sceneggiatura, trovando il modo più appropriato per trasporla in immagini. Fortunatamente il regista David Fincher, maestro del genere, non si tira indietro e dirige i primi tre episodi della stagione dettandone nuovamente il canone. Attraverso il suo classico annullamento della mano autoriale, Fincher riesce a porre un perfetto equilibrio tra forma e contenuto, dove l’uno non prevale mai sull’altro ma anzi si sposano perfettamente per raggiungere insieme il miglior risultato possibile. Sarà sufficiente guardare una qualunque scena d’interrogatorio per sentirsi improvvisamente attanagliati da un forte senso di inquietudine e malessere. In scene come queste Fincher rimane incollato ai suoi personaggi, con inquadrature pressoché fisse. Li lascia parlare, e contemporaneamente arricchisce la messa in scena con dettagli come il taglio dell’inquadratura, i suoni, la fotografia, la recitazione, per accompagnare visivamente quanto si sta ascoltando. Il risultato è incredibile, mozzafiato, e si può facilmente sentirsi preda del labirinto mentale nel quale ci si è introdotti.

Mindhunter Stagione 2

La Storia entra in gioco

Discorso che si accentua ulteriormente in questa seconda stagione di Mindhunter è quello del peso della Storia nella narrazione drammatizzata. Per quanto si attenga sempre a personalità esistite e fatti realmente avvenuti, Mindhunter non manca ovviamente di una propria componente romanzata. Ora più che mai, però, all’interno della serie è la Storia, che qui si concentra sugli omicidi di Atlanta, a condurre la linea narrativa della stagione, che risulta essere molto più orizzontale rispetto alla precedente stagione. C’è un momento ben preciso in cui questo avviene, ed è durante la marcia di protesta da parte della comunità di colore. Qui si passa brevemente dalla ripresa in digitale alla pellicola da filmino amatoriale. Questo cambio di supporto è il tentativo di far entrare la Storia in un prodotto che per trattare ciò di cui tratta ha bisogno di una referenza che lo supporti. Le finte immagini di repertorio di un evento pubblico realmente avvenuto si fondono così con la narrazione, come una vera e propria dichiarazione di intenti, che pone Mindhunter su di un livello ben più alto di altre serie del genere, ribadendo anche il suo valore di testimonianza.

Una seconda stagione che nasce ovviamente dalle radici piantate dalla prima, e che porta a maturazione quegli elementi che l’hanno resa interessante e ora la fanno grande. Curata con grande maniacalità, come se gli autori stessi fossero i primi serial killer, Mindhunter Stagione 2 lascia ancora una volta spiazzati, costringendo lo spettatore a provare la frustrazione di non poter avere sempre tutte la carte in mano, proprio come non sempre appare possibile prevedere le mosse dell’assassino.

Gianmaria è sempre stato un grande appassionato di cinema e scrittura, tanto da volerne fare la sua professione. Studiando queste materie all'Università decide di fondere le sue passioni nella critica cinematografica e nella scrittura di sceneggiature. Tra i suoi autori preferiti vi sono Spike Jonze, Noah Baumbach e Richard Linklater.

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